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iltascabile

Che cosa significa destra politica?

di Giacomo Croci*

Una riflessione a partire da Cultura di destra e società di massa. Europa 1870-1939 di Mimmo Cangiano

Schermata 2022 07 29 alle 11.18.24È un dato registrato da ormai qualche anno la reviviscenza in Europa, o almeno in Europa, della cosiddetta cultura di destra, su ampia scala, partitica e non. Piuttosto, ancora meglio che cosiddetta: di una cultura che si comprende, si identifica, si vuole e si proclama di destra. La rivendicazione è spesso netta, totemica quasi. La nettezza delle identificazioni, che sembra caratterizzare questi anni, pare però allo stesso tempo contraddire un altro elemento, che si è fatto sempre più preponderante nel dibattito pubblico, su quotidiani e social media: l’impazzimento della bussola ideologica. Da Alessandra Mussolini che si candida madrina del pride a testate del sedicente centro-sinistra che si lanciano nella più sperticata propaganda contro le più minime iniziative di welfare. È come se avessimo a che fare con due fenomeni: per un verso auto-identificazioni pietrificate, come se fossero certe di ciò che sono (una tendenza a oggi troppo spesso purtroppo condivisa da tutto il discorso politico); per l’altro lo smarrimento, tradito anche da questa pietrificazione, che di fronte a fenomeni storici, sociali, economici, anche naturali come una pandemia, non sa che pesci pigliare e dà luogo a risultati ideologicamente curiosi. La questione è ormai particolarmente spigolosa. Che cosa significa orientarsi nello spazio politico? E che cosa significa adoperare le due categorie di destra e di sinistra per farlo?

È un modo di ragionare diffuso quello che consiste nello spiegarsi gli eventi e le cose considerandone innanzitutto la provenienza e le cause. Si spiegano i comportamenti delle persone considerandone il vissuto; si spiegano gli eventi naturali identificandone le condizioni e le leggi che sembrano di prevedere con maggior affidabilità quali condizioni risultano in quali risultati e come.

Se è non solo frequente, ma almeno in parte legittimo rintracciare il concetto di qualcosa nelle sue condizioni, nella sua traiettoria di provenienza, Mimmo Cangiano ci aiuta allora a rispondere a queste domande. Nel solido volume Cultura di destra e società di massa, uscito lo scorso maggio per i tipi di nottetempo, collana extrema ratio, Cangiano sviluppa uno studio dei prodotti culturali sorti nel milieu della destra intellettuale e circoscritti al luogo e al tempo citati a sottotitolo: Europa 1870-1939. Maggiore attenzione è dedicata a Germania, Francia e Italia, ma non senza eccezioni. Lo scopo del volume, è importante sottolinearlo, non è di carattere critico nel senso di polemico, cioè di scontro, conflitto o dibattito politico. L’operazione del testo è piuttosto quella di un documentario storiografico. Cangiano ricostruisce la storia culturale della destra, con numerose incursioni nella sociologia e nell’economia politiche. In questo senso, il volume ci permette capire la destra obliquamente e attraverso la sua storia.

Cangiano considera un numero di autori e di testi decisamente ampio. Piuttosto che discuterli singolarmente, mi sembra più produttivo fissare alcuni concetti, che rimangono centrali per tutto il volume come schemi di lettura e organizzazione della realtà storica tipici della produzione culturale di destra. Si tratta cioè di concetti che hanno due funzioni: di descrivere fenomeni politici, sociali, economici; e di orientare la risposta a essi. I fenomeni di cui parla Cangiano afferiscono all’emergere e allo stabilirsi della società di massa: nel senso sia della produzione sempre più industrializzata, sia della massa umana dominata. In altre parole, il volume isola a partire dall’analisi storico-culturale alcuni elementi. Questi sono per un verso storici, appartengono a un’epoca e a un luogo, però operano allo stesso tempo come categorie, come indici concettuali. Ottenuti per mezzo della storia culturale, sembrano rendersene in parte indipendenti e riappaiono regolarmente nell’economia del testo. In questo senso, essi potrebbero caratterizzare non solo la storia della destra, ma la destra come concetto politico e non solo genealogico. Proprio per questa ragione mi soffermo proprio su questi schemi teorici e pratici, per come li isola e li discute Cangiano (il quale comunque non si arrischia a chiamarli categorie e si mantiene più prudentemente al di qua della generalizzazione).

Già l’ouverture del volume, dedicata a Hofmannsthal, traccia alcune linee che si mantengono, se non invariate, almeno fili rossi dell’analisi. La via regia della discussione è il contrasto fra unità passata e frammentazione presente che emerge nel binomio società/cultura o, detto altrimenti, politica/arte. Cangiano ricostruisce la seguente idea fondamentale: il divenire storico ha trasformato quella che era un’unità vitale, organizzata, formata – sia nella società che nei prodotti culturali – in una molteplicità atomizzata, meccanizzata, disorganizzata. Qualcosa è andato storto e si tratta di capire come è andato storto e come raddrizzarlo. La stortura consiste nella frammentazione, nel disordine “socio-estetico”, nel disgregarsi di una supposta unità sociale, culturale, linguistica, nel sopravvento della razionalità strumentale. Questa tesi è certo generica, ma riflette comunque alcuni fenomeni reali: nel corso dell’Ottocento società e sistema produttivo sono cambiati e ciò ha determinato a sua volta dei cambiamenti nella produzione artistica e culturale. La formulazione che ne viene data nei testi analizzati del volume ha tuttavia toni ben più drastici: la progressiva industrializzazione, l’affermazione sempre più decisa del capitalismo e della norma borghese, la formazione della classe proletaria sembrano aver sabotato, e in modo irreversibile, l’ordine della realtà.

Che cosa significa orientarsi nello spazio politico? E che cosa significa adoperare le due categorie di destra e di sinistra per farlo?

Si tratteggia così una delle invarianti che emergono dalle ricostruzioni di Cangiano: il dualismo fra ordine e disordine. Questo dualismo viene poi specificato, nei diversi autori e nei diversi testi considerati, secondo coordinate differenti. Faccio alcuni esempi: sulla linea temporale – l’ordine è solitamente al passato, il disordine solitamente nel presente, ma non senza eccezioni –, rispetto a ciò che è ordinato o disordinato – la società, l’arte, il linguaggio – e da un punto di vista che si potrebbe chiamare di assegnazione valoriale – cioè cosa dell’ordine e del disordine va mantenuto o abolito. Dalle analisi del volume emerge che, sebbene sui diversi assi di indagine il pensiero di destra risulta più mobile e fluido di quello che ci si potrebbe aspettare, a monte degli spostamenti rimane comunque una opposizione statica, un aut aut di ordine e disordine. O la realtà è ordinata, o è disordinata; o si sta dalla parte dell’ordine, o si sta dalla parte del disordine. En passant, Cangiano mi sembra mostrare più simpatia proprio per quelle figure che riescono in parte a emanciparsi da questo assioma, pur rimanendone obbligate, come nel capitolo dedicato a Péguy. A ogni modo, lo studio diagnostica un dualismo statico negli autori e i testi che discute.

Ma cerchiamo di diventare meno astratti. Due temi, più concreti, ritornano a più riprese nello studio e ci permettono di rappresentarci con più chiarezza cosa contraddistingue la tradizione di pensiero studiata da Cangiano. Due in particolare mi hanno interessato particolarmente. Riflettono alcuni aspetti che, in un certo senso, si mostrano ancora nel dibattito politico: il riferimento alla vita come complesso organico e organizzato; e la nozione che processi sovraindividuali e immodificabili determinano le trasformazioni storiche. Mi spiego meglio.

Il riferimento politico al campo semantico della vita non si limita soltanto a sezionare, nelle formazioni sociali, ciò che è o non è naturale – pensiamo per esempio alla famiglia naturale, sessualità naturale, eccetera. Si tratta di un riferimento più ampio, che include in generale l’idea di una organizzazione spontanea e in questo senso organica del mondo. In essa le parti si rapporterebbero al tutto, e viceversa, in una continuità ben rodata e architettata. I fenomeni storici appaiono così come fenomeni e processi vitali che si organizzano da sé, immediatamente. Da questa fissazione per la vita, la forma organica, l’immediatezza emergono, come da uno sfondo concettuale, le une o le altre nozioni, con i loro rispettivi opposti. Per esempio: alla organicità ordinata della produzione preindustriale si oppone la meccanicità atomizzata dell’industria; all’immediatezza di valori e linguaggi condivisi da una comunità e da una nazione si contrappone la razionalità strumentale e sradicata della borghesia internazionale; ai corpi contadini che sanno cosa fare, in sintonia con la terra e con gli altri corpi contadini, si oppongono i corpi borghesi e operai, frammentati.

Sembra in effetti che una risposta tipica del pensiero di destra all’emergere della società di massa sia stata proprio quella di riconoscervi un’interruzione della vita organica dell’individuo e delle nazioni: un disfacimento della scala naturae che prevedeva certo differenze, ma differenze che si tenevano insieme, in un tutto spontaneo e immediato e che, in soldoni, funzionava. Con tutte le fantasie del caso di questo funzionamento. La vita e gli organismi erano molteplici e plurali, non livellati dalla produzione e dalla razionalità strumentale. Le persone riconoscevano sé stesse, la propria classe, i propri simili, si rapportavano le une alle altre mantenendo il vincolo sociale senza attriti o sfruttamenti. I mutamenti erano fluidi, non meccanici o artificiali. Ogni nazione sviluppava coerentemente con il proprio carattere naturale e in accordo con il territorio la propria cultura, i propri linguaggi, la propria arte. Le parti si rapportavano al tutto, il tutto alle parti, seguendo un buon ordine, un ordine buono e dato, che certo diveniva, ma diveniva secondo i suoi ritmi più propri – prima che venissero intaccati dall’avvento di industria, capitale, materialismo, masse proletarie, atomizzazione nella grande e disumana città, eccetera. (Nel volume di Cangiano questo tema è sviluppato maggiormente nelle parti I e II.)

Sembra che una risposta tipica del pensiero di destra all’emergere della società di massa sia stata proprio quella di riconoscervi un’interruzione della vita organica dell’individuo e delle nazioni.

È naturalmente sciocco voler decidere se questa rastrelliera concettuale o fantastica è un criterio necessario e sufficiente per dire: eccolo, abbiamo fra le mani un pensiero di destra. Però mi sembra almeno uno strumento euristico e, in questo senso, non soltanto genealogico, quello che Cangiano permette di tratteggiare. La tendenza a proiettare nel passato nostalgico, in una nicchia di presente o nel futuro ridotto a utopia astratta un buon e organico incastro di corpi, nazioni, attività, che fu o è o sarà ultimamente dato: questa tendenza fissa sempre uno standard, legandolo dualisticamente al suo opposto, impedendo a monte un’analisi delle condizioni di questo standard, dei suoi eventuali limiti. La questione non consiste ovviamente nel fissare uno standard in generale: ogni azione politica, ogni progetto politico in quanto tali ne articolano. Si tratta piuttosto di presupporre uno standard statico, che vale una volta per tutte e che si distingue chiaramente dal suo opposto e dalle sue condizioni: non mediato e non invischiato, ma ripulito dalla storia, dalla società, dall’economia, dalla natura stessa. Detto altrimenti: vitalismo e organicismo possono apparire, a prima vista, pensieri ben disposti alla dinamicità. Ma le buone intenzioni si espongono al rischio di cercare nelle costellazioni storiche una sorta di brodo primordiale, venuto o a venire; e di trascurare così che nelle fattezze dello standard si esprimono, sebbene trasfigurati, quei rapporti di produzione, di potere, di linguaggio, che – seppure in un antagonismo – istituiscono lo standard politico. Che questo standard sia francese o tedesco, contadino o operaio, re o nomade o borghese, maschio o femmina o non binario, poco conta. Conta che ogni standard nasce e diviene sempre in contesti determinati, cova i propri focolai e scatena i propri limiti; e che può sempre essere fatto trapassare. Organismo e vita rischiano al contrario di diventare solo forme, indifferenti al loro trapassare.

Ci si può chiedere allora: basta negare, non senza cinismo, questa pretesa di un buon ordine comune e dato per ottenere un modello certo di avere una presa sulla realtà? Basta cioè asserire: se non è disordine, che sia disordine; se non è organizzazione, che sia conflitto? Cangiano ancora una volta ci viene incontro – penso soprattutto alle analisi della terza sezione e dell’epilogo del volume – isolando quelle figure, come nei casi esemplari Jünger e Spengler, che pur di non dialettizzare le fantasie reazionarie si comprano la catastrofe. Abbiamo a che fare anche in questo caso con un pensiero che risulta statico e che si esige purificato dai suoi opposti e antagonismi. L’idea fondamentale che mi sembra emergere dalle discussioni conclusive di Cangiano è la seguente: una delle reazioni allo stabilirsi della società di massa consiste nel riconoscervi il disfacimento dell’ordine precedente; e, anziché nel negarlo, nell’affermarlo.

È importante ora non immaginare che questa seconda prospettiva sia, al contrario della prima, meno astratta o meno statica. Sebbene ammetta l’avvento di un nuovo sistema di produzione, e se ne riconoscano alcuni tratti fondamentali, a questo fenomeno vengono allo stesso tempo date interpretazioni metastoriche e macropolitiche. La società di massa viene fissata nell’empireo degli eventi sovrumani. Termini come guerra, nazioni, sistemi di pensiero diventano il fuoco del discorso. Questo si slaccia così dalle condizioni materiali e pone i suoi oggetti come termini fissi, stelle fisse del cosmo, a capo dei processi che determinerebbero e al sicuro da qualsiasi intervento e modo d’azione. La prospettiva, decisamente cupa, su cui si chiudono le analisi del volume, rivendica la devozione a entità astratte, a epoche storiche erette a forme che dominano le trasformazioni sociali e sono indifferenti a esse. La posizione dell’individuo immerso nella storia finisce così soltanto per oscillare fra malinconia e mania di purificare il vecchio nel nuovo.

Diventa chiaro a questo punto che l’affermazione cinica di conflitto e disordine non è poi molto diversa dal fissarsi che vi sia una buona organizzazione della vita. Sostituire ai processi vitali e agli istinti immediati dei corpi le nazioni come attori internazionali, le fasi storiche, le organizzazioni del mondo non cambia il risultato. Comunque, i giochi sono fatti o si fanno altrove: in forme esterne al raggio dell’azione storica e politica, e che queste forme siano brodo primordiale o purificazione del continente nella guerra, è secondario.

Sostituire ai processi vitali e agli istinti immediati dei corpi le nazioni come attori internazionali, le fasi storiche, le organizzazioni del mondo non cambia il risultato.

È proprio sul concetto di forma che insistono le conclusioni di Cangiano: che si tratti di immaginarsi una forma che non c’è, o di abbracciare la forma ogni volta successiva, perché le forme si dissolvono nel disordine, sempre soltanto di forme si tratta. Lo strumento di analisi e risposta alla trasformazione storica è stato, in una parte della produzione culturale europea a cavallo fra Ottocento e Novecento, caratterizzato dalla fissazione formale, dal tentativo di dare una parola completa alla trasformazione e una regola a come rispondervi. E però vorrei a questo fare una riflessione, proprio a partire dall’attenzione di Cangiano per alcuni concetti chiave. Messo in questi termini, il termine di destra politica non comincia così a sgretolarsi o a diventare una questione nominale, di etichetta da apporre ai fenomeni? Non intendo dire che il volume può suggerire, implicitamente o esplicitamente, che non ha più senso distinguere fra destra e sinistra. Mi interessa piuttosto osservare: se la ricostruzione del passato può rappresentare uno strumento euristico di interpretazione del e di risposta al presente; allora, forse, più che di destra e sinistra si può parlare di modelli che prendono sul serio la forma storica e di modelli che prendono sul serio la trasformazione storica. La forma è organizzata e strutturata. La trasformazione al contrario, se ha senso parlarne, è allo stesso tempo fissità e cambiamento, ordine e antagonismo: la sua interpretazione è un sapere della tendenza, e nessuna risposta che si dà alla trasformazione è una volta per tutte.

Concludo. Al di là dello studio profondamente informato, il volume ha anche qualcosa a che vedere con la provocazione o domanda che ho tratteggiato all’inizio: se i concetti di destra e di sinistra, oltre che indicare una provenienza storica o un’identità politica, possiedono un altro significato. Proprio a partire dalle riflessioni sulla forma, si tratteggia un loro senso che evita la trappola concettuale per cui essi sono soltanto due facce della stessa medaglia, equipollenti e simmetriche. Non sono equipollenti e simmetriche le due opzioni: fissare una forma, una batteria di proprietà e identità, indifferente ai processi materiali; o indagare le contraddizioni che si esprimono in un movimento e cercare di risolverle collettivamente e praticamente in luce dei problemi che esse stesse pongono. Marx parlerebbe, credo, di movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, le cui condizioni sono proprio le contraddizioni dello stato di cose presente. Questo è un pensiero storico-politico che in luogo di un sapere della forma, assoluta o assolutamente dissolta, pone un sapere della trasformazione. Al contrario, a postulare una buona forma – il libero mercato, un dio, un tipo umano, una nazione – si finisce, ancora ed oggi come sempre, a non capire niente e a non saper rispondere per nulla, se non con lo scatafascio, alla realtà. Questa differenza è fondamentale, niente affatto simmetrica, e non fonda alcuna equivalenza.

L’operazione storiografica di Cangiano permette così di sviluppare una prospettiva sulla destra che muove al di là della ricostruzione genealogica: una prospettiva che interrompe la simmetria destra/sinistra e permette di differenziare con più accortezza due schemi di pensiero storico-politico, pur non esaurendoli. Il lavoro è in questo senso, come spero di aver suggerito, una buona mappa per orientarsi nello spazio politico.


* Giacomo Croci è dottorando in filosofia presso la Freie Universität di Berlino. Si occupa principalmente di filosofia della mente e teoria della soggettività

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