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Per una politica più che umana: pensare l'evento

di Giulio Pennacchioni

eventoL’obiettivo dell’ultimo numero dell’Almanacco di filosofia e politica, pubblicato da Quodlibet lo scorso marzo[1] e a cura di Rita Fulco e Andrea Moresco, è duplice: riflettere sullo statuto ontologico-politico della categoria di “evento” e sul rapporto «tra evento storico, conflitto politico e forma istituzionale»[2]. In continuità con i numeri precedenti dell’Almanacco, l’evento si rivela quindi essere uno spazio all’interno del quale è possibile collocare una riflessione sul pensiero istituente. L’evento è dove avviene la trasformazione delle istituzioni, lo sviluppo di alcune e il declino di altre, che non vanno quindi considerate dei “blocchi monolitici” immutabili, bensì delle “strutture” dinamiche e aperte a cambiamenti. Come spiegato[3] da Roberto Esposito, che oltre a dirigere le uscite dell’Almanacco, è tra i filosofi italiani che più si è occupato della nozione di “istituzione”, si tratta di un «concetto che supera l’ambito strettamente politico-giurisdizionale entro il quale siamo soliti collocarlo, e che designa invece sia la forza, la potenza impersonale (ontologica) incorporata alla vita, sia l’intrinseca vitalità (politica)»[4].

Trasformazione delle istituzioni che, come emerso nei tre precedenti volumi dell’Almanacco, non è mai separata da una prassi antagonista, quella dei conflitti sociali, che va anzi assunta a suo punto di inizio. Conflitti politici e sociali che non sono certo mancati durante la crisi scatenata dal Covid 19 (Black Lives Matter, movimenti femministi e per la giustizia climatica, scioperi per la sicurezza sul lavoro e in difesa del salario, scioperi nelle carceri, reti di solidarietà e mutualismo, per citarne solo alcuni) e da cui un “pensiero istituente” può svilupparsi.

Questa capacità trasformativa dei conflitti, dell’evento, può darsi sia a partire dalle istituzioni, aprendo e mobilitando nuove possibilità all’interno delle stesse, sia da movimenti all’esterno di queste, «che ne provocano la crisi e il deperimento»[5]. Compiendo quindi quella stessa operazione teorica messa in atto da Foucault, il conflitto, secondo Roberto Esposito, è una “diagnosi del presente”, che come evidenziato altrove[6] da Rudy M. Leonelli, non è mai soltanto un’analisi critica della realtà, ma porta con sé un grado di inattualità, di violazione e trasformazione della stessa. E affinché quest’ultima avvenga, va affiancata all’analisi del presente, dell’istituito, la possibilità dirompente e conflittuale dell’evento, del pensiero istituente[7].

L’evento è dunque l’obiettivo critico di questo Almanacco, considerato a partire dal significato che tale nozione ha assunto nelle filosofie post-heideggeriane nell’ambito del post-strutturalismo francese. Come sostenuto da Étienne Balibar in una conferenza del 2003, per la prima volta riportata in traduzione italiana proprio in questo Almanacco, si tratta di fare i conti con la «svolta evenemenziale»[8] della filosofia occidentale del XX secolo, che ha “installato” «nella storicità una problematica trascendentale dell’evento»[9]. L’evento trascendentale diventa quindi la conditio sine qua non del divenire storico e di un pensiero del divenire. Malgrado ciò, come specificato dai due curatori in Prefazione, la “svolta evenemenziale” della filosofia ha talvolta pagato in termini di storicità, mancando di interrogarsi sull’effettivo rapporto tra l’evento e le sue condizioni di possibilità sociali, politiche, culturali. Contro i “vuoti” lasciati dall’interpretazione strutturalista dell’evento, lo scopo di questo Almanacco è allora quello di riconsiderare quella “fessura”, quello “scarto interno” delle istituzioni, che è appunto l’evento e che, per citare Merleau-Ponty, è «autoproduzione di senso»[10].

Una riflessione sull’evento non può più mancare di essere inserita all’interno della situazione storica in cui emerge, così come un pensiero che sia istituente può cominciare solo prendendo in considerazione quel “salto” determinato dall’evento, da cui non sarà mai completamente separato. Il rapporto fra il concetto di evento e quello di istituzione non va quindi pensato come un processo di continuo adattamento di quest’ultimo nei confronti del primo, quanto piuttosto di continua riconfigurazione dell’istituito, che a sua volta darà nuova forma a quell’evento che incarna. L’evento, inserito all’interno di quelle dinamiche storiche (istituite) in cui emerge, ma al tempo stesso irriducibile ad esse, verrà quindi a sua volta modificato, proprio da queste. Questa co-implicazione fra l’evento e l’istituzione, da non considerare comunque come un processo lineare, «ripetizione priva di momenti di stasi»[11], è il nodo centrale di questo volume dell’Almanacco.

La prima parte dell’Almanacco si sviluppa intorno al dibattito filosofico generato dall’evento della pandemia globale. Scopo di questa sezione, Interventi, è quello di ospitare riflessioni non sulla pandemia in sé e per sé, quanto piuttosto quello di riportare varie letture della stessa, differenti tra loro, ma che cercano tutte di coglierne gli aspetti più rilevanti dal punto di vista filosofico e ontologico-politico.

Biopolitica e istituzioni è il titolo del primo contributo, di Roberto Esposito, che ruota tutto attorno ai concetti foucaultiani di bios e zoe. Roberto Esposito inizia prendendo le distanze dalle critiche rivolte da più parti contro il pensiero di Foucault emerse nel corso della pandemia e dovute proprio al puntuale risconto che alcuni suoi concetti hanno avuto durante questi due anni (ad esempio quello di “disciplinamento della popolazione” o di “medicalizzazione della società”). La riflessione di Foucault, da una parte accusata di un «eccesso di storia»[12] e dall’altra di un «deficit di storicità»[13], è invece difesa da Roberto Esposito, che comunque non si riserva dal sottolinearne delle antinomie interne, che impediscono al suo pensiero di rispondere totalmente alle nostre esigenze filosofiche e politiche. Nello specifico, Roberto Esposito rimane insoddisfatto della nozione di “biopolitica”, criticando a Foucault il fatto di non aver né «attivato una compiuta riflessione epistemologica sulla vita biologica»[14] (zoe), né di aver elaborato a fondo la categoria di politica (bios). «Così in diversi testi foucaultiani, e perfino in uno stesso testo, o il potere appare sovrapposto a una vita imprigionata nei suoi dispositivi; oppure è la vita, già da sempre sottratta al potere, a sovrastarlo»[15]. Detto in altro modo: la concezione biopolitica di Foucault arriva a uno “stallo” in cui se da un lato il potere costituente ingabbia le istituzioni, sovraccaricandole di una potenza repressiva davanti a cui nulla possono i soggetti, dall’altro il potere destituente viene da quest’ultimo pensato come sempre sottratto al potere, con un esito inevitabilmente impolitico. Il risultato comune a questi due modelli opposti di biopolitica è la completa neutralizzazione dell’attività politica, che è invece alla base di una possibile attività trasformativa delle istituzioni, a cui questo numero dell’Almanacco è dedicato. Così, al fine di evitare l’esito anti-istituzionale di una biopolitica neutralizzata, quale è, secondo Roberto Esposito, quella pensata da Foucault, egli propone di «concentrare la ricerca sulle istituzioni, anziché sulle forze che agiscono alle loro spalle»[16]. Nell’idea di Esposito, infatti, non sono solo le istituzioni, ma sono gli stessi movimenti sociali di protesta, ad esempio quelli del Novecento, come il ’68 francese, ad aver avuto come esito ultimo quello di irrigidire, mettendolo a “distanza”, l’apparato istituzionale e, quindi di spoliticizzare le loro istanze. La sua convinzione infatti è che, se assunte in quanto tali, le istituzioni conferiscono legittimità a quel potere giuridico a cui Foucault si è sempre opposto. Come colto dai pensatori dell’ordoliberalismo[17], ad esempio Walter Eucken, il giuridico non deve necessariamente essere pensato come subalterno alle vicende dell’economia, come voleva il marxismo, ma può essere produttivo delle stesse. È dunque possibile cogliere una potenza performativa delle istituzioni, che non per forza reprime la vita (zoe) dei cittadini, ma che può proteggerne i diritti, costituendo un organo di resistenza degli stessi. Si tratta allora di riaprire un dialogo con quell’apparato istituzionale così criticato[18] da Foucault e che non deve essere necessariamente inteso come una “gabbia d’acciaio”. Al contrario, se ci si concentra sull’istituire invece che sull’istituito, allora ecco che è possibile la riscoperta di una prassi capace non solo di mutare l’oggetto (l’istituito), ma anche il soggetto (la vita dei cittadini). Roberto Esposito propone di pensare le istituzioni come «organismi viventi»[19]; organismi viventi sempre trasformati dai soggetti che li costituiscono, attraverso il conflitto, e sempre diversi fra loro. La prima nascita, quella di cui parlava la Harendt, quella biologica, non basta; «ad essa va aggiunta una seconda nascita, costituita dalla politica»[20]. All’opposto trova il proprio spazio l’hegeliana figura della “coscienza infelice”, che non è appagata dal mondo, ma neppure dà soluzioni[21], di cui un esempio può essere l’operazione teorica messa in atto da Horkheimer e Adorno in Dialettica dell’Illuminismo[22].

Altra riflessione sulla pandemia di questa prima sezione dell’Almanacco è quella di Didier Fassin, Complottismo. Al centro di questo studio sono le teorie del complotto, fenomeno sempre più diffuso nella società contemporanea occidentale e aumentate proprio in occasione dell’evento pandemico. Scopo principale di questo studio è mostrare che le teorie del complotto non devono essere sbrigativamente ridotte a patologie sociali, ma piuttosto considerate «chiavi di lettura euristiche che rispecchiano la società, aiutano a comprenderla»[23]. Ma da quanto tempo esistono le teorie del complotto? È possibile ritrovare nel passato dei corrispettivi dell’attuale movimento americano QAnon o del film francese Hold Up? Le teorie del complotto esistono solo in Occidente? Intorno a queste domande si sviluppa il contributo di Didier Fassin. Se è infatti indubbio che ad esempio la stregoneria non possa essere considerata alla stregua di una qualsiasi teoria del complotto, è tuttavia da riconoscere che la credenza in forze oscure che commettono azioni malvagie è comune a tutto il mondo ed è sempre esistita. E tuttavia «le teorie del complotto sono solo un avatar contemporaneo»[24], sempre in progressivo aumento e perlopiù studiato da due punti di vista. Quello cognitivista, di J. L. Austin, il cui carattere atemporale e destoricizzato non soddisfa Didier Fassin, e quello contestuale. Vantaggio di questo secondo metodo è quello di concentrarsi sulle “cause reali”, sociologiche, che causano lo sviluppo di queste teorie. Così, non concentrandosi più soltanto sui meccanismi puramente psicologici alla base di queste, ma sull’istituirsi in società delle stesse, è possibile mostrare la responsabilità della società, del già-istituito, nello sviluppo di una teoria del complotto.

Il contributo di Didier Fassin va messo in parallelo con quello di Alenka Zupančič. Nodo centrale di questo studio sono i punti in comune e le differenze fra le teorie del complotto e la teoria critica della Scuola di Francoforte[25]. I punti in comune possono essere tutti ridotti a un unico elemento, presente in entrambe le teorie: lo scetticismo nei confronti di ciò che viene normalmente dato per certo. Per quanto concerne invece le differenze, anche in questo caso è possibile ridurle tutte a un assunto, che, in ultima analisi, costringe a dover distinguere le due teorie: mentre la teoria critica esamina i mezzi e i modi attraverso cui viene creata quella realtà condivisa di cui dubita, «la teoria del complotto salta immediatamente a quello che c’è dietro, alle profondità nascoste, all’altra realtà»[26]. Quest’ultimo punto consente così a Alenka Zupančič di analizzare le dinamiche psicologiche dietro la produzione e la condivisione di una teoria del complotto. Nel fare questo, Alenka Zupančič utilizza alcuni degli strumenti concettuali elaborati da Lacan, in particolare ciò che il filosofo chiamava “joui-sens”. Ne risulta così che ad animare le teorie del complotto è principalmente il piacere che se ne ricava sia dal fare esperienza di una verità nascosta, sia dal poter produrre quella verità. In questo senso la stessa presunzione complottista del “non ci sono coincidenze” è soltanto un altro modo per asserire che “non c’è godimento” e ricercarlo così in un altro momento di godimento, cioè in un’altra teoria del complotto («godimento così trasformato in significato»[27]), in una sorta di regressio ad infinito. Guidati dal loro “grande Altro” positivo, per usare il linguaggio di Lacan, in tal modo si articola la dinamica della produzione di teorie da parte dei complottisti che, in una sorta di «realizzazione postmoderna del nitzschianesimo»[28], negano la realtà oggettiva e, platonicamente, credono di appartenere a quella della verità.

Thomas Lenke riflette su un altro aspetto che è possibile ricavare dall’evento pandemico: la necessità per le società moderne di considerare anche i non-umani nel loro orizzonte di senso. Prendendo subito le distanze da certe critiche all’opera di Foucault come quella di Donna Haraway o di Nicole Shukin, al cui centro sta l’idea che il pensatore francese non abbia sufficientemente destabilizzato l’antropocentrismo nella sua analisi delle relazioni tra esseri umani, Thomas Lenke ne propone una lettura alternativa. Partendo dall’analisi del concetto di “milieu”, da Foucault sviluppato nelle sue lezioni al Collège de France del 1977-1978 e 1978-1979, Lenke pone prima di tutto l’accento sul fatto che è lo stesso Foucault a voler indicare con questo termine la relazione tra gli esseri viventi e il loro habitat naturale, almeno per come milieu viene pensato a partire dal XVIII secolo, con l’avvento della biologia. Successivamente, Lenke prende in considerazione il ruolo che il concetto di milieu svolge all’interno del progetto di governamentalità liberale, «strumento tecnico del governo»[29], ma che non per questo è caratterizzato da un’agency totalmente umana. Ed è proprio il controllo del milieu ad essere alla base del potere liberale che, almeno da quanto sostenuto da Foucault a partire dai corsi del 1978-9, non si limita soltanto al controllo fisico e morale. Vita biologica che non è quindi più data a-prioristicamente, ma che dipende dalle condizioni di esistenza determinate all’interno e al di là degli stessi processi biologici, cioè nel milieu. E malgrado le posizioni scettiche di Paul Rabinow o di Nikolas Rose, dall’analisi di Lenke ne emerge proprio come siano «le azioni non umane […] la precondizione per l’esistenza e l’emergenza degli esseri umani»[30]. Controllo quindi non solo sugli individui, singolarmente e collettivamente considerati, ma anche del milieu all’interno del quale si trovano e che a loro volta modificano. Questo alla base anche della nozione di “ambientalità” che, se applicata ad esempio al problema ecologico, mostra proprio come tutta la realtà, naturale e non, sia compresa all’interno dell’apparato neo-cibernetico umano, ma che non per questo va considerato necessariamente dominante in modo onnipervasivo. Paradossalmente, come messo in luce anche da Sara Nelson, il concetto di “ambientalià”, da Foucault proposto come esito ultimo del controllo totale neo-capitalista, potrebbero essere il punto di partenza per una prassi istituente alternativa. Primo elemento che infatti emerge è l’inevitabile relazione fra umani e non-umani, possibile punto di partenza per una modernità differente, non più basata sul dominio dei primi sul resto.

Coronavirus e comunità di vita è il titolo dell’articolo di Vanessa Lemm e che chiude questa prima parte dell’Almanacco. Dalle idee del recentemente scomparso Jean-Luc Nancy, passando per alcuni psicanalisti fino Julia Kristeva e Slavoj Žižek, lo scopo principale di questo contributo è evitare che una pandemia certo devastante e letale come quella da coronavirus sia ridotta soltanto ai suoi aspetti peggiori. È il caso di alcuni pensatori kantiani tedeschi, come Markus Gabriel, che sono riusciti a vedere dietro alle difficoltà dell’evento pandemico la possibilità per una nuova Aufklärung: un nuovo Illuminismo. Roberto Esposito che prima della pandemia pensava le categorie di bios e zoe come un continuum, ad oggi sottolinea come l’essere umano non debba essere ridotto al solo aspetto biologico. Appelli più concentrati verso il ripensamento della comunità sono stati invece lo spirito degli interventi di Agamben o, malgrado le differenze, di Byung-Chul Han. Così, passando attraverso le idee di Benvenuto, secondo cui la pandemia, colpendo il narcisismo dell’uomo moderno, non ha fatto altro che ricordargli le sue capacità nelle situazioni di pericolo o, all’opposto, attraverso quelle di Leven, che invece considera l’attuale epoca geologica, dell’Antropocene e della pandemia da Covid 19, come quella in cui l’umanità verrà punita dalle sue colpe “prometeiche”, ciò che emerge in generale è la necessità per l’uomo moderno di riconsiderare la sua posizione nel mondo. Questa non potrà più fare a meno di considerare la nostra intima inserzione con il mondo naturale. Citando Chadarevian e Raffeta, «dobbiamo capire che il mondo sociale e quello biologico sono intrinsecamente connessi»[31] e questo non per una nostra proiezione sulla natura basata sulla sua inferiorità rispetto a noi, come sostenuto da Žižek, ma piuttosto per la riconsiderazione di quella “capacità mimetica” con cui ci relazioniamo con la stessa, riprendendo Walter Benjamin. Ed in effetti il recente vaccino a mRNA contro il coronavirus non “copia” forse il codice genetico dell’elemento patogeno? Partendo dallo stesso presupposto con cui Benjamin considerava la natura ed espresso nella nozione di “ponderaciόn misteriosa”, secondo cui l’esistenza del male nel mondo naturale è impossibile poiché tutto ciò che è creato è bene, potremmo noi considerare il virus.

Altrettanto densa è la sezione monografica, Pensare in rapporto all’evento, che amplia ed espande quel nucleo centrale già riccamente vagliato nella prima parte: la possibilità di costituire una prassi istituente. Se tuttavia nella sezione Interventi i vari autori hanno sviluppato tale possibilità a partire dalla pandemia, questa seconda parte è invece dedicata allo studio e al confronto tra le teorie filosofiche dell’evento più importanti del Novecento.

Étienne Balibar problematizza il concetto di evento in riferimento alla filosofia occidentale del XX secolo. La sua tesi è che questa è andata incontro a una “svolta evenemenziale” che ha condotto il trascendentale (l’evento) all’interno della dimensione storica. Ma in che modo collocare il soggetto all’interno di questo discorso? Questa domanda è il punto di inizio della seconda parte di questo intervento. Étienne Balibar ritrova la possibilità di praticare un discorso che sia contemporaneamente sull’evento e sulla soggettività nelle riflessioni di due autori: Foucault e Althusser. Il primo per il suo commento all’opuscolo di Kant Was ist Aufklärung?, il secondo per la trattazione che fa in un libro pubblicato postumo al Principe di Machiavelli. Difficile accostamento e tuttavia possibile anche grazie al recente lavoro di Judith Butler, La vita psichica del potere, cui Balibar fa riferimento ed in cui l’autrice ritrova una similitudine, seppur formale, nel modo in cui Foucault e Althusser trattano l’evento. Riuscire a conciliare un’ontologia dell’evento da una parte e un pensiero del soggetto dall’altra è, secondo Étienne Balibar, ciò intorno a cui bisogna riflettere per poter costituire un pensiero e una prassi istituente.

Lo sforzo di Mattia di Pierro è invece quello di scovare la possibilità istituente, creativa e trasformativa, della politica, non attingendo dal piano del pre-politico. Nella sua idea, l’esclusione del politico in favore di questo piano immanente e creativo, effimero, destituente, coincide con la riduzione della politica all’evento. Politica che certamente recupera un suo spazio autonomo, che si pone come continua destituzione di significati, ma che diviene «incapace di struttura e durata» . All’opposto di questa visione della politica come mera contrapposizione all’istituito, le teorie di Wolin, di Arendt e degli autori delle riviste «Libre» e «Textures», come Lefort, che hanno fatto della tensione istituente della prima il loro punto di inizio.

Nel suo intervento, Bianca Maria Esposito ragiona sul pensiero di Deleuze, riferendosi in particolare all’opera Logica del senso. Deleuze, a partire dal suo rifiuto sia del principio dialettico platonico, sia della categorizzazione trascendentale kantiana, propone «una nuova forma di vitalismo trascendentale, capace di pensare la molteplicità del reale a partire da un principio di differenza»[32]. Da qui l’attenzione di Deleuze alla letteratura, in particolare alla scrittura di Lewis Carrol, in grado di narrare storie differenti e divergenti fra loro in quanto puri eventi, capaci quindi di attingere alle profondità del senso, ma rimanere comunque in superficie. Continuo dispiegamento di senso e non-senso dei diversi eventi quindi, anch’essi continui e contraddittori fra loro, e che fanno infine dire ad Alice:

«Povera me! Quante stranezze oggi! Pensare che ieri era tutto come al solito. Fossi cambiata io durante la notte? Fammi pensare: ero la stessa stamattina quando mi sono alzata? Quasi quasi mi sembra di essermi sentita un po’ diversa. Ma se non sono la stessa, la domanda è: chi mai sarò?». Ah, eccolo il grande punto interrogativo!»[33].

Rifacendosi alla fisica stoica, gli eventi sono quindi verbi, che spiegano il crescere e il rimpicciolire del corpo di Alice e in cui si collocano i soggetti e il mondo, sempre alla scoperta di un senso nuovo. La ricerca di un nuovo significato delle istituzioni è anche al centro del testo di Francesco Marchesi, concentrato sul pensiero di Niccolò Machiavelli, in particolare l’opera Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Partendo dall’analisi di un fenomeno come il conflitto, Machiavelli arriva a porre le condizioni per una rifondazione dell’apparato istituzionale. Il conflitto interno alle istituzioni infatti, a differenza che nella filosofia greca, ove la guerra intestina (stásis) veniva rifiutata, è qui posto come nucleo centrale delle stesse. Ed è in particolare nella lettera di risposta a Giovan Battista Soderini che Machiavelli avanza questa ipotesi, che ruota tutta intorno alla nozione di “riscontro”: «un incontro/scontro […] tra conflitto e storia»[34] . Riscontro che è presente soprattutto nelle diverse tendenze della nozione di “ritorno ai princìpi”, che per un verso «riprende l’idea di una tendenziale identificazione con i modi e gli ordini del passato»[35], mentre per l’altro sembra alludere a una renovatio radicale in seno agli apparati istituzionali. Quindi, come spiegato da Francesco Marchesi, il “recupero dei princìpi” nel fiorentino non va inteso né nel senso di regresso, né come rottura radicale rispetto al passato. Il recupero è piuttosto dell’atto fondativo delle istituzioni, il cui rinnovamento periodico a partire dallo stesso punto di inizio consentirà alle stesse di non corrompersi. In tale senso va inteso il conflitto e il suo ruolo destituente-istituente, capace di «dare vita al novum»[36], di tornare al «senso originario dell’instituere latino»[37], recuperando la lezione del precedente Almanacco. «La non-corrispondenza, insediando l’antagonismo al centro della struttura, configura un istituzionalismo conflittuale che, come tale, è in grado di andare oltre se stesso»[38].

Machiavelli è al centro anche dell’intervento di Andrea Moresco, che ne fa un’analisi del pensiero a partire dalla lettura che ne ha dato Althusser. Nello specifico, Althusser ritrova la cifra politica caratteristica del fiorentino nel concetto di “congiuntura”, che significa pensare la politica tenendo conto di «tutte le determinazioni, le circostanze concrete esistenti, passarle in rassegna, farne il rendiconto e il confronto»[39]. Rifiutata la proposta hegeliana del negativo, in cui tutto è ripreso all’interno del procedere della storia, secondo Althusser Machiavelli accetta l’idea di un vuoto. Evento del vuoto che offre alla politica la possibilità di trasformare il presente. Vuoto che tuttavia non deve essere necessariamente pensato come “soluzione” ai paradossi del reale, ma che va atteso e davanti a cui bisogna essere pronti; in ciò la congiuntura. E in questa teoria in cui all’emergenza dell’evento viene accostata la congiuntura, «che insegna a scrutare nelle contingenze del presente per intravedervi nuovi cominciamenti in atto»[40], sta l’originalità dell’ipotesi di Althusser in rapporto a Machiavelli, come ben mostrato da Andrea Moresco.

Vittorio Morfino prosegue questa linea di ricerca su Althusser nel suo saggio dedicato allo studio degli scritti degli anni Ottanta, lavoro peraltro già iniziato con Luca Pinzolo nel saggio Sul materialismo aleatorio. I lavori di Althusser degli anni Ottanta vengono da Morfino interpretati come la rielaborazione del materiale depositato nei due precedenti flussi temporali: quello degli anni ’66-’67, che Morfino rinomina «tendenza materialista»[41] e quello degli anni ’77-’78, che esprime invece la «tendenza escatologica»[42] dell’autore. Al centro di entrambe queste tendenze, il concetto di “vuoto”; espressione delle stesse nei loro diversi significati e infine unificato negli scritti degli anni Ottanta.

Nel suo intervento Emmanuel Renault analizza le nozioni di “evento” e di “processo” nel pensiero di John Dewey. Pragmatista americano, un ruolo chiave nella sua riflessione è quello svolto dal concetto di “eventi marcanti”, ovvero quei momenti nello sviluppo di un processo che lo portano davanti ad un bivio (ad esempio la dura repressione durante le manifestazioni alter-mondialiste a Genova nel 2001, dopo la quale le lotte furono obbligate ad assumere nuove forme o a soccombere). Per “processo” Dewey intende invece «una storia che si sviluppa tra un inizio e una fine: più precisamente una serie di trasformazioni che tuttavia mantengono un’identità di carattere»[43]. Parallelamente a questo studio dei concetti di “evento” e di “processo”, l’opera di Dewey consente anche un’analisi della natura degli eventi rivoluzionari. Gli eventi rivoluzionari, da Dewey non considerati né secondo la tesi conservatrice, per la quale le rivoluzioni sono impossibili a causa dell’immutabilità della natura umana, né come sempre possibili in virtù della loro presunta «plasticità illimitata»[44], sono invece accolti nelle loro effettive possibilità trasformative. Possibilità trasformative che sono da Dewey considerate come sempre legate a un processo di ricostruzione sociale ed educativo, senza il quale l’evento rivoluzionario stesso non ha alcun senso. E proprio su quest’ultimo punto si chiude questa riflessione di Renault che sottolinea come quest’idea di evento rivoluzionario possa essere il punto di inizio per una presa di coscienza di processi come la crisi climatica ed ecologica attuale e per un possibile ri-orientamento politico e sociale.

Al centro dello studio di Caterina Resta vi è invece il pensiero di Derrida. Facendo coincidere la decostruzione con l’evento, dato che «l’evento (è ciò che) decostruisce»[45], la decostruzione viene in questo intervento posta come il tentativo più disarmante (e disarmato) del potere. La decostruzione, pensiero dell’evento e dell’impossibile, cioè del non-potere, dell’im-potenza, è dunque una potenza senza potere e proprio per questo la più grande forza, incondizionata. Per contrastare allora il potere dell’ipseità, dell’“io posso”, di ciò che è istituito, non serve combatterlo in modo antagonistico, opponendogli un contro-potere, ma occorre decostruirlo, riconoscendo la sua vulnerabilità davanti alla potenza destituente e creativa dell’evento.

Claudia Terra si occupa invece dell’opera Le travail de l’oeuvre. Machiavel di Claude Lefort. In linea con i contributi di Moresco e Marchesi, anche Claudia Terra parte dall’idea di evento in Machiavelli, filtrando però questo concetto con l’interpretazione che ne dà Lefort, di matrice fenomenologica. Un discorso come quello di Lefort ha infatti come obiettivo quello di mostrare la necessità del non considerare un evento soltanto come momento di rottura, ma anche come fenomeno che necessita di essere compreso. L’evento più sconvolgente da questo punto di vista è stato secondo Lefort lo sviluppo della democrazia, «linvention démocratique[46]», irriducibile alle proprie cause, e perciò non replicabile né imponibile. Citando Jean-luc Marion, Claudia Terra sottolinea proprio come un «evento suscita le sue cause nell’esatta misura in cui si sottrae alla causalità, ne rende ragione imponendo da solo la sua ragione»[47] ed è da questo punto di vista che suggerisce di guardare agli eventi del nostro tempo.

Elia Zaru fa infine un confronto fra il pensiero di Derrida e quello di Fukuyama. Alla fine della “storia processuale” di Fukuyama, coincidente con il totale e definitivo dominio della democrazia liberale nel mondo, Derrida sostituisce infatti l’idea di una storicità con una temporalità molteplice, plurale, oltre il presente e dunque oltre la possibilità di una qualsiasi fine. Nell’idea di Derrida, Fukuyama è incapace di pensare l’evento, poiché lo riduce a una temporalità finale comprensiva di eventi tutti identici fra loro e tutti ricompresi all’interno del sistema liberale. La riflessione di Derrida non consente quindi neppure quell’epocalità tipica del pensiero di Fukuyama, ma consente piuttosto una nuova pensabilità della relazione evento-processo, non più da pensare in senso escatologico[48]. Per dirla con le parole di Zaru, «se la temporalità storica viene considerata alla luce di una pluralità e non di un incedere lineare, l’evento perde la sua funzione periodizzante, pur mantenendo il suo carattere di rottura. La storia è sempre evento e insieme processo»[49]. Una prassi istituente dovrà quindi riferirsi al carattere plurale della temporalità, scansando al contempo qualsiasi possibilità di una fine.

L’introduzione di Alberto Martinengo all’ontologia politica di Reiner Schürman apre la terza parte dell’Almanacco, l’Archivio. A seguire, la nota editoriale a cura di Francesco Guercio e Ian Alexander Moore all’intervento di Schürman «Ormai solo Proteo ci può salvare»: sull’anarchia e le egemonie infrante, per la prima volta pubblicato in traduzione italiana proprio in questo numero dell’Almanacco. Di risposta ai suoi commentatori, Walter Brogan e Michel Murray, in questo intervento Schürman risponde alle critiche rivoltegli contro in seguito alla pubblicazione in edizione inglese del suo Dai principi all’anarchia. Essere e agire in Heidegger. Due sono secondo lui gli aspetti più importanti del pensiero di Heidegger: il suo tentativo di porre fine al pensiero metafisico, qui inteso come quel pensiero sussuntivo di alcuni principi verso tutto il resto e la possibilità di un pensiero altro, capace di dialogare con la categoria di evento ed in cui «i singolari entrano in una costellazione precaria»[50], anarchica.

A seguire è riportato il commento di Simone Weil ai capitoli delle Istorie fiorentine di Machiavelli dedicati al tumulto dei Ciompi, che chiude anche l’intero numero con il suo articolo Pensare l’evento nella congiuntura: Simone Weil e Machiavelli. Quest’ultimo è un’analisi sui punti in comune fra il pensiero di Simone Weil e quello di Machiavelli. L’esigenza della prima di riflettere sulla reale possibilità che un soggetto politico diverso da quello dei governi totalitari riuscisse ad emergere in Europa negli anni Trenta si confà infatti perfettamente al giudizio di Machiavelli sul tumulto dei Ciompi, primo esempio di sollevazione proletaria della storia. La vicenda dei Ciompi, nella lettura che ne offre Simone Weil, viene considerata un vero e proprio evento. Suo obiettivo nel commentarla è quello di permettere ai suoi compagni del Partito Comunista, così come a quelli del sindacalismo rivoluzionario e del socialismo riformista, di avere elementi su cui riflettere per la loro lotta contro i fascismi. Negli anni Trenta Simone Weil credeva ancora nella lotta di classe e, nella sua idea, era solo tornando alla vicenda dei Ciompi, del politico fiorentino Michele di Lando, che si poteva comprendere il vero volto di quel riformismo che stava emergendo in Europa. Quest’ultimo fece, secondo Weil, «ciò che, al suo posto, avrebbe fatto qualsiasi capo di Stato socialdemocratico: si rivoltò contro i suoi vecchi compagni di lavoro»[51]. Come evitarlo? Una via, o magari soltanto un inizio, potrebbe essere quella di tornare a leggere Machiavelli.

Il significato complessivo di questo Almanacco ruota tutto attorno a un unico problema, che la lunga e articolata lista di interventi cerca di sviluppare, seppur in modi fra loro differenti: il rapporto fra la categoria di evento e quella di istituzione. L’evento, spogliato della sua veste pura e incondizionata, come era nel post-strutturalismo francese, viene calato nella realtà, modificando e modificato dalle istituzioni. Queste, non più da pensare come fisse, vengono in questo Almanacco riscoperte nella loro dimensione dinamica e mutevole. In effetti, l’evento della pandemia ancora in corso e i conflitti sviluppati al suo interno sembrerebbero mostrare ciò, portando le stesse istituzioni occidentali a mettere in parte in discussione il paradigma che le ha finora guidate: il neo-liberalismo della politica (si pensi, come esempi concreti, al Recovery Plan europeo o il piano infrastrutturale statunitense[52]). L’evento della pandemia ha tuttavia costretto a riconsiderare anche l’attività del non-umano (di un virus, in particolare); attività che il mondo moderno aveva escluso dal suo orizzonte di senso. Da questo punto di vista, la pandemia ha preparato il terreno per una nuova fase dell’esistenza dell’uomo sulla Terra, di compenetrazione e convivenza fra le diverse vite, umane e non: l’Antropocene. Le istituzioni bio-politiche a cui occorre guardare non potranno più riprodurre quel dualismo tipicamente moderno tra umani e non-umani[53], ma dovranno produrre una relazione salutare tra le due parti, non più basata sul dominio della prima verso l’altra. L’evento della pandemia, dell’Antropocene, può essere così il punto di inizio per delle nuove istituzioni, non più fondate sulla separazione uomo-natura, ma su una «biopolitica più che umana»[54]. Merito del presente Almanacco quello di aver preparato questo terreno.


Note
[1] R. Fulco, A. Moresco (a cura di), Sull’evento. Filosofia, storia, biopolitica, Almanacco di filosofia e politica, n. 4, Quodlibet, Macerata 2022.
[2] R. Fulco, A. Moresco (a cura di), Sull’evento…, op. cit., p. 9.
[3] Cfr. R. Esposito, Istituzione, Il Mulino, Bologna 2021.
[4] G. Fava, Morfologia del conflitto, in «Le Parole e le cose. Letteratura e realtà», 2021, disponibile al link: https://www.leparoleelecose.it/?p=42623.
[5] R. Fulco, A. Moresco (a cura di), Sull’evento…, op. cit., p. 13.
[6] Cfr. Rudy M. Leonelli, Illuminismo e critica. Foucault interprete di Kant, Quodlibet studio, Macerata 2017.
[7] Cfr. Roberto Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2020.
[8] R. Fulco, A. Moresco (a cura di), Sull’evento…, op. cit., p. 112.
[9] Ibidem.
[10]M.M-Ponty, La Natura, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, p. 4.
[11] R. Fulco, A. Moresco (a cura di), Sull’evento…, op. cit., p. 13.
[12] Ivi, p. 20.
[13] Ibidem.
[14] Ivi, p. 22.
[15] Ibidem.
[16] Ivi, p. 24.
[17] Cfr. L’ordoliberalismo tra «politica economica» e «politica della società» in P. Dardot-C. Laval, La nuova ragione del mondo: critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013, pp. 173-195.
[18] E tuttavia è proprio lo stesso Esposito a sottolineare come in La nascita della biopolitica Foucault sembra aprire una direzione di discorso diversa, in cui invece che concentrarsi sulle istituzioni assunte come “blocco monolitico” suggerisce di focalizzarsi sulla prassi istituente alla base delle stesse. Su questo, si vd. R. Fulco, A. Moresco (a cura di), Sull’evento…, op. cit., p. 25.
[19] Ivi, p. 29.
[20] Ibidem.
[21] Sulla nozione di “impolitico”, cfr. R. Esposito, Le categorie dell’impolitico, Il Mulino, Bologna 1988.
[22] Per un approfondimento sull’esito impolitico della riflessione di Horkheimer e Adorno, si vd. C. Galli (a cura di), Introduzione in M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 2010.
[23] R. Fulco, A. Moresco (a cura di), Sull’evento…, op. cit., p. 32.
[24] Ivi, p. 40.
[25] Per un inquadramento della ‘teoria critica’ e della Scuola di Francoforte, cfr. G. Bedeschi, Introduzione a la Scuola di Francoforte, Laterza, Bari 1985; L. Baldassarre, La Scuola di Francoforte. Una introduzione. Clinamen, Firenze 2019.
[26] R. Fulco, A. Moresco (a cura di), Sull’evento…, op. cit., p. 94.
[27] Ivi, p. 106.
[28] Ivi, p. 88.
[29] Ivi, p. 55.
[30] Ivi, p. 58.
[31] Ivi, p. 79.
[32] Ivi, p. 155.
[33] L. Carroll, Alice nel paese delle meraviglie; Mondadori, Milano 2018.
[34] R. Fulco, A. Moresco (a cura di), Sull’evento…, op. cit., p. 177.
[35] Ivi, p. 179.
[36] A. Di Gesu, P. Missiroli (a cura di), Res Publica. La forma del conflitto, Almanacco di filosofia e politica, n.3, Quodlibet, Macerata 2021, p. 29.
[37] Ibidem.
[38] R. Fulco, A. Moresco (a cura di), Sull’evento…, op. cit., p. 180.
[39] L. Althusser, Machiavelli e noi, manifestolibri, Roma 1999, p. 36.
[40] R. Fulco, A. Moresco (a cura di), Sull’evento…, op. cit., p. 187.
[41] Ivi, p. 211.
[42] Ibidem.
[43] Ivi, p. 223.
[44] Ivi, p. 227.
[45] Ivi, p. 233.
[46] Cfr. Ivi, p. 260, n. 41.
[47] Ivi, p. 260.
[48] Cfr. Ivi, p. 268.
[49] Ivi, p. 272.
[50] Ivi, p. 296.
[51] S. Weil, Un tumulto proletario nella Firenze del XIV secolo, in R. Fulco, A. Moresco (a cura di), Sull’evento…, op. cit., p. 311.
[52] Cfr. R. Fulco, A. Moresco (a cura di), Sull’evento…, op. cit., p. 8.
[53] Per un’introduzione al modo in cui i moderni si pensano nel loro rapporto con la natura (qui intesa come tutto ciò che è non-umano e non-moderno), cfr. B. Latour, Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, Milano 1995.
[54] R. Fulco, A. Moresco (a cura di), Sull’evento…, op. cit., p. 9.

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