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Non so più a chi appartengo. Autodafé dell’antropologia culturale

di Andrea Sartori

catoblepaNel 1892, il medico e sociologo ungherese Max Nordau pubblicava un libro che avrebbe avuto immediatamente una grande eco in tutta Europa, Degenerazione. In piena fin de siècle, Nordau se la prendeva non solo con l’arte che considerava corrotta – a partire da quella decadente, incluso Oscar Wilde – ma dava soprattutto voce a un disagio innescato dalla turbolenza politica, sociale ed economica di quegli anni, per altro verso ricchi di speranze nel progresso e pertanto di promesse tutte da mantenere. In sintesi, scriveva Nordau, “le sensazioni dell’epoca sono straordinariamente confuse, constano di instancabilità febbrile e di scoraggiamento represso, di presentiti timori e di umorismo forzato. Il sentimento che prevale è quello d’una fine, di uno spegnimento” (Degenerazione, Bocca, 1913, p. 5). Un iper-attivismo che girava a vuoto – ma a cui i media dell’epoca davano grande risalto – faceva velo a una disillusione di fondo; i sorrisi comandati e falsi dell’ipocrisia sociale, e della sua insopportabile retorica – più tardi messa sulla graticola da Luigi Pirandello – a stento nascondevano paure profonde circa la direzione che l’Europa stava prendendo, e che in poco più di vent’anni l’avrebbe condotta sul baratro della Grande Guerra.

Se v’era una Stimmung, essa aveva a che fare con un graduale rallentamento del ritmo della vita, anzi, con un “sentimento” di “spegnimento”. Quest’ultimo contrastava la baldanza, la frenesia e lo slancio cinetico con cui da una nazione all’altra s’idolatravano i passi in avanti della scienza, dell’organizzazione sociale, riflessi tra l’altro nel sogno colonialista.

In Italia pensiamo, ad esempio, all’ottimismo della pedagogia civile di Francesco De Sanctis, e più in generale alla funzione progressiva della ripresa dell’idealismo hegeliano (Michael J. Subialka, Modernist Idealism. Ambivalent Legacies of German Philosophies in Italian Literature, Toronto University Press, 2021, pp. 33-58).

V’era insomma, nell’aria di quella fin de siècle, una sindrome da affievolimento del battito vitale, dovuta alla perdita d’una presa energica sul reale, una sindrome alla quale avrebbero reagito sia la Lebensphilosophie tedesca, sia Henri Bergson con la pubblicazione nel 1907 de L’evoluzione creatrice, e la messa in circolazione dell’idea d’élan vital.

Le analogie tra quegli anni di crisi e lo scenario attuale – globalizzato d’imperio dalla sfera economica, interconnesso come in un inaffidabile gioco di specchi dalla tecnologia, sradicato in ogni dove dal bisogno di fuga di rifugiati e migranti, governato intellettualmente da un postmodernismo scatenato – è lampante. In entrambi i casi circola una sorta di ansia della modernizzazione, nella quale il progresso si ritorce contro di sé, e scava il vuoto dove invece dovrebbe portare dei contenuti, o almeno qualche certezza in più.

Il fatto è che oggi, forse più di allora, la pressione ideologica sui corpi degli individui è divenuta esorbitante, al punto che comprendere il presente prescindendo da categorie biopolitiche è ormai impossibile. Non sorprende, dunque, che nel romanzo distopico dell’antropologo della letteratura Manfredi Bortoluzzi (Venezia, 1972), La sindrome di Botero (Robin, 2022), proprio il corpo sia il ricettacolo di tutti i danni strutturali arrecati negli ultimi decenni tanto all’umanità quanto all’ambiente. In un futuro neanche troppo lontano, i corpi de La sindrome di Botero, infatti, esplodono come nella celebre scena della mentina dei Monty Python; si gettano da palazzi sovrastanti la laguna generando terrificanti onde d’urto che erodono delle fondamenta già per conto loro traballanti; vengono divorati da cannibali civilizzati o addirittura si auto-divorano; sono rapiti e deportati allo scopo d’estrarvi l’adipe necessario a mantenere lubrificate le armi dei nuovi stermini e le navi delle imprese (neo)coloniali, per lo più mascherate da “flussi globali” (p. 157).

I corpi in gioco sono dunque deformati dal boterismo, da una sindrome di dubbia origine – biologica o socio-culturale? – che in essi fa proliferare a dismisura la quantità di grasso. L’idea di Bortoluzzi è che il danno sia stato arrecato o dalla reiterata alterazione transgenica e su scala industriale del cibo che mangiamo, o da uno “stress acculturativo” (p. 46), o dalla concomitanza d’entrambi i fattori. Lo stress acculturativo è comunque quello che interessa maggiormente l’autore della Sindrome. Più inclini a patire lo stress della sindrome, infatti, sono gli europei bianchi, i quali sono soggetti a una depressione che provano a combattere importando in vario modo mescalina dal Sud America (e qui pare proprio di sentire le invettive di Nordau contro la moda della cocaina, alle quali rispondeva dall’Italia, sullo stesso tono, il medico positivista Paolo Mantegazza). D’altra parte, Nordau è presente nella Sindrome di Botero anche in maniera più esplicita, ad esempio quando Bortoluzzi fa riferimento a quella che nel prossimo futuro sarà di nuovo classificata come “arte degenerata” (p. 99); ma anche quando, negli esperimenti di laboratorio volti a scoprire le cause biologiche, non solo culturali, della sindrome, si nota che gli alimenti transgenici hanno portato il “metabolismo” delle cavie a “rallentare”, “e le cellule adipose hanno cominciato ad aumentare in maniera esponenziale” (p. 37). Per una ragione o per un’altra – biologica o simbolica – l’umanità di questa Sindrome assomiglia a quella in via di “spegnimento” (metabolico) immortalata da Nordau, ma anche a quella depressa di oggi, foraggiata a Prozac, iper-medicalizzata, ansiosa, gonfia d’un gonfiore triste e malinconico, un’umanità sempre sul punto “de s-cioparme dosso a mi” (p. 7), per dirla con il ruvido dialetto veneziano della signora Bottacin. Quest’ultima nel romanzo è poco più d’una comparsa, che si lamenta dei tonfi nel Canal Grande degli obesi suicidi dai piani superiori del palazzo in cui abita, un po’ come i pendolari che viaggiano in metropolitana a Milano, si lamentano a gran voce e senza misericordia se qualcuno si suicida sotto un vagone della metro alle 7 di mattina, o alle 7 di sera, proprio quando bisogna andare a lavorare in ufficio, o tornare finalmente a casa (“suicidio sotto treno oggi / tra i post più letti nei fondi”, Alessandra Carnaroli, 50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti, Einaudi, 2021, p. 36).

Nell’odierno scenario globalizzato dell’esistenza di ciascuno di noi, lo stress e il rischio di sciopar portano ad esempio Attilio Marlow – specialista in diritto etnico – a esclamare “non so più a chi appartengo” (p. 13). E queste sono parole proprio del figlio d’un inglese e d’una peruviana, il quale per mestiere dovrebbe essere in grado di districare genealogie, ramificazioni, identità e differenze, nel caos indecifrabile d’un culturalismo sempre più intrecciato. Quando l’antropologo e investigatore Bronislaw Marlow, figlio di Attilio, si fa accompagnare da un improvvisato barcaiolo alla misteriosa Colonia Integridad sepolta ai margini della foresta amazzonica, anche le parole del barcaiolo risuonano dello smarrimento di chi non sa più come e dove appartenere: “Chi è straniero?” (p. 169). Se il post-colonial del secondo dopoguerra non è il punto d’arrivo d’una liberazione e d’una indipendenza agognate da secoli, ma il proseguimento con altri mezzi della più ampia storia del capitalismo, com’è possibile distinguere chi è straniero da chi è autoctono, com’è possibile insistere a definire l’identità su base culturale? Che ne è dell’identità, se nessuno è straniero, dal momento che tutti in un certo senso lo sono, o lo sono diventati? Perfino la nonna di Bronislaw, Pilpinto, nel vecchio palazzo veneziano dell’infanzia del figlio di Attilio, non è in grado di dire se siano stati gli extracomunitari dei primi decenni del XXI secolo a cacciare gli europei bianchi dal ‘loro’ continente (questa sarebbe la tesi di Michel Houellebecq in Sottomissione, 2015), o se viceversa siano stati proprio i bianchi, con il loro ritorno vendicativo e distopico alluso nella Sindrome con il progetto nazista della Colonia Integridad, a cacciare in un secondo momento gli altri. Se l’identità culturale – nell’oggi e nel domani d’una globalizzazione economica sempre più feroce e sradicante – significa disagio, sopraffazione e violenza, “non saprei proprio chi espropria chi” (p. 12), sospira Pilpinto.

Data l’intersezione sostanzialmente illimitata delle etnie sotto la pressione della globalizzazione e dell’ansia acculturativa che essa porta con sé, sembra chiedersi Bortoluzzi, l’identità – l’identità culturale – ha ancora attendibilità e capacità descrittiva? O essa è divenuta poco più d’una etichetta che nasconde a ciascuno di noi il semplice fatto d’essere umani, quodlibet ens, tutti esposti alla vulnerabilità implicita nell’essere parte – non d’una cultura o d’una nazione – ma d’una vita comune?

Intenzionale, in questo caso, è il riferimento al titolo d’un libro di Dietrich Bonhoffer del 1939 (La vita comune, appunto), un libro che non ha smesso d’esercitare attrazione su chi pensa a un orizzonte di solidarietà e fratellanza universali, capace di sbilanciarsi, per così dire, sull’altro e non sull’identico. Questo è ciò che fece proprio Bonhoeffer, protagonista della Resistenza al nazismo e autore di Resistenza e resa, pubblicato sei anni dopo la sua morte nel 1945 nel campo di Flossenbürg (uno dei tragici antecedenti storici della Integridad razziale di cui parla Bortoluzzi).

Pertanto, leggendo La sindrome di Botero, viene il dubbio che se continuiamo a incardinare la nozione d’identità su quella di cultura, anziché ritrovarci con qualcosa di nostro, vale a dire di proprio, saremo prima o poi indotti a riconoscere che siffatta identità – presuntivamente nostra – è il risultato d’un esproprio inflitto a qualcun altro. Se questo è davvero il tipo di consapevolezza a cui conduce La sindrome, l’autore del romanzo sarebbe obbligato a dire addio al proprio oggetto di studio – l’antropologia culturale – o perlomeno alla pretesa che l’antropologia culturale sia ancora adeguata a comprendere, e a navigare, la complessità della società in cui viviamo e in cui vivremo.

La sindrome di Botero non solo pare congedare, in linea con gli sviluppi più recenti dell’antropologia culturale, l’utopia secondo la quale vi sarebbe da qualche parte qualcosa d’originale da preservare. Di più, il romanzo suggerisce che v’è un nesso tra la nozione stessa d’identità e ciò che Roberto Esposito definisce “crisi auto-immunitaria” (Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, 2002). Secondo Esposito, un eccesso d’immunizzazione – ovvero di protezione – nei confronti dell’altro, come nei casi del nazionalismo, del sovranismo, sino all’estremo del nazismo, finisce per coinvolgere il soggetto che in tal modo cerca di difendersi dall’irruzione del fuori, in una crisi autodistruttiva. La Germania, con Hitler, distrusse gli ebrei e sé stessa. La logica che governa i riti patologici dei neonazisti della Sindrome è la medesima: tale logica è quella del catoblepa, il “divoratore di sé stesso” (p. 101), il leggendario quadrupede africano identificato da Plinio il Vecchio, che compare come autofago ne La tentazione di S. Antonio (1874) di Gustave Flaubert, a cui fa riferimento Mario Vargas Llosa nelle Cartas a un joven novelista (1997). Il catoblepa ritorna nel delirio di rivalsa e purezza degli abitanti di Colonia Integridad, i quali ambiscono a far ritornare in Europa i frutti puri, ovvero gli identici a sé, conservati per decenni nell’isolamento terapeutico della Colonia ai margini dell’Amazzonia. Costoro, i frutti puri, dei quali si dubita perfino l’esistenza, credono tanto nella sovranità su di sé e sugli altri, nella territorialità ripartita e discreta, nell’autarchia senza se e senza ma, da incorrere in un delirio autodistruttivo che li porta a mangiare parte dei propri corpi, l’unico alimento davvero ‘puro’, alla stregua d’assurdi auto-cannibali, che per amore della purezza muoiono di purezza.

Questo cannibalismo di sé, per quanto estremo, sembra dire Bortoluzzi, è in fondo coerente con la logica escludente e autoriferita, a lungo andare anche autocontraddittoria, dell’identità come identità culturale in un mondo in cui, in estrema sintesi, la cultura – ovvero le tradizioni, i costumi, le sorgenti profonde del sé – è tutt’al più un tratto curioso, fashionable e magari divertente, d’un disegno generale e d’una una visione del mondo essenzialmente economicisti. Tale visione del mondo è fondata sull’estrazione e sull’accumulo di risorse naturali, la più importante delle quali, nel libro di Bortoluzzi, è proprio il grasso tolto alle vittime della sindrome di Botero o ai pazienti degli interventi di liposuzione. È questo caricaturale momento estrattivo – questo autocannibalismo della Terra abitata dagli uomini – a garantire nella distopia del romanzo una perpetua accumulazione di capitale, il che nella realtà accade, ad esempio, con un minerale come il silicio, il quale non è estratto dalla Silicon Valley ma dalle miniere dell’Africa, così da garantire tra le altre cose l’entertainment sui social media.

È qui, in questa zona liminale, e di latitanza del senso, tra l’intrattenimento, l’estetizzazione di tutto quanto (Gilles Lipovetsky e Jean Serroy, L’estetizzazione del mondo, Sellerio, 2017) e l’antropologia e la cultura dell’aperitivo (poiché a nulla si può negare la profondità d’un tratto culturale), è proprio qui che si gioca il destino dell’antropologia culturale, un destino che la Sindrome coglie con impietosa ironia.

Da un lato, un Decreto Neoilluminista volto a contrastare il tribalismo che sconvolge un’Europa esposta a ingovernabili flussi migratori, abolisce nelle università le cattedre d’antropologia “come sopravvivenze di un passato barbaro e potenziali ricettacoli di idee sovversive” (p. 19). Dall’altro lato, quando quello che un tempo era lo straniero torna a bussare alle porte d’un continente che lo ha già cacciato una volta e ora se lo ritrova dosso (direbbe la Bottacin), l’antropologo della cultura ‘risorge’ sottoforma un po’ d’investigatore e un po’ di terapeuta esistenziale (proprio come il Bronislaw Marlow della Sindrome, il quale a un certo punto è incaricato di mettersi sulle tracce d’un collega misteriosamente scomparso). Ecco allora “che sui portoni dei palazzi delle strade più chic di tutta Europa, ma anche di quelle più nascoste e mal frequentate, cominciarono ad apparire targhe di bronzo che recitavano altisonanti titoli come Antropologo, Etnologo, Folklorista o Mitologo” (p. 19).

Da professione maledetta e guardata dall’alto in basso perché in odore d’un fastidioso terzomondismo, a professione cool e à la page, il passo è breve. Quel che di essa resta, comunque, è una elegante targa di bronzo, un personal brand che dà un tono estetico e gradevole a una zona urbana di recente gentrificazione.

La sindrome di Botero potrebbe essere letta come un apologo intorno alle sorti dell’antropologia culturale oltre la soglia del nuovo millennio. Oggi, e in futuro sarà sempre più così, non è più tempo della metodologia etnografica d’un Bronislaw Malinowski o d’un Franz Boas, dal momento che il contesto socio-culturale, alla base del loro relativismo antropologico, è scappato via, travolto lungo la linea di fuga della globalizzazione. In tempi più recenti, James Clifford (Scrivere le culture, 1986), sulla scia della teoria di Clifford Geertz, ha sostituito infatti il contesto con il testo, e in pieno spirito decostruzionista e post-moderno s’è concentrato non sulla cultura ma sull’antropologo, sul suo fare ricerca e sulla dimensione immaginaria e finzionale della costruzione antropologica.

Tutto ciò poteva avere un senso sino a qualche decennio fa. Oggi, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, la riconfigurazione tutt’ora in corso dei rapporti internazionali sotto il segno d’un politica subordinata a un’economia estrattiva che danneggia l’ambiente, sta mostrando due cose. In primo luogo, i contesti culturali non sono più stabili, e quand’anche esistano si spostano continuamente, cambiano, diventano rapidamente il proprio contrario. L’ibridazione culturale, in altri termini, non lascia più intatto un originario nucleo di senso, un canovaccio che funga da copione per successive e stratificate improvvisazioni acculturative. Come si legge nella Sindrome: “nel caso europeo, il rimpatrio massiccio dell’oggetto esotico aveva messo in crisi il nucleo stesso della cultura occidentale, la struttura del canovaccio, generando così una tragica commedia priva di copione, una stato di anomia patogenico” (p. 46). In secondo luogo, quest’anomia dettata dall’assenza d’un copione che funga da orientamento dei processi culturali è proiettata su scala globale, per cui dopo essere passati dallo studio dei contesti etnografici particolari allo studio dei testi e della loro retorica, ci si è ulteriormente mossi verso l’analisi del sistema-mondo globale. Un sistema che, nel lavoro di Arjun Appadurai, risulta articolato attorno a cinque flussi de-territorializzati, ma proiettati sullo screen della comunicazione massmediatica globale, il vero supporto dell’odierna cultura della percezione: flussi di persone, simboli, tecnologie, denaro e idee (Modernità in polvere, 1996).

Che senso ha, dunque, in queste condizioni, parlare ancora di identità culturali?

Pare chiederselo anche Bronislaw Marlow, che nei suoi attraversamenti oceanici quasi confida nel ritorno dal mare dei corpi annegati e sepolti dei migranti, del loro bíos. Il corpo che l’antropologo sembra avere in mente, nelle pagine conclusive del romanzo di Bortoluzzi, non è infatti quello incapsulato in un’identità culturale, né quello rappresentato in un certo modo o in un altro, a seconda del rituale – del contesto culturale – di riferimento. Qui è in gioco, invece, per dirla con le parole di Maurizio Albahari, “la dimensione materiale e corporea dell’esistenza umana”, la quale tuttavia non coincide con la mera fisiologia, poiché “in quelle vite c’è la complessità del corpo e dell’esistenza di ognuno” (Tra la guerra e il mare. Democrazia migrante e crimini di pace, manifestolibri, 2017, pp. 38-39). La “vita associata e lavorativa”, con le sue “legittime esigenze civili, legali, religiose e politiche” (p. 39), s’incarna precisamente in tale complessità del corpo e dell’esistenza, la quale è null’altro – e niente di meno – che l’inesorabile realtà e specificità del bíos che chiede salvezza e che, così facendo, convoca ciascuno alla propria responsabilità.

L’attesa escatologica, allusa da Bortoluzzi, d’una resurrectio carnis dal fondo del mare in cui s’inabissano i migranti, intima così che l’antropologia culturale si riprenda oggi nell’antropologia filosofica, e che l’identità – con tutto il suo portato di ossessioni, di destra come di sinistra – lasci spazio a un pensiero dell’umanità responsabile, d’una vita davvero comune (alla “incontrovertibile uguaglianza tra tutti gli esseri umani”, scrive Albahari, p. 41). In altre parole: che l’identità si faccia un’identità qualunque, libera dalla sovranità dell’identico a sé, e che ‘io’ sia come ‘tutti’.

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