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Ritorno alla vita*

di Raoul Vaneigem

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Nota del traduttore

Essere il traduttore di un autentico essere umano in quest’epoca in cui la disumanità ha un potere sempre più delirante e mortifero – come documenta ampiamente lo spettacolo sociale che inquina e violenta la vita sul pianeta mettendo ormai in pericolo la sopravvivenza stessa della specie umana – è soprattutto il segno di un coinvolgimento manifesto nel progetto radicale di autogestione generalizzata della vita quotidiana che Raoul Vaneigem propone, affinandolo progressivamente, fin dall’epoca ormai lontana del maggio 1968. La mia amicizia complice con l’autore di questo scritto non è un segreto: l’ho sempre coltivata con affetto e chiarezza, insieme alla piena autonomia di pensiero e di azione di ogni individuo che condivida un progetto comune di re-umanizzazione e di emancipazione sociale.

Nella catastrofe che avanza, aumentano a dismisura le vittime del disastro finale della civiltà produttivista. Gli esseri umani le sono sempre più ostili, coscienti che il superamento storico della società spettacolare-mercantile è la conditio sine qua non affinché l’umanità possa sopravvivere al nichilismo capitalista. Lo Stato totalitario multiplo che, democratico o dittatoriale, gestisce dappertutto qualcuna tra le variegate forme della società dello spettacolo integrato è, di fatto, la soluzione finale di un produttivismo che ha ridotto gli esseri umani a schiavi dell’economia politica – teologia materialista moderna che serve da secoli le oligarchie di governo sempre conflittuali tra loro, ma tutte volgarmente e tragicamente sfruttatrici del lavoro e delle passioni degli esseri umani.

La fase terminale della barbarie patriarcale che fin dalla preistoria recente ha imposto la civiltà suprematista del produttivismo, riapre uno spazio alla civiltà matricentrica sconfitta e rimossa dalla memoria collettiva dall’imperialismo della società mercantile, guerriera, bigotta, devota alla merce sovrana e malata della peste emozionale dei suoi servitori volontari.

Questo breve scritto è una delle preziose iniezioni di agopuntura radicale con le quali Raoul, a modo suo e in piena autonomia, continua a illuminare umanamente il cammino organico del vivente, rischiarato artificialmente, in quest’epoca buia, dell’elettricità mortifera dell’energia nucleare [Sergio Ghirardi Sauvageon].

* * * *

I. La vita non è un oggetto

Non abbiamo mai imparato altro che a morire, ora è il momento d’imparare a vivere.

Ci troviamo al punto di rottura tra due civiltà. Il vecchio mondo sta crollando e tarda a scomparire, il nuovo emerge e tarda a imporsi.

L'onda d'urto che scuote il pianeta squassa la nostra esistenza. Ne rivela la radice. Ormai nessuna ideologia ha il potere di dissimularla.

La roccia delle verità antiche vola in frantumi.

Rinunciare a vivere per evitare di morire. Nessun passato ha ottenuto il consenso delle folle a un'assurdità così sconcertante. Nessuna epoca si è lasciata rincretinire a un tal punto con docilità.

Tuttavia, per quanto lo Stato e le multinazionali riversino le immondizie della paura, della rassegnazione, della rinuncia, del sacrificio, della delazione, arriva un momento in cui tutto vacilla, tutto traballa perché la vita riprende il sopravvento e si riappropria dei propri diritti. Siamo al cuore di un tale momento. Più esattamente, ne siamo il cuore.

Senza dubbio si deve attribuire al sogno il potere di dissolvere gli incubi del reale. Tuttavia, ciò resterà una formula vuota finché non avremo deciso di abbandonare la giungla sociale in cui sopravvivere era la nostra sorte. Per andare dove? Esattamente dove siamo. Dove si risveglia in noi il desiderio irrefrenabile di costruire sul terreno della nostra esistenza una società in cui l'aiuto reciproco e l'autonomia ci insegnano a esplorare una vita dalla quale eravamo tenuti lontani.

Le nostre società sono macerie. Sguazziamo in mezzo a valori morti. I tagli di bilancio hanno rovinato il bene pubblico. Le conquiste sociali strappate con dure lotte dagli scioperi, dalle occupazioni di fabbrica, dalla protesta rivendicativa, sono state smembrate, sbriciolate, annientate. Le pensioni e le indennità sono sottratte a chi ha pagato i contributi per goderne una volta liberatosi dal lavoro. I trasporti pubblici sono in difficoltà, l'istruzione, che da molto tempo è solo un mezzo di accesso al mercato degli schiavi, si corrompe al ritmo di caduta del dinamismo capitalista. La cupidigia affarista ha saccheggiato gli ospedali pubblici che, qualche decennio fa, sarebbero stati in grado di rispondere efficacemente all'apparizione di un'epidemia.

Che cosa abbiamo imparato da questo spreco scandaloso? Una semplice diagnosi di morbosità. La constatazione si è banalizzata diventando l’oggetto di dibattiti politici, analisi sociologiche, proteste filosofiche, rimproveri e lamentele rivolte a un Leviatano malato, che ha rifiutato di dare loro risposta adducendo uno stato di fatto. “Le cose stanno così e non altrimenti, tale è la nostra disponibilità”.

Pertanto, nulla è destinato a cambiare. I manifestanti scalpitano, le rivendicazioni corporative fanno il loro piccolo giro di giostra. I luoghi comuni rattristano lo sguardo e si confondono tra quei paesaggi cementificati da cui distogliamo lo sguardo.

La disperazione, la fatalità, il presentimento della sconfitta sono tutte armi tanto più efficaci nelle mani del Potere quando siamo noi a regalargliele.

Lo sviluppo del capitalismo industriale ha avuto il merito, nel XIX secolo, di autorizzare, suo malgrado, la nascita di una coscienza proletaria. La quale non si limitava a rivendicazioni salariali, né alle boccate d'aria di una sopravvivenza oppressa. Il suo progetto? Nientemeno che la creazione di una società senza classi. Vi persisteva l'aspirazione a una società egualitaria che si era piegata alle fluttuazioni della storia senza mai cambiare rotta.

Dispensando le sue innovazioni monetizzate – elettricità, vapore, ferrovie, terapie, radiofonia – il capitalismo industriale aveva saputo farsi carico di un progressismo prometeico che affascinava e allo stesso tempo ripugnava. L'eroe della mitologia greca aveva sfidato, lo sappiamo, la tirannia degli Dei per offrire agli umani il fuoco grazie al quale essi avrebbero forgiato il loro destino. Il prezzo da pagare per tale audacia fu il sacrificio di una vita, condannata alla mutilazione perpetua.

La visione filantropica del capitalismo suggeriva spudoratamente che la promessa di un mondo migliore si realizzasse nell’abisso dell'inferno industrializzato e al prezzo della sofferenza operaia. Stavolta il paradiso non aveva alcun bisogno del passaporto per l'aldilà rilasciato dalle religioni. Era terrestre, tangibile, a portata di mano, se non della destra, occupata a lavorare, almeno della sinistra dove s’inscriveva il principio-speranza.

Su istigazione del profitto, signore supremo e unico padrone, la colonizzazione consumistica si sostituiva alla fase essenzialmente produttivista del capitalismo. Di fronte alla moda di una democrazia da supermercato, la vecchia filantropia caritativa è diventata obsoleta. Mentre svaniva, ha rivelato, però, un fenomeno che avevamo sdegnato di esaminare più da vicino, quello del traffico umanista.

Che cos'è l'umanesimo in origine? Il puro prodotto di una logica lucrativa. Uno dei primi doni di cittadinanza della civiltà mercantile. Contro la perdita secca rappresentata dalla tradizionale uccisione dei prigionieri di guerra, prevalse l'opinione di concedere loro la grazia di sopravvivere diventando schiavi, assicurando il movimento perpetuo dei meccanismi economici. La generosità e il calcolo concludevano così un'improbabile alleanza che si è perpetuata fino ai nostri giorni.

Il processo di Norimberga ha messo in scena un emblematico spettacolo umanitario. Un capitalismo che si pretende democratico ha condannato e disprezzato pubblicamente un capitalismo di Stato totalitario di cui il nazismo e lo stalinismo avevano concretato l’atrocità concorrenziale.

Nella stessa epoca in cui l'Occidente schiacciava la rivolta dei popoli colonizzati, il settore dei consumi si apriva facendo vibrare le corde sensibili dell'altruismo. Si trattava, in qualche modo, di ridare umanità alla rudezza dell’obbligo produttivista, cioè alla barbarie del lavoro. Il Piano Marshall, che inaugurò lo straripamento dei piaceri consumabili, passò per un obolo che l'evangelismo americano concedeva all'Europa devastata dalla guerra.

Gli Eden dell'abbondanza non hanno tardato a moltiplicarsi, occupando città e campagne con le loro luci al neon. Come preludio al suo straripamento planetario, la pandemia consumistica riguarda, in priorità, i governi europei. La perdita delle loro colonie ha deteriorato la loro arroganza da sfruttatori. Si prosternano ai piedi dell'impero calvinista e baciano le natiche di quell’immondo Bafometto che è il self-made-man. (Si sa che quest’idolo era venerato dai Templari, ordine militare e affarista di cui erano debitori numerosi Stati europei del tredicesimo e quattordicesimo secolo).

Visto dall'interno, il supermercato è un modello di edonismo, di scelta elettiva, di democrazia. Sotto l'egida del libero scambio, la libertà è totale, escluso che va pagata all'uscita. Ci sarebbero, dunque, in questi luoghi brillantemente illuminati, delle oscurità insospettate?

Un modello consumistico di gestione del popolo si è propagato a forza di campagne promozionali. Applicarlo al mondo intero, compresi ovviamente i diritti di pedaggio, nutriva l’ambizione di stabilire il famoso Welfare State, lo stato di benessere universale, la beatitudine vegetativa elevata alla migliore delle sopravvivenze possibili.

Il che significava dimenticare che invocare le possibilità in una società intrisa di divieti vuol dire giocare con il fuoco.

Il capitalismo trovava il suo tornaconto nelle feste faunesche in cui gli “évohé, évohé!” viravano in "consumate, consumate!". Non solo i benefici ricavati non erano più minacciati dagli scioperi fastidiosi, dalle rivendicazioni salariali, dalle geremiadi dei burocrati sindacali, ma i salari, strappati agli artigli dello sfruttatore, rimbalzavano docilmente nelle sue mani di velluto.

Scambiando la tuta con il vestito da consumatore, il proletario perdeva gradualmente coscienza e combattività. Le ideologie s’invischiavano nella colla di un clientelismo meno preoccupato di un'intelligenza degli esseri e delle cose che delle campagne pubblicitarie per valorizzare tutto e niente. L'importanza accordata al prezzo d’acquisto riduceva al minimo l'interesse rivolto all’uso del prodotto. In tal modo, l'acquirente è arrivato a preferire la brillantezza spettacolare di un marchio rinomato all’utilità effettiva di un paio di scarpe.

L'industrializzazione aveva introdotto condizioni favorevoli all'emergere di una coscienza di classe. Il diluvio consumistico l’aveva cancellata provocando, però, sulla sua scia, un tracollo dei valori tradizionali.

La stretta necessità di produrre spronava all'ascetismo, al puritanesimo, al sacrificio della vita di fronte alla forza lavoro. L'ingiunzione a consumare ha aperto una via in senso opposto. In una parodia dolceamara, le condizioni ricordavano il grande mutamento cui il libero scambio, suonando l'hallalì dell'Ancien Régime, aveva invitato i Diderot, i Rousseau, i d'Holbach, i pensatori dell'Illuminismo, ispiratori e istigatori della Rivoluzione francese.

Destinando all'obsolescenza le ideologie tradizionali, l'ecumenismo consumistico esaltava l'edonismo, la libera scelta, l'autonomia, il rifiuto del sacrificio. La merce stabiliva il proprio culto. In nome dell'Avere eretto a Essere Supremo, essa ha desacralizzato le religioni e il principio d'autorità. L'idea che fosse naturale spendere spendendosi contribuì a ispirare il pensiero che una rinnovata alleanza con la natura avrebbe abolito il dogma dell'antinatura. La celebrazione della donna consumatrice che promuoveva, con la sua disinvolta innocenza, la sollecitudine verso il bambino e l’animale non ha ingannato a lungo l'autodifesa femminista e i sostenitori di una rinaturazione degli esseri e delle cose. Nella scia non c’è voluto molto per capire che il piacere di spendere spendendosi significava, nella sua sordida realtà “consumarsi consumando”.

Fin dagli anni Sessanta il movimento situazionista aveva tratto insegnamento dell’inversione di tendenza che l'evoluzione del capitalismo metteva a portata d'analisi e di sovversione radicale. Il tornante ha risvegliato e stimolato la coscienza di chi non aveva rinunciato al progetto di emancipazione umana, trasmesso di generazione in generazione.

Il Movimento delle Occupazioni del 1968 confermò la maggior parte delle tesi situazioniste. Pur non essendo riuscito a realizzare il progetto di autogestione generalizzata e a porre le basi di una società umana, il bel Maggio non fu una vittoria né una sconfitta. Convocò la storia a un appuntamento permanente. L'apparizione dei Gilets jaunes in Francia e la pacifica conflagrazione delle insurrezioni mondiali se ne sono fatte l’eco senza bisogno di mentori, tribuni o parole d'ordine che le incitassero.

Il ritorno alla vita possiede la genialità per ravvivare senza sosta la coscienza paradossalmente storica e atemporale che emana da ogni abitante della terra. La determinazione nell’accordare la priorità all’essere umano, nel bandire i capi, i rappresentanti autoproclamati, gli apparati politici e sindacali e nell’agire per il governo del popolo attraverso le assemblee popolari, è più che sufficiente per gettare le basi di un mutuo soccorso sociale.

A causa della legge degli opposti, il clientelismo consumistico ha contribuito al riemergere dell'autenticità, ha contribuito a spogliare la vita della sua identificazione con la sopravvivenza. Il potere della sua menzogna ha sommerso la radicalità del maggio 68, non l’ha soffocata. Il che si avverte nettamente da quando, sotto i colpi dell’impoverimento crescente, si sgretola il mito della società del benessere – rimaneggiamento "all'americana" dell'Età dell'oro celebrata da Esiodo.

La minaccia che l'impoverimento fa pesare sulle fortezze del consumabile ha convinto il capitalismo a rivolgersi alla speculazione borsistica. L'ingresso nella fase finanziaria lo allontana dal regno illusorio del consumo.

Le elitre del capitalismo l’hanno sempre consigliato di lasciare quel che lo lascia. Ha disertato le fabbriche e il lavoro della produzione utile, abbandona il settore dei consumi di massa, minacciato di saccheggio e di desertificazione. Agonizza programmando l'agonia per tutti. Il suo nichilismo beffardo seduce gli aspiranti suicidi. Non gli importa di minare il pilastro portante dello spettacolo. Semina il disastro nella grande messa in scena, dove la vita era abituata ad avere esistenza solo di riflesso e per procura. Assumendo la propria debolezza, il capitalismo contribuisce involontariamente a farci ritrovare l'autenticità.

La ritirata del capitalismo nell'orbita della speculazione borsistica lo esenta dal dover rendere conto del crollo dell'economia. Rende redditizio il proprio declino. Dopo il dinamismo industriale e la colonizzazione consumistica, si cimenta in una fase finanziaria, in un tornado in cui il denaro impazzito ruota su se stesso.

Ciò si traduce in un fenomeno che ricorda il panico delle cellule cancerose di un organismo vivente. Il capitalismo non è né materia viva né materia morta. È una meccanica innestata sul vivente. Le disgrazie sperimentali della nostra evoluzione l’hanno chiaramente dimostrato: innestare del meccanico sul vivente produce il deperimento del vivente e l'autodistruzione del meccanico. Avviso ai transumanisti e ai sostenitori del Credito sociale!

Abbiamo il diritto di porci la domanda: la paura isterica che ha soppiantato le cure mediche del coronavirus non è forse un effetto della cancerizzazione di quest’organismo ibrido che è l'idra capitalista?

Comunque sia, non ci libereremo dalla morsa del vecchio mondo finché non avremo assicurato le basi di microsocietà umane, basate sulla solidarietà collettiva e sull'autonomia individuale.

 

II. La contestazione alienata

Da lunga data siamo impegnati in una lotta spietata contro lo sfruttamento della natura terrestre e della natura umana. I colpi inferti al capitalismo dal proletariato hanno segnato una fase specifica della nostra storia, ancora scossa da una Rivoluzione e da una rivelazione che avevano messo fine al totalitarismo monarchico.

La coscienza proletaria armata non ha sconfitto la supremazia capitalista ma – dalla Comune di Parigi alle collettività libertarie spagnole del 1936 – ha dimostrato che il progetto di una società radicalmente nuova entrava nell’ordine delle possibilità.

Costruire una società veramente umana non è un'utopia ma un esserci (il “ci siamo” – on est là – ripetuto con enfasi dai Gilets jaunes, NdT.).

Questa è la realtà esperimentata, secondo la loro specificità, dagli insegnamenti del maggio 1968, dalla cosiddetta rivolta degli Indignati, dall'apparizione degli zapatisti, dei Gilets jaunes, dei combattenti del Rojava e delle insurrezioni della vita quotidiana che divampano, si estinguono e rinascono ai quattro angoli del mondo.

Ecco dove risiede l'importanza del nostro tempo esistenziale e sociale. Lasciamo gli urlatori dell'anticapitalismo al loro Gran Meeting metropolitano! Lasciamo che la danza dello scalpo celebri l'illusoria messa a morte del sistema. L'esecrazione non nasconde più l'impotenza di chiunque si aspetti qualcosa dallo Stato e dalle mafie che lo sponsorizzano. Quanti anni ancora prima di rendersi conto che nulla è cambiato dei decreti e delle misure coercitive che attentano alla nostra libertà di vivere?

Quante elezioni per confermare che i più disprezzati plebiscitano sempre quello che li disprezza di più?

La fortezza del potere si crepa e noi continuiamo a lanciargli pietre con l'illusione di abbatterla. Tuttavia è su di noi che crolla. È più probabile che le sue macerie ci uccidano se indugiamo nei suoi paraggi. La Torre panoptica del Potere si voleva immutabile. Si sgretola davanti ai nostri occhi. Rischia di schiacciare con la sua spaventosa nullità coloro che ancora le attribuiscono un'onnipotenza.

Qual è il bilancio dell'anticapitalismo? Un muro di lamentazioni, una celebrazione vittimistica in seno a quei cimiteri che le mafie dell'ultimo profitto costruiscono rasando i nostri paesaggi.

Il populismo gauchista del disotto dà ragione al potere repressivo del disopra. La contestazione ideologica sposa la tirannia che ne giustifica l'esistenza. La rabbia militante imita la rabbia militare, si nutre della propria vanità.

Perché continuare a impantanarsi in un'ideologia rivoluzionaria che langue all'ombra di una morte economicamente programmata? Siamo, dunque, condannati ai rigurgiti di una critica-critica che riempie il vuoto creato dal mancato superamento della filosofia?

L'assenza di vita autentica che affligge i circoli intellettuali è ancora più costernante del progressivo declino dell'intelligenza.

Ciò che manca di più all'anticapitalismo è l'insurrezione del cuore.

In Francia, il colmo dell'odioso e del ridicolo è stato raggiunto da una sinistra e da un gauchismo retro-bolscevico e libertario che si è schierato a favore dell'obbligo di vaccinarsi decretato dai governi al soldo delle mafie farmaceutiche. Mentre un populismo fascista difendeva i non vaccinati aggiungendovi la "libertà" di espellere i migranti, il populismo gauchista invocava senza scrupoli il principio di solidarietà per giustificare la vaccinazione obbligatoria e il passaporto vaccinale, primo vangelo del Credito sociale sperimentato in Cina con successo.

Non possiamo più accontentarci di lottare sul terreno in cui il nemico ci trascina come una preda. La rivendicazione umana non deve avventurarsi in zone inquinate e militarizzate. L'avventura è altrove.

La vita da vivere irride il dialogo con lo Stato. Il mutuo soccorso non tollera che gli artigli del potere e il calcolo egoista lacerino il tessuto sociale in cui l'autonomia individuale cerca la sua strada.

Troppo spesso abbiamo protetto ciò che c’impediva di vivere. Indignarsi, lamentarsi, ribellarsi e battere i tamburi dell'etica non hanno cambiato nulla nello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Dobbiamo arrenderci all’evidenza: aboliremo la società dei morti viventi solo creando una società planetaria il cui baricentro sia la vita.

Uscire dai ranghi dell'individualismo gregario significa sventare la morsa del caos mortifero per creare un ordine vivente.

Chiedetevi perché persiste soltanto un’insurrezione della vita quotidiana che ovunque riemerge, si ferma, si ravviva, spingendo l'innocenza fino a ignorare il più freddo dei mostri freddi (lo Stato, secondo la formula di Nietzsche, NdT) e i suoi aborti sterminatori.

La civiltà del lavoro condanna a un esilio da se stessi. In questo sta la vera causa di quel malessere universale che il pensiero disincarnato attribuisce a una maledizione ontologica.

Alla separazione da noi stessi, che ci impedisce di godere della vita, si aggiunge una suddivisione in due funzioni – una intellettuale, una manuale – prodotta da una società di signori e di schiavi. Questa distinzione artificiosa ha propagato un sistema di apprensioni binarie. Ogni realtà gelosamente accompagnata dal suo opposto è una trappola in cui cade la nostra volontà di superamento. Il dualismo e la sua logica di A e non-A ostacolano e paralizzano la nostra volontà di ripristinare l'unità con noi stessi e con il mondo, che il regno della separazione ha spezzato.

La vecchia opposizione del Bene e del Male non ha smesso di renderci stupidi. Se il nichilismo affarista l’annulla come distrugge tutti i valori, è al solo scopo di rafforzare quello del denaro. Il profitto s’incamera più facilmente dove regna il caos. Per coltivarlo basta lasciar correre l’evidenza pecoresca: ogni contrario non superato diventa contrarietà.

Superamento del politico. Abolire la società dei signori e degli schiavi che, dalla fine del Neolitico ai giorni nostri, ci mantiene in uno stato di morbosità e di morte latente, implica un superamento del politico in quanto gestione del mondo dominante e del mondo dominato.

Nel senso originario del termine – gestione della polis, della Città – la pratica politica è un tentativo di equilibrare l'ordine e il disordine inerenti a una società di sfruttatori e sfruttati. L'alternanza di guerre e di pace si pesa, come la giustizia e l'ingiustizia, sulla bilancia del commercio e dei suoi regolamenti di conti tra valore di scambio – il prezzo – e valore d'uso – l'utile e il piacevole.

Riducendo l'arte politica a una volgare montatura pubblicitaria, il clientelismo l'ha ridicolizzata oltre ogni aspettativa. I movimenti d’insurrezione popolare hanno colto in questo un’occasione per proclamare il loro apoliticismo. Del resto, il loro rifiuto dei capi – la loro acrazia – sarebbe bastato a denunciare e bandire le manipolazioni e le corruzioni cui sono usi i governi e il loro machiavellismo da cortile.

Ecco, dunque, una trappola in cui le assemblee di autogestione non cadranno più finché si affideranno all'aiuto reciproco e all'autonomia per favorire l'armonizzazione dei desideri individuali e collettivi.

Superamento dell'intellettualità. Il pensiero del signore dominante si affina sul filo dell'organizzazione pratica richiesta dall'agricoltura, dall'allevamento del gregge – animali e schiavi indistintamente – e dagli scambi commerciali che ne procurano gli acquisti monetari.

Quanto al grado d’intelligenza indispensabile al lavoratore manuale, esso non deve eccedere la semplice capacità di eseguire gli ordini. La funzione di ottemperare senza discutere richiede un'autorità di controllo. L'infantilizzazione esige per i piccoli e per il piccolo popolo la severa benevolenza di un padre. Che cosa di meglio di un mandato celeste e della garanzia degli Dei per incidere il dovere dell'obbedienza e della tirannia in un marmo la cui presunta eternità dura quasi da diecimila anni?

Tutte le scienze, tutte le culture stanno crollando. Il sapere non scompare, si libera di un potere di cui lo rivestiva il principio gerarchico che governa le società agro-mercantili. La conoscenza si spoglia di quell'arroganza che la rendeva sospetta, per quanto indispensabile fosse.

L'emancipazione della donna e la rovina ineluttabile del patriarcato che la riduceva a un oggetto cominciano appena a mostrare i loro effetti. Essi sono visibili nell'evoluzione sociale ma non abbiamo ancora intuito fino a che punto la sensibilità femminile sta per rivoluzionare tutte le sfere di un sapere accaparrato e diretto, fino a oggi, da un virilismo che divulga le sue verità perentorie e gloriose.

La rinascita verso la quale ci dirigiamo è destinata a realizzare l'uomo totale la cui visione ossessiona – da Leonardo da Vinci a Pierre Kropotkin – gli esseri pensanti più generosi e audaci. Questa creatura posseduta dalla passione per tutto non è altro che la donna e l'uomo dediti a compiere il loro destino umano, secondo la vocazione della nostra specie.

Così come il proletario aspira a negare se stesso instaurando una società senza classi, il pensatore, una volta consapevole della vita che lo ispira, non smette di liberarsi dalla sua intellettualità per giungere a una potenza poetica universale.

L'intellettualità, cui nessuno sfugge, fa parte della corazza caratteriale del signore, il cui spirito celeste instilla il suo veleno in noi e nella società. La funzione intellettuale partecipa alla predazione, impone il suo potere anche nelle più sincere intenzioni sovversive. Il cielo delle idee ha desacralizzato il cielo degli dèi senza perdere la sua altezza nei confronti della terra.

Man mano che la sopravvivenza lascia il posto alla volontà di vivere, il numero delle mutazioni prevedibili si precisa. Il degrado mentale degli ultimi intellettuali fieri di esserlo va di pari passo con un Potere che la sua articolazione meccanica esenta dal dover pensare. Coloro che gestiscono la macchina per il lavaggio del cervello sono i primi a subirne gli effetti.

Più trionfano l'acefalismo e l'assenza d’intelligenza, più il campo dei viventi– o che almeno cercano di esserlo – scopre un'intelligenza sensibile e la priorità che essa accorda alle ragioni del cuore e del corpo.

La voce del vissuto rompe con la comunicazione reificata, con l'espressione desensibilizzata del discorso affarista, con la scienza oltraggiosamente investita dalla neolingua.

Le idee sventrate galleggiano a pancia all’aria. Non c'è nulla d’irrazionale né di mistico nella risposta alla razionalità disincarnata. Essa è la poesia che ha vocazione di ravvivare il vivente umanizzandolo.

La sopravvivenza è un campo di coerenze, lo stile di vita un campo di risonanze. Il linguaggio economizzato partecipa del primo, la vivacità poetica del secondo.

L'era della creazione abolisce il lavoro. Il lavoro è la forma inaugurale dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. È l'atto fondatore di una civiltà, dove il soggetto che trasforma la manna terrestre in merce diventa esso stesso un oggetto mercantile.

Durante le guerre, apparse verso la fine del Neolitico, i vinti sfuggivano al massacro solo servendo da schiavi per i vincitori. Da quel momento in poi, la sopravvivenza è sempre stata il prezzo di una morte in attesa.

Fu un tempo in cui il dinamismo commerciale salvaguardava una parte di creatività utile al suo processo d’innovazione. Le libertà furtive del libero scambio arieggiavano lo spirito confinato e disturbavano il conservatorismo dei regimi agrari. Per quanto scarsa ed emarginata fosse, la passione di creare rendeva attraenti dei lavori la cui utilità sociale sembrava indiscutibile. Si sa come le innovazioni originate dal capitalismo in fase d’industrializzazione abbiano alimentato il mito di un progressismo prometeico.

La graduale diserzione del settore produttivo a favore di quello dei consumi ha ridotto il lavoro alla necessità di un salario da dilapidare nelle oasi di supermercati. Il lavoro socialmente utile ha ceduto poco a poco il posto a un lavoro parassitario che, come negli ospedali, avvantaggia una gestione della redditività e rovina l'efficacia sanitaria con il pretesto di migliorarne i servizi.

Il capitalismo è entrato in un trinceramento finanziario, dove si arroga il diritto di rendere redditizia la sua morte programmando la nostra. Non abbiamo altra scelta che proteggere, difendere, ricreare la nostra vita e, con essa, le risorse naturali che sono contemporaneamente offerte e distrutte sotto i nostri occhi.

I problemi ambientali sono trattati soltanto globalmente e statisticamente – con i risultati che conosciamo –perché disdegniamo di affrontarli alla base, a livello locale e regionale. Eppure è nel villaggio e nei quartieri che l’inquinamento, l’avvelenamento, lo smantellamento dell'istruzione, degli ospedali, dei trasporti perpetuano i loro misfatti. Laddove un intervento diretto è possibile.

Gemere, gridare, pregare sono ugualmente ridicoli e rimarranno tali fino a quando l'audacia d’innovare non sarà riapparsa insieme con quella di vivere, finalmente.

Superamento del caratteriale e dell’emozionale. Le dualità regnano e si susseguono senza smettere d’invocare un superamento delle tensioni e un sogno di armonia. La nostra esistenza quotidiana è un laboratorio sperimentale. Il desiderio e il suo contrario fanno dell’esistenza un tormento quando le pulsioni vitali bussano alla porta.

In Psicologia di massa del fascismo, Reich mostra che l’uscita dal corpo – e bisogna intendere con questo tutte le forme d’isteria, di panico, di misticismo, di settarismo e di fanatismo – si spiega con il desiderio contrariato e profondamente insoddisfatto delle masse.

La corazza caratteriale che blocca le emozioni con il pretesto di controllarle riesce solo a inselvatichirle. L'edonismo è il recupero ideologico di una dialettica del desiderio che è al cuore dell'esistenza individuale e collettiva.

Soltanto l'esercizio dell'autogestione generalizzata può liberare l'individuo dalla sua cappa individualista, solo la pratica del mutuo soccorso può garantire a tutte e a tutti un'autonomia che non è altro che la libertà di vivere.

Quel che si gioca alla luce delle insurrezioni che rischiarano il pianeta, è il passaggio dalla sopravvivenza a uno stile di vita in cui tutto si reinventa.

 

III. L'autogestione generalizzata e il progetto di una vita umana e sovrana

Nel suo opuscolo Indignez-vous Stéphane Hessel metteva l’accento sulla resistenza che, al richiamo della vita, si leva contro ogni forma d’oppressione. Abbiamo visto succedere alla tirannia del vecchio regime agrario una tirannia del libero scambio dove le libertà menzognere non erano meno crudeli del cinismo predatorio degli imperi profani e religiosi.

Senza incriminare il disastroso recupero politico e ideologico degli Indignés, è bene rilevare che allo spirito di contestazione che li ha risvegliati è succeduta una poesia insurrezionale in cui l'attrazione della violenza barricadiera lascia il posto alla violenza pacifica della vita onnipresente.

Troppo spesso le idee si convertono in chimerica astrazione appena smettono di essere ancorate a una pratica esistenziale e sociale. L'autorganizzazione del popolo ha una sua storia che, attraverso vittorie e sconfitte, ci ha lasciato preziosi insegnamenti. Anche se non appaiono esplicitamente, la Comune di Parigi, i Consigli Operai Russi, i Collettivi libertari della Rivoluzione spagnola, la radicalità del maggio 1968 non sono estranei al rifiuto di dirigenti, di rappresentanti autoproclamati e di apparati politici che l'insurrezione pacifica dei Gilet Gialli ha rivendicato fin dall'inizio.

Una scelta identica guida i sollevamenti che, dal Chiapas alla Thailandia, propagano le loro differenze e le loro similarità. Nella storia delle rivoluzioni si tratta di una novità radicale ed essa esprime un’evidenza che è sempre stata occultata: la vita non vuole padroni.

L'essere che aspira a ritrovare la sua umanità è naturalmente apolitico, areligioso, acratico. È stato sufficiente al popolo questo guizzo per abbattere i bastioni gemelli del conservatorismo e del progressismo.

Dalla resistenza a una poetica dell'insurrezione. Nate da pretesti futili – una tassa indebita, un aumento del biglietto della metropolitana, un'incongruenza burocratica – le conflagrazioni planetarie scaturiscono in realtà da una quotidianità i cui desideri sono stati troppo a lungo compressi.

Tali sollevamenti si sono verificati in passato, ma è la prima volta che si rivendica apertamente un’unanime volontà di “vivere in piena libertà”. È la prima volta che il popolo ha deciso di organizzarsi autonomamente, che bandisce i capi, rifiuta i delegati non nominati, si protegge dall'intrusione di apparati politici e oppone al calcolo egoistico un mutuo soccorso che accorda all'umano una priorità assoluta.

Elogio dell'azione ravvicinata. Il principio di Tierra y libertad, proposto da Ricardo Flores Magón e reso popolare da Emiliano Zapata, assume oggi un’importanza che non sospettava il peone costretto al lavoro duro per un proprietario terriero nel Messico in rivolta.

La riforma agraria, che ieri reclamava l'appropriazione collettiva di qualche porzione di terra, ingloba ormai nelle sue esigenze l'intero pianeta. Nondimeno resta vero che riappropriarsi della manna terrestre comincia dal pezzo di terra impunemente avvelenato sotto i nostri occhi dall'industria agroalimentare. Il sistema di sfruttamento della natura è solo un rumore di corridoio nelle alte sfere. È in basso che il saccheggio e l’inquinamento soffocano la popolazione, è alla base che bisogna mettere loro fine.

In materia di vissuto individuale, collettivo e ambientale, non c'è problema trattato dagli organismi statali e sovrastatali che non si sia in grado di affrontare nell’ambito della realtà locale.

Per quanto disparata possa essere, prevale in ciascuno la sensazione di condurre un'esistenza contraria ai propri desideri più cari. Ieri, le conquiste sociali strappate con un’aspra lotta offrivano una sorta di contropartita all'odiosa necessità di lavorare e obbedire. Che cosa resta di questo bene pubblico, di questa res publica che è stata venduta agli interessi privati? Anche le zattere della consolazione consumistica affondano, prese tra le onde del capitalismo finanziario. Non si sa chi, tra la speculazione borsistica o l’impoverimento, spegnerà per primo il luccichio dei supermercati.

Lo Stato non ha più altra funzione che repressiva. Il manganello risponde alle domande del popolo. Per il Credito sociale che la Cina esporta con successo, basta una carta elettronica per familiarizzarsi con l'autodistruzione della cittadinanza.

“L'opera più nefasta del dispotismo, diceva il comunardo Arthur Arnould, è quella di separare i cittadini, di isolarli gli uni dagli altri, di spingerli alla diffidenza, al disprezzo reciproci. Nessuno agisce più, perché nessuno osa più contare sul suo vicino”.

Si sarà capito: dove siamo noi, lo Stato non c'è più. La storia ha esaurito tutte le forme di Potere destinate a governare il corpo e la sua coscienza. La morte avanzava le sue pedine di nascosto. Questa volta, essa ci affronta a viso aperto. La sua assurdità è perentoria.

Charles de Ligne racconta che un generale tedesco, avendo solo una conoscenza rudimentale del francese, non trovò altra arringa prima della battaglia che “Andiamo a fottere!”. Ebbene, detta così la cosa, dissero i soldati, perché no? Accadde, però, che durante la scaramuccia questi stessi soldati lo facessero sfuggire in extremis alla morte. Dunque, osserva C. de Ligne, la parola che dà la vita, l’ha salvata.

Tocca ormai a noi di godere sul momento della primavera della vita, fregandosene della guerra in cui il passato è in preda al panico per conquistare il futuro.

L'autogestione deve alla violenza repressiva degli Stati le sue troppo brevi sperimentazioni. Nessuno è così ingenuo da credere che il più freddo dei mostri freddi rimarrà impassibile di fronte ai nostri tentativi di soppiantarlo. Tuttavia per quanto temibili siano le esplosioni della sua rabbia sfiatata, che possibilità ha la sua estinzione auto-programmata di soffocare il respiro di una vita che si rianima senza tregua?

La vita è un'arma che molesta senza uccidere. Tale è la potenza offensiva di cui prende lentamente coscienza la guerriglia la cui alba sorge ogni giorno all'orizzonte del vecchio mondo. La nostra autodifesa non ha altre basi.

L'autogestione implica la creazione di micro-società chiamate a federarsi. Scommette sulla creatività degli individui, sulla loro disinvolta e appassionata ricerca di un destino che revochi per sempre Fatalità, Provvidenza, Destino.

Efficacemente riattivata dalla peste emozionale del coronavirus – e occasionalmente da gonfiature parodistiche di guerra nucleare – la macchina per il lavaggio del cervello s’inceppa, implode, tanto i suoi manipolatori hanno fatto e fanno mostra d’incompetenza anche nelle loro menzogne. È l’ora in cui coloro che il panico mediatico e la prevaricazione scientifica aveva sprofondato in un coma artificiale, possono scrollarsi di dosso il loro letargo.

Il risveglio delle coscienze riscopre la libertà dei possibili. Anche nelle profondità delle folle asservite, ci si stanca dell'immensa lassitudine di un universo confinato. Il grado di bassezza e meschinità rende irrespirabili le nostre società tecnicamente civilizzate.

Come non sognare una società che risolva i suoi problemi senza fare riferimento a delle élite la cui sola inanità sonora è rappresentativa.

Il sogno è il tessuto del pensiero.

Il calcolo egoistico è sempre e solo riuscito a spingere più lontano la glaciazione dell'umano. È stato il sudario che seppellisce gli esseri prima che nascano a se stessi. Dopo aver recitato con tanta docilità Prometeo incatenato, è davvero il minimo che ci si sia risoluti ad aderire al progetto di essere umano nella sua infinità.

Si tratta soltanto della realizzazione di un sogno senza tempo e ricorrente, quello dell'Uomo totale che ispirò le riflessioni del Rinascimento. Il ritorno al mutuo soccorso, l'emergere d’individui autonomi, la nuova alleanza con la natura sono barlumi che, nella notte e nella nebbia del dubbio, segnalano una probabile rinascita dell'umano, un rovesciamento di prospettiva dove la vita rivendica i suoi diritti assoluti e bandisce le ombre della morte, più deleterie ancora che la morte stessa.

Il coronavirus ha, tra altri effetti, mostrato dal vivo un mondo di menzogne, di squilibri, di odi, di delazioni, di disumanità che non vogliamo più. Tuttavia la domanda sorge qui e ora: che cosa vogliamo esattamente? Rispondervi è il nostro principale ricorso contro la confusione e il caos che ci spingono verso l'Ordine del Credito Sociale, applicato in Cina.

Bisogna pure, innanzitutto, stabilire una distinzione tra desiderio naturale – o desiderio del cuore – e desiderio snaturato. La precisione è importante. La priorità accordata all’umano esclude ogni influenza economica. Essa bandisce la predazione, il potere, il consumismo, la manipolazione.

Poiché l’astrazione lo priva della sua sostanza viva, il desiderio trae il suo senso dalla situazione da cui emana. Qualunque sia il problema che deve affrontare, è della massima importanza che non rinunci alla sua natura di soggetto per snaturarsi in oggetto.

Anche se dispone di un enorme sostegno, una decisione disumana è inaccettabile. La nozione di maggioranza e minoranza va rivista in questo senso. Si obietterà che nell'ambito dell’autogestione non si pone la questione della pena di morte o del carcere. Tuttavia, che ne sarà della macellazione di un animale, dell’abbattimento di un albero?

Tra gli zapatisti, chiunque voglia trovare una soluzione a una difficoltà incontrata, è incaricato dall'assemblea locale. Riferirà sugli imprevisti della sua attività, senza rischio di incorrere in lodi o reprimende. Tutte le età, tutti i sessi hanno il diritto di esprimere la propria opinione.

Agli zapatisti piace ricordare che sono un’esperienza, non un modello. Il modello conserva in sé qualcosa di autoritario. L'esperienza, invece, dà libero sfogo agli insegnamenti che se ne possono trarre.

Smettendo di deplorare l'apparente futilità dei miei passi, mi sento incaricato dai milioni di donne e uomini che, come me, hanno voglia di vivere.

La solidarietà dà le ali alla mia solitudine.

È nell'esistenza, probabile e tuttora incerta, di società autogestite che sta a noi prevedere con quali imprese di restauro e rinnovamento ci troveremo prima o poi confrontati, con l'unico sostegno dell’aiuto reciproco, del potenziale creativo degli individui autonomi e della prospettiva esaltante di un’umanizzazione crescente.

Con che diritto vietare alle comunità e agli individui che le compongono di intervenire direttamente nei problemi posti dal loro ambiente circostante? Sebbene gli uffici di gestione statistica siano, a quanto pare, meno esposti ai miasmi dell'inquinamento agroalimentare rispetto alle case situate ai bordi dei campi, è comunque dalle scartoffie deodorate che provengono le decisioni prese al vertice nel totale disprezzo per la base.

Il rifiuto di ascoltare da parte delle autorità governative rende ridicole le lamentele che il popolo rivolge loro. Lo Stato non si accontenta di stracciare il contratto sociale, medita di sostituirlo con il Credito alla cinese, che nota, punisce e premia il servilismo dei cittadini.

Se vogliamo scongiurare tale infamia, non è forse giunto il momento di redigere una Costituzione dei diritti dell'essere umano che conceda la sua naturale legittimità a un governo del popolo da parte del popolo? È in nome di questa costituzione eretta a stato di fatto, che saremo abilitati ad affrontare con piena poesia pratica dei problemi che gli interessi statali e mafiosi affrontano solo in modo spettacolare, disincarnandoli, meccanizzandoli.

Ci libereremo di quel che ci è rimasto in gola. Il recupero delle conoscenze, del sapere, dell'arte, delle scienze acquisite nella civiltà mercantile non è sufficiente per le esigenze di un mondo nuovo. Esso implica la riconversione del progresso tecnico in progresso umano.

Tutto è da restaurare, reinventare, rinaturalizzare.

A cominciare dalla scuola, le cure sanitarie, i trasporti, l’agricoltura, l’ambiente, l’energia, i flussi migratori, la lingua e la libertà d’espressione, la produzione e lo scambio dei beni di consumo.

L'esercizio di una pratica di prossimità è una reazione di vita. Essa predomina sugli imperativi del profitto che la frenano, la distorcono, la rovinano.

Abbiamo la priorità su quel che ci riguarda per primi.

La scuola non può tollerare oltre la morsa arcaica della predazione, della concorrenza, della competizione, del sacrificio, dello spirito militare. L'attrazione appassionata non fa forse della curiosità una pratica di prossimità che revoca la tutela dell'autorità e dei suoi decreti secolari o religiosi? L'emulazione rimanda la concorrenza alla sua villania bottegaia. Suscita il desiderio d’istruirsi a qualsiasi età, in tutti i campi, in qualsiasi momento – secondo il metodo rabelaisiano, estrapolando dal pezzo di pane, dalla forchetta, dalla tavola i primi rudimenti di storia, di analisi, di percezione poetica degli esseri e delle cose.

Accordare la priorità all'intelligenza sensibile e non più all'intellettualità funzionale alimenta il sapere affettivo di una poesia che evita alla soggettività la trappola dell'oggettivazione e dei suoi psicodrammi.

Oltre che condurre una lotta giuridica ed estenuante contro i pesticidi, non sarebbe saggio combattere le devastazioni dell'industria agroalimentare favorendo il passaggio alla permacultura, a forme rinaturate di agricoltura e allevamento, a un'orticoltura che soddisfi le esigenze della regione, a una varietà di piccoli orti personali e di terreni comuni coltivati collettivamente?

Finché il profitto di pochi azionisti prevale sulla salute della popolazione locale, è poco probabile ottenere la chiusura delle industrie tossiche. Per contro, sull'esempio dei villaggi che acquistano terreni di caccia per riconvertirli in orti collettivi, aiutare i lavoratori a disertare le loro fabbriche senza trovarsi privati di mezzi di sussistenza merita di fornire materia di discussione.

Il deterioramento e la scarsità dei trasporti pubblici incoraggiano a rimetterli alla portata di tutti rinnovandoli, diversificandoli, garantendone la gratuità, boicottando le lobby petrolifere e le loro vetture, tanto impropriamente chiamate "automobili".

Lo stato disastroso degli ospedali suggerisce alle microsocietà autogestite di creare delle case di salute dove il rapporto tra paziente e curante favorisca quel clima di fiducia reciproca senza il quale nessuna guarigione è possibile. Abbiamo visto troppi medici e studiosi screditarsi avallando il passaggio dal sanitario al securitario, facendosi i valletti mercenari del potere politico e delle mafie farmaceutiche.

Le malversazioni di una scienza priva di coscienza e il “trattamento alla Semmelweis” applicato agli scienziati che ostacolavano gli interessi delle mafie farmaceutiche, autorizzano ormai i ricercatori a esplorare la manna delle terapie naturali rifiutando qualsiasi autorità nazionale e sovranazionale in materia di rimedi.

Mentre la brutalità dell'allopatia è messa in causa, la nuova alleanza con la natura riscopre le piante curative e si rivolge allo sviluppo delle loro virtù. Si ritorna, anche qui, al principio di prossimità.

Come nel diciannovesimo secolo l'ascesa del capitalismo industriale suscitò i Volta, Watt, Lebon, Papin, Huygens che sperimentarono – spesso con i propri mezzi – il genio inventivo che li sollecitava, così l'emergere di una civiltà umana incoraggia a fidarsi dell'intelligenza e della creatività d’individui finalmente consapevoli delle libertà di cui godono.

Il principio del mutuo soccorso invita a creare dei luoghi di parole. La fine degli intellettuali e del loro disprezzo per la chiacchiera festiva restituisce ai luoghi pubblici, alle strade, ai bar, alle case del popolo dei modi d’espressione che grazie alla loro stessa libertà possono prevenire o placare i conflitti, le psicopatie e gli squilibri esistenziali dovuti al vacillare dei vecchi punti di riferimento e all’incertezza dei nuovi.

Spetta alle assemblee di micro-società autogestite e federate riconvertire il passato e ricreare il presente. Che non ci sfugga di mano nessuna delle questioni su cui il Leviatano e i suoi tirapiedi hanno invano cercato di mantenere l’esclusiva. Sì, abbiamo in noi la potenza inventiva capace di affrontare il problema di un'energia gratuita e non inquinante, di ravvivare il linguaggio destinato a disarticolarsi e a inaridirsi economizzandosi, di distribuire i flussi migratori – che faciliterebbe sia la ricezione di un ristretto numero di ospiti da parte di un gran numero di collettività e un contatto costante delle persone spostate con i loro luoghi di origine.

Non siamo forse abbastanza informati dell’inflazione e della graduale scomparsa del denaro contante per prevedere delle banche di mutuo soccorso, dei sistemi di baratto, delle monete non capitalizzabili?

I frammenti di vita proiettati dai Gilets jaunes hanno favorito la nascita di collettività capaci di concretizzare in assemblee locali delle proposte che, limitate a una diffusione in rete, si espongono al controllo e alla censura delle opinioni. Non è forse questo il punto di partenza per una distruzione – o più abilmente per una riconversione – di cellulari e altri gadget che, con un cinismo esilarante, ci spiano e bigbrotherizzano le nostre tasche e le nostre case?

La storia fatta da noi e contro di noi è arrivata a un mollate tutto dove, per chi ne è soggettivamente e visceralmente convinto, tutto è possibile.

 

IV. Il rovesciamento di prospettiva

L'economia agro-mercantile ha eretto contro il libero sviluppo dell’umano una diga su cui sbattono continuamente le onde dell'emancipazione. Nel corso dei secoli, tumulti, rivolte, insurrezioni sono sempre regredite di fronte a questo gigantesco ostacolo, senza, però, che i loro assalti scemassero e si esaurissero.

Se oggi i bastioni dell'oppressione s’incrinano e si sgretolano, la causa è meno imputabile alla violenza che li colpisce dall'esterno che a una distorsione che li disloca interiormente.

Dall'inizio, la guerra che la civiltà mercantile aveva deciso di condurre contro la natura era destinata a trionfare solo precipitando la propria sconfitta. Ci sono voluti diecimila anni per convincerne le sue ultime vittime. Che sono mai diecimila anni rispetto ai tre milioni di anni che vanno dalla nostra antenata Lucy ai dipinti parietali di Lascaux?

Vaghiamo tra i brividi dell'inverno che muore e i fremiti della primavera che rinasce. Il tremito che accompagna quel che spunta o tiene duro non è lo stesso di quello che precipita.

Il rovesciamento di prospettiva è la libera scelta offerta all'essere umano. Esso revoca gli imperativi, le parole d'ordine. La nuova era ha dalla sua la coscienza che la esplora e la rende visibile.

Proporre una sorta di progetto o di programma sarebbe un errore se lo si sostituisse alla potenza poetica che risveglia l'individuo alle sue capacità creative.

Nessuno sa come l'homo economicus spezzerà l'incantesimo secolare che l’ha così facilmente convinto della sua congenita impotenza. Sarà un trauma come l'inaspettato allagamento del laboratorio di Pavlov che cancellò il riflesso di sottomissione, testato con successo sui cani? O, più felicemente, un ribaltamento foriero di un salutare rovesciamento di prospettiva, in grado di concentrare la nostra energia su una vita sovrana e sulla coscienza umana che essa ci ha accordato e che, il più delle volte, ci è rimasta estranea?

Lottiamo per un ritorno alla vita. Non abbiamo niente a che fare con una sfida alla morte.

La vita non è un progetto, non ha senso. Siamo noi a darle un senso, noi cui essa ha delegato la facoltà di intervenire nel suo processo di proliferazione sperimentale e di evitare, se lo vogliamo, il ricorso alla morte che regola abitualmente la distruzione dell’eccedente – l’eccesso di nascite, di creature, di alberi, di avere accumulato a spese dell'essere.

Portiamo in noi la vita nell'umile scintilla della sua immensità. Il nostro destino è di umanizzarla.

Per convenire che non c'è altro essere supremo che l'essere umano, dobbiamo prima spogliarci del ruolo di signore che una storia snaturata ci ha imposto. È giunto il momento di porre fine per sempre alla stolta, crudele e devastante superiorità che ci ha fatto regnare sugli animali, le piante, le pietre.

Non c'è in questo alcuna ingiunzione etica. Vogliamo soltanto annientare la sofferenza che infliggiamo loro soffrendone noi stessi. Fino a quale grado di abbrutimento mortifero, cinegetico o militare dobbiamo scendere per dimenticare che questi cosiddetti regni inferiori fanno parte dei nostri elementi costitutivi?

Le nostre lotte sono rimaste confinate sul terreno delimitato militarmente dai nostri nemici. I quali verso di esso ci spingono e ci intrappolano ma conoscono, invece, della vita solo la spada che la taglia. Non avranno bisogno d’altro finché offriremo loro le nostre gole!

Se, invece, faremo in modo di sfuggire ai loro mulinelli da matamori, sono le loro stesse teste che taglieranno. La parodia di guerra mondiale, di cui l'Ucraina è il viscido pretesto, dimostra ancora una volta che solo una miserabile e sanguinaria mascherata dissimula il crollo degli Stati.

I tamburi sono rotti, non spaccano più i timpani. Le loro guerre non ci riguardano! Non siamo trafficanti d'armi, né banchieri, né burattini politici.

Come immaginare un’autodifesa pacifica, una guerriglia in cui la vita molesti il nemico fino a precipitarne la debacle? Fourier, che ha poca simpatia per le rivoluzioni, propone una soluzione che, sotto il suo apparente candore, indica piste da esplorare. I falansteri, aperti tanto ai ricchi quanto ai poveri, mantengono una separazione tra la tavola dove i più facoltosi si riempiono di pietanze squisite cui sono abituati e le feste più frugali di cui si accontentano le classi inferiori. Ora, la gioia che regna tra i poveri contrasta talmente con la mestizia e l’insipidezza edonistica che affliggono i ricchi che questi ultimi disertano poco a poco le mense di un'opulenza senza attrattiva per unirsi ai poveri che si rallegrano di delizie minori.

L'apologo fa parte della realtà visionaria del teorico dell'attrazione appassionata. Tuttavia, le evocazioni poetiche di una società falansteriana non sono prive di echi suggestivi in un progetto di autogestione che ha il vantaggio rispetto alla costruzione fourierista di essere ancorato nella storia, dove ha fornito prove indiscutibili di riuscita.

L'osservazione illustrata da Fourier punta oggi il dito sugli oligarchi svuotati dalle incontinenze dell’avere, mummificati nelle bende dei loro piaceri noiosi, mentre, dalle strade alle rotonde, dalle città ai paesi, i poveri celebrano l'eterna primavera della vita.

Il tavolo della convivialità universale è aperto. Coloro i cui cuori appassiti sono diventati l'emblema della cupidigia rischiano di non scampare al banchetto del nulla.

La vita non ha bisogno di noi per esistere. Noi, invece, abbiamo bisogno della vita per esistere e lei ci ha pensato, nella sua assenza di discernimento. Ciò che stupirà i futuri osservatori del nostro passato è che, dotati della capacità di armonizzare il vivente o di lasciare che si riequilibri distruggendoci, abbiamo scelto, finora, l'egualitarismo della morte piuttosto che i piaceri egualitari della gratuità.

Le insurrezioni della vita quotidiana suonano ovunque la campana a morto del capitalismo suicida. La menzogna soffoca sotto troppe parole storpiate.

Autonomi e fieri del nostro anonimato, noi siamo gli artigiani di un ritorno al vivente che risuona ai confini dell'universo. Noi mettiamo fine al calcolo egoista e alla servitù che hanno fatto della terra una valle di lacrime.

Noi creeremo un mondo in cui l’essere umano morirà soltanto sulla soglia della sua pienezza, nello splendore delle sue potenzialità soddisfatte, anche se non appagate nella loro totalità.

La vita non dice mai l'ultima parola.


7 marzo 2022, revisione del 14 aprile 2022

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