Print Friendly, PDF & Email

gasparenevola

Lucidità e tremore di Benedetto XVI, l’Inattuale

Eredità del “Papa della scelta”, che ha detto cose che andavano dette

di Gaspare Nevola

UrbietOrbi20121Ci sono molti che si dolgono della divina provvidenza perché lasciò peccare Adamo – sciocchi! Quando Dio gli diede la ragione, gli diede la libertà di scegliere, perché ragione non è altro che scelta, se no sarebbe stato solo un automa, un Adamo come appare nei teatri delle marionette

(John Milton, Areopagitica, 1644)

1. Ratzinger, il Papa della “scelta” e le sfide dell’iper o post modernità

La storia ricorderà Benedetto XVI come il Papa della clamorosa e inedita “rinuncia” di un pontefice al magistero pietrino e come il primo “Papa emerito” (forse destinato a restare unico). Il suo dell’11 febbraio del 2013 fu un gesto epocale: “inaudito”, senza precedenti. In un sol colpo, a saperlo leggere, quel gesto ha secolarizzato in profondità la Chiesa di Roma, forse più di ogni enciclica, tanto che mezzi di comunicazione ed esperti non sono riusciti a trovare la parola per definirlo. “Dimissioni”? No, perché non esiste una figura (terrena) alla quale un Papa possa inoltrarle: il Papa risponde solo al Signore Creatore. Il modo più appropriato per definire un simile gesto rimanda alla parola “scelta”. Una scelta maturata in dialogo con Dio e con la propria coscienza: la “scelta di Benedetto”. Questa la lezione.

Con quel gesto, annunciato urbi et orbi, il mondo (cristiano e non) apprende che anche un Papa può scegliere e scegliere, nella fattispecie, di rinunciare alla sua carica istituzionale (una lezione su cui molti dovrebbero riflettere). Eppure, per quasi un decennio quell’evento è rimasto a luci spente, nella dimenticanza dell’opinione pubblica.

Negli stessi anni, in Italia e nel mondo, nei parlamenti e nei canali vecchi e nuovi della comunicazione (social inclusi), si è discusso e ci si è scontrati su molti temi “eticamente sensibili” e correlati alla questione dei “valori non negoziabili” che proprio Benedetto XVI ha sollevato, non senza coraggio, innanzi allo “spirito dei tempi”. Un’agenda in cui troviamo, ad esempio: violenza e Islam; identità cristiana dell’Europa; “unioni civili”, matrimonio e famiglia; riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali, gender e transgenderismo e le correlate possibilità di adozione di figli; “utero in affitto”, potere della tecnica e “Dio-scienza”; salute del corpo (pro-vax) e salute dell’anima (“no-vax”), dove si è anche ingaggiata una novella guerra di religione attorno all’idolatria di un vaccino contro il Covid. Senza entrare nel merito di tali spinose questioni, vale invece la pena di soffermarsi sull’eredità culturale ed etico-politica che Benedetto XVI, papa-teologo, ha lasciato, anzitutto ai laici. Un’eredità aspra e resistente, una sfida radicale. A dispetto di giudizi controversi e reazioni spesso polemiche, negative e tranchant, la sfida resta aperta sul tavolo delle società democratiche, costituzionali e secolarizzate del nostro tempo.

Tre, fittamente intrecciati, sono i principali snodi del pensiero ratzingeriano che vorrei qui sommariamente richiamare: 1) il tema dei valori o principi “non negoziabili” e della tecnoscienza; 2) il tema del rapporto tra potere, diritto e giustizia; 3) il tema del riconoscimento di pari dignità e di reciproca legittimazione tra “credenti”, “non credenti” e “variamente credenti”[1]

Un passaggio cruciale del pensiero di Benedetto XVI sottolinea che nella nostra epoca l’uomo ha acquisito un “potere di fare” inimmaginabile in passato: «L’uomo è in grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può… creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini» o dalla possibilità di godere di libertà e dignità[2]. Come riconoscere che cosa è giusto fare?

 

2. Sul “potere di fare” e sul “diritto giusto”

La convivenza civile non si basa solo sulla forza, sulla tecnica o sulla convenienza del momento. Come Papa e come teologo, Benedetto XVI ha espresso una forte preoccupazione su un problema classico e ingombrante della filosofia politica: la limitazione del potere. La limitazione di tutti i poteri: quello politico (in senso lato), ma anche quello dell’economia, della tecnoscienza, dei mass-media e dello stesso diritto positivo.

Le forme e i mezzi del potere che organizzano la nostra vita, sottolinea Benedetto, sono limitati dal diritto: a questo spetta di giustificare “ciò che si può fare” e di identificare “ciò che non si deve fare anche se si può fare”. È, questo, il problema dei limiti della libertà e del potere: dei limiti della possibilità di fare o di imporre ciò che si ha il potere (o la forza) di fare. Il diritto è chiamato a rispondere a questo problema e, oggi sempre più in tandem con la scienza, suo compito è supportare le scelte politiche nel governare secondo principi di giustizia e di benessere a vantaggio di una cittadinanza includente. Il diritto, ivi comprese le Corti costituzionali e le Corti supreme, deve però essere esso stesso “al di sopra di ogni sospetto”, deve essere un “diritto giusto”.

La cultura politica contemporanea ha proclamato la democrazia come il nostro orizzonte valoriale e istituzionale. Gli interrogativi e le risposte sul “giusto fare”, sui limiti da porre al “poter fare” dei singoli e della collettività, delle maggioranze e delle istituzioni, si collocano dentro questo orizzonte normativo. In particolare, la democrazia moderna ha “inventato” o, meglio, valorizzato il “principio di maggioranza”: per suo tramite i regimi liberaldemocratici operano scelte collettive sulla base di atti legislativi vincolanti. Ma tale principio non sempre soddisfa i requisiti di legittimità di una politica che si vuole ancorata a valori democratici e liberali. Quando la posta in gioco è la dignità delle persone, il criterio maggioritario non basta, e le democrazie contemporanee, non a caso, fanno tipicamente ricorso al “criterio costituzionale”. Quest’ultimo ha lo scopo di difendere i diritti fondamentali, ossia quei diritti “indisponibili” alla volontà del popolo, della maggioranza o del potere costituito (quale che sia). Ma a fianco del principio di maggioranza e a quello costituzionale nelle democrazie liberali, un ruolo importante è assegnato al discorso pubblico: allo spazio del dibattito civile, pluralistico e libero dove maturano e si confrontano, alla pari e senza discriminazioni o censure, giustificazioni e critiche (in ultima istanza etiche) delle nostre scelte collettive. Lo spazio del discorso pubblico è la chiave di volta della qualità di una società demos-cratica, della libertà, eguaglianza e dignità della vita delle persone che vi convivono nelle loro diversità. Se questo spazio è inquinato, corrotto, infelice o indecente, crolla tutto l’edificio della “convivenza tra diversi nella libertà”, quale che sia la narrazione democraticistica rimpolpata da diritti e benessere con cui raccontiamo luna società. Perciò, fatti tutti i distinguo che si vuole, mi è difficile, in generale, dissentire su un principio così riassumibile: «tutte le opinioni, gli errori persino, conosciuti, studiati e collazionati, sono di utilità e aiuto al conseguimento di ciò che è più vero» (o che concerne, specifico, la dignità delle persone, singole o in gruppo). La citazione è presa da John Milton, il quale sottolinea anche: «Fu dalla buccia di una mela assaggiata che la conoscenza del bene e del male, come due gemelli stretti assieme, irruppe nel mondo»[3]. E qui incontriamo la sfida ereditata dalla modernità e che la permea: quella sfida che Ratzinger raccoglie con lucidità e tremore e rilancia al nostro mondo secolarizzato della razionalità tecno-scientifica e al mondo ubriacato dal conformismo fanatico (conformfanatismo) politico.

Torniamo al diritto. Benedetto XVI ha sottolineato che nel corso della storia «gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto»[4]. Ebbene, questo riferimento mal si adatta allo Stato di diritto liberale e democratico, ed è stato messo fuori gioco dalla secolarizzazione della società e dall’iper-secolarismo delle élites. E in effetti Papa Benedetto non ripropone la religione come fondamento diretto delle leggi mondane che stabiliscono ciò che è “giusto” fare e non fare. A differenza di quanto accade con l’Islam[5], chiarisce Benedetto, il Cristianesimo rimanda alla “natura” e alla “ragione” quali fonti del diritto: il fondamento del “diritto giusto” è riconosciuto nel “diritto naturale”. Secondo quest’ultimo, è grazie alla “ragione” che diventa possibile accedere alle “leggi di natura”. È, questo, un punto centrale nel pensiero di Benedetto XVI: qui sta la grande sfida che il “suo Cristianesimo” ha lanciato alla cultura laica, all’idea di razionalità dell’Occidente moderno e alla stessa cultura cattolica.

Si tratta di una sfida sostanzialmente respinta o non compresa, ma che rimane sul tavolo. Una sfida reazionaria o una sfida rivoluzionaria? Non è facile a dirsi, al di là di molti giudizi frettolosi o impermeabili che sono stati dati in proposito. Di certo la sfida non è banale, né meramente conservatrice: reclama cambiamenti “radicali” nelle nostre prospettive sull’uomo e sulla vita pubblica e privata. Lasciarla cadere sarebbe un “peccato”. Un peccato di superbia, di presunzione, di arroganza o di pressappochismo dell’ignoranza (nel senso etimologico del temine)? Decida il lettore.

 

3. Legittimità, diritti naturali e riconoscimento reciproco tra diversi

Sebbene sia ormai ridotto a dottrina obsoleta, coltivata solo dalla Chiesa, il diritto naturale, ricorda Benedetto XVI, nasce da un legame “pre-cristiano” tra diritto romano e filosofia stoica (nel corso del II secolo avanti Cristo), al quale si è in seguito abbracciato il Cristianesimo. Su queste basi si sono sviluppati la cultura giuridica occidentale, l’Illuminismo, le dichiarazioni sui diritti dell’uomo, le costituzioni moderne del secondo dopoguerra, il riconoscimento dei “diritti umani” come inviolabili e inalienabili (con tanto di affacciarsi sulla scena internazionale di tribunali con pretese giudiziarie e normative sovranazionali). A tale diritto naturale anche il Cristianesimo ha dato un significativo contributo, in particolare in età medioevale. Questa tradizione, nota Ratzinger, chiarisce che alla radice di un diritto valido perché giusto, e non solo perché vigente, ci sono dei «valori che sussistono in se stessi, che conseguono dall’essenza dell’uomo e perciò sono intangibili»[6]. Questi valori derivano dalla natura e dalla ragione dell’uomo in quanto uomo, e non solo o tanto in quanto cittadino (riconosciuto da un ordinamento costituzionale). Nell’ancorare il “diritto giusto”, e quindi la legittimità del potere politico (e derivativamente da ogni potere), al punto di incontro tra natura e ragione, e non già alla “rivelazione”, Ratzinger si fa alfiere di una religione (il Cristianesimo) essa stessa ispiratrice della “razionalità” che si è eretta a principio della modernità. Tuttavia, la “razionalità”[7] rivendicata da Ratzinger/Benedetto XVI si rifà a una concezione della ragione non irretita o irrigidita nella razionalità positivistica e centrata esclusivamente sull’osservazione e misurazione empirica dei fenomeni sotto esame[8].

A questo punto, però, Benedetto XVI rileva che “natura e ragione”, a loro volta, presuppongono la “Ragione creatrice di Dio”. In altre parole, la fede è chiamata a sorreggere la ragione e a illuminare la natura: ciò in vista di una identificazione, fondazione e riappropriazione dei “valori ultimi” e dei diritti fondamentali dell’uomo, là dove tali valori e diritti si incarnano in quel “diritto giusto” che conferisce legittimità alle scelte politiche e alla vita democratica. E qui ci imbattiamo nel fatto che l’uomo di fede, il “credente”, entra in tensione con il “non credente” (come convenzionalmente intesi), con l’uomo non ispirato da fede religiosa. Tipicamente, infatti, la cultura laica rifiuta una tale fondazione divina e trascendente della legittimità delle scelte politiche in democrazia e, non a caso, il diritto positivo prende (come ha di fatto preso) il sopravvento sul diritto naturale.

A questa altezza sorge il problema del rapporto tra credenti, non-credenti e variamente credenti nella sfera pubblica e nell’agone democratico, come pure la questione dell’accettazione o meno della religione[9] nello spazio pubblico e normativo della democrazia. Riguardo a questo problema troviamo posizioni differenti, tanto nel contesto della cultura politica cristiano-cattolica quanto in quello della cultura politica laica, per tacere della cultura politica islamica. Incontriamo così “l’argomento groziano” dell’etsi Deus non daretur (come se Dio non ci fosse), ripreso nel Novecento da Bonhoeffer e oggi diffuso nella cultura politica laica, ma (più o meno esplicitamente) anche in quella dei cristiani così detti “maturi” o “adulti” (per dirla con il linguaggio bonhoefferiano). Osserviamo anche, però, che a questo argomento si affianca o si contrappone “l’argomento pascaliano” del veluti si Deus daretur (come se Dio ci fosse). Quest’ultima linea argomentativa è quella che di tanto in tanto è stata proposta dallo stesso Ratzinger-Benedetto XVI, ma che ha anche incontrato aperture presso figure prominenti della cultura politica laica e progressista, come ad esempio Habermas[10]. Ritengo che ci siano “buone ragioni” affinché la stessa cultura politica laica prenda sul serio la prospettiva del veluti si Deus daretur. Questa prospettiva, infatti, aiuta a meglio focalizzare le condizioni di legittimità di una democrazia laica, secolarizzata, pluralistica e matura, consentendo di dare il dovuto risalto alla reciprocità del riconoscimento tra credenti, non-credenti e variamente credenti e alla loro pari e piena cittadinanza in uno Stato di diritto costituzionale e liberaldemocratico.

Dentro la cornice normativa e politico-culturale di una cittadinanza del “riconoscimento reciproco tra diversi”, a mutare di accento è lo stesso invito rivolto al “credente”: a questi non si chiede tanto di agire nella sfera pubblica e politica secondo l’etsi Deus non daretur, bensì, più moderatamente, di muoversi nella direzione di questa rinuncia alla trascendenza divina. Questa rimodulazione dell’impegno identitario, di coscienza e pubblico, del credente si accompagna ad un invito rivolto al “non-credente”: a questi non si chiede tanto di “fare proprio” il veluti si Deus daretur, quanto piuttosto di prenderlo sul serio. L’“impegno di reciprocità” nel caso del non-credente consiste in una “riappropriazione culturale” (direbbe Habermas) di tradizioni e visioni del mondo ancora capaci di conferire un “significato” al processo di definizione e fondazione di valori e diritti fondamentali.

Siamo così arrivati alla concezione della democrazia come spazio del “reciproco riconoscimento tra diversi” e tra valori contrastanti. Ossia, a una concezione più esigente e matura, ma anche più difficile, della laicità della democrazia e dello Stato liberale costituzionale. L’ipotesi su cui si regge la prospettiva ora indicata è quella di un recupero, in chiave critica e “laica”, del diritto naturale. Tale ipotesi è mossa dall’idea di fare della cultura del diritto naturale un “terreno di incontro” tra credenti, non-credenti e variamente credenti. Considero questo “terreno d’incontro” collocato, per così dire, “al di qua” della soglia di ogni fede (convenzionalmente religiosa o laica che sia), quella soglia che assumo possa tenere distinti, sul piano identitario, credenti, non-credenti o variamente credenti, “secolaristi” e “tradizionalisti”, aderenti a visioni scientifiche “positiviste” o “costruttiviste”, a una o l’altra visione del mondo, corrente di pensiero, ideologia.

Un “terreno di incontro” così concepito, a mio modo di vedere, rappresenta un quadro politico-culturale, valoriale e identitario ove diventa possibile ricercare e trovare un qualche “fondamento” (ovvero “buone ragioni”) per la legittimità dei regimi che si professano democratici, liberali e pluralisti ma allo stesso tempo anche ancorati a valori e a diritti umani “indisponibili”. Valori e diritti, cioè, “non disponibili” neppure al potere del popolo, al suo moderno principio di maggioranza democratica o al “principe” di turno che, di volta in volta, incarna e interpreta il potere democratico (anche quando indossa le vesti della competenza tecno-scientifica o quelle del giudice togato).

 

4. Da destra e da sinistra. Convergenze e divergenze sul diritto naturale

Nel suo discorso al Reichstag, Benedetto XVI rileva come nella politica democratica non risulti più evidente (ormai da tempo) quali siano le decisioni “giuste” da prendere, e quindi quali contenuti debbano caratterizzare il “diritto vigente”. In questo contesto acquista rilievo il fatto che nel pensiero di Benedetto XVI-Ratzinger il riferimento a Dio non è il presupposto “diretto” che fonda un diritto qualificato dal senso di giustizia, bensì ne è un presupposto “indiretto”. È in questa accezione che la cornice dottrinaria del “diritto giusto” viene identificata nel diritto naturale: vale a dire nella “giustizia secondo natura e secondo ragione”. Il diritto naturale come inteso da Ratzinger/Benedetto XVI, tuttavia, a sua volta, deriva da Dio i suoi stessi assunti sulla natura e sulla ragione umane: è attraverso questa genealogia-“scandalo”-della-modernità che il diritto naturale arriva a definire i contenuti normativi del diritto mondano e secolare, e cioè quei contenuti che fungono da strumento della politica democratica mondana. Su questo punto, ancora una volta, credenti, non-credenti e variamente credenti entrano in tensione: la fede fa differenza (ogni fede). Ma ciò non significa necessariamente che tale differenza comporti di discriminare tra credenti, non-credenti e variamente credenti (ossia tra fedi) quanto alla loro cittadinanza democratica.

A partire dal secondo dopoguerra, il diritto naturale ha subito un profondo declassamento.  Benedetto XVI definisce questo spostamento del fondamento di legittimità della politica un «drammatico cambiamento». Questo cambiamento – osserva Benedetto XVI – si riflette nella coscienza pubblica e nella cultura politica, dove ormai prevale una visione “positivistica”:  un’idea positivistica della ragione ridotta a razionalità del calcolo e a razionalità dell’“osservabile”; un’idea della natura ricondotta a nessi di causa ed effetto tra elementi “oggettivi”, “osservabili”; un’idea del diritto positivo inteso come prodotto di libera, relativistica e volontaristica determinazione degli ordinamenti normativi da parte di volontà politiche dotate di potere o forza per realizzarli; un’idea della politica che traduce la democrazia in prestazioni delle istituzioni la cui legittimità è identificata attraverso la logica utilitaristica del mercato e del calcolo dei costi e benefici, con i cittadini ridotti a consumatori di beni pubblici spesso privatizzati, le istituzioni erogatrici di tali beni e gli uni e le altre esposti a corruzione, e immersi in quella compravendita dello status di cittadinanza che è la “materia nera” della democrazia.

La motivazione per una riapertura della discussione pubblica sul diritto naturale sta nella diagnosi di un insidioso impoverimento e indebolimento delle basi di legittimità dello Stato di diritto liberale e democratico quando esso tende a (o pretende di) escludere che la dimensione etica sia una sua pietra angolare: un fenomeno acuitosi negli ultimi decenni. L’argomento può essere riassunto con la nota formula del filosofo del diritto Ernst-Wolfgang Böckenförde, e ripresa dallo stesso Ratzinger, secondo la quale lo Stato secolarizzato vive di presupposti che esso non è in grado di produrre, e che nel corso del tempo si sono sempre più erosi[11].

Come è noto, il decadimento del diritto naturale si è consumato lungo il XVIII secolo. Ma fino all’inizio del XIX secolo, come ricorda lo stesso Kelsen (gran maestro del positivismo giuridico), la scienza del diritto era scienza del diritto naturale, e «la questione della giustizia era considerata dalla scienza giuridica come il suo problema fondamentale»[12]. Poi, per fortuna direbbe Kelsen, si afferma la “razionalità formale” del diritto positivo”. A partire dai primi decenni del XX secolo, la teoria del diritto naturale risulta già del tutto superata. Con le parole di Franz Neumann, politologo di orientamento laico e socialdemocratico: «Il positivismo giuridico con la sua tesi che la legge non è altro che la volontà del sovrano aveva liquidato tutti i tentativi di fondare la legislazione su norme di carattere universale» (ovvero sul diritto naturale)[13]. Data questa situazione già un secolo fa, quale senso può avere riaprire oggi la discussione sul diritto naturale come istanza viva contenuta nel lascito intellettuale di Benedetto XVI?

A mio avviso, a grandi linee, e mutatis mutandis, ha lo stesso senso che ebbe negli anni ’40 dello scorso secolo, di fronte agli abusi politici e normativi perpetrati da diversi regimi politici europei, e giustificati in nome di un orientamento normativo centrato sulla legalità giuspositivistica. All’epoca persino il giuspositivista Kelsen è spinto a formulare una profonda revisione teorica dell’impianto normativo del positivismo giuridico che fungeva da base dottrinaria della legittimità costituzionale-formale dei regimi politici, compresi i nuovi regimi (rivoluzionari) che andavano affermandosi in Europa[14]: entra così in scena l’idea kelseniana di “norma fondamentale”. Attraverso il riferimento a questa sorta di meta-norma giuridica, Kelsen apre l’edificio giuridico della dottrina del diritto positivo – se non propriamente al diritto naturale almeno a istanze di controllo dell’arbitrio normativo che stanno al centro del giusnaturalismo.

Ma rilanciare oggi rilanciare, con senso critico, una cultura del diritto naturale ha, soprattutto, lo stesso senso che, sempre negli anni ’40, ispirò la teoria politica di Franz Neumann sul tema qui in discussione. L’obiettivo perseguito da Neumann era – niente di meno che – quello di recuperare il “contenuto di verità” presente nelle varie dottrine del diritto naturale, al di là dei loro limiti, evitando di cadere nel dogmatismo o nel pragmatismo, nel positivismo, nel relativismo o nel nichilismo (normativi), e reagendo ad essi. Secondo Neumann, il «contenuto di verità» di ogni dottrina o teoria politica «in ogni singolo momento storico dipende dalla sua capacità di incarnare concretamente la libertà e la dignità, e di garantire il più completo sviluppo delle potenzialità umane»[15]. Si tratta di una visione che incrocia il pensiero del “politologo” Benedetto XVI[16]. Più specificamente, questa visione del diritto naturale individua nella natura umana, nella natura del diritto e nella questione della validità e giustificabilità del diritto, la base e gli strumenti per un “governo giusto” e della sua legittimità normativa ed etico-politica. Nelle parole di Neumann, la teoria del diritto naturale è interessata a cercare di rispondere ai «problemi attinenti al carattere del diritto, alla sua validità, al rapporto fra lo Stato, il diritto e la morale» (e la democrazia, esplicitiamo noi)[17]. Già questo modo di concepire il significato normativo del diritto è sufficiente motivo, a mio avviso, per contrapporre le ragioni del giusnaturalismo a quelle del giuspositivismo.

L’idea-base del diritto naturale, secondo Neumann, «porta al riconoscimento della essenziale uguaglianza degli esseri umani e di qui si giunge necessariamente al principio della universalità del diritto naturale»[18]. Siamo in prossimità di quel riconoscimento della centralità o sacralità della persona che qualifica concezioni filosofiche, politiche e sociologiche pure di differente ispirazione da quella laica di Neumann, e che stanno alla base, ad esempio, di concezioni cristiane o classicamente religiose. Neumann sviluppa così il suo argomento cruciale: «Da ciò consegue anche che nessuna teoria del diritto naturale può accettare i fatti della realtà supinamente», e ciò a differenza di quanto possa accadere dentro la cornice di una cultura del diritto positivo; come corollario a questa tesi, Neumann sottolinea che «le teorie del diritto naturale sono in contrasto con il tradizionalismo e con lo storicismo, ritenendo suscettibili di un esame critico ragionato qualsiasi istituzione umana senza alcuna eccezione»[19].

Infine, Neumann qualifica lo statuto normativo del diritto naturale definendo questo non solo come una pura dottrina morale, ma anche come dottrina che indirizza operativamente il diritto vigente, svolgendo «la funzione costituzionale di limitare, restringere e guidare le attività dello Stato, in armonia con i diritti originari alla vita, alla libertà e alla proprietà»[20].

L’argomento di Neumann (politologo laico, socialdemocratico e con significative sensibilità liberali) offre, quindi, una sua risposta alla nostra domanda sulla ri-proponibilità di un discorso pubblico teso a recuperare il diritto naturale nell’ambito di una cultura democratica e secolarizzata. In primo luogo, egli chiarisce che la dottrina del diritto naturale postula «l’esistenza di un sistema di norme indipendenti dal potere sovrano” – e con questo viene “bocciato” il diritto positivo in salsa democratica. Ma, in secondo luogo, egli aggiunge che un tale sistema di norme è indipendente «persino dalle decisioni di Dio»[21] – e con questo viene “bocciato” il “diritto divino”. L’argomento del “politologo” cattolico Ratzinger-Benedetto XVI, forse sorprendendo qualcuno, converge invero con questa conclusione. Ad esempio quando ricorda come sia lo stesso Nuovo Testamento a sottolineare che «La politica non è la sfera della teologia, ma dell’ethos»[22]. E tuttavia Ratzinger-Benedetto XVI non può non aggiungere che l’ethos non si fonda da sé, nemmeno quello coltivato dall’Illuminismo: è «la fede cristiana (che) sveglia la coscienza e fonda l’ethos», poiché la ragione ha bisogno di rivelazione per poter agire come ragione[23]. Nel “Papa della scelta”, la fede in Dio e nella sua trascendenza torna qui a fare la differenza. Nel caso è la fede religiosa in senso convenzionale. Ma fino a che punto altre fedi che vi si oppongono, fedi convenzionalmente non religiose ma laiche, sono in fondo tanto “mondanamente immanenti” da essere inconfrontabili con le tipiche fedi religiose? Questa è la domanda nietzscheana che forse Nietzsche stesso scorse in fondo ai suoi pensieri o alla sua anima

 

5. Per concludere

Nella scienza politica di Neumann troviamo tesi e argomenti un po’ smarriti dalla scienza politica corrente: un ripensamento della “natura”, della “ragione” e del “diritto” secondo un’ottica non positivistica; la necessità di fondamenti morali per nutrire la legittimità di una democrazia[24]; un riconoscimento di “contenuto di verità” al diritto naturale; la piena valorizzazione della dimensione del “dover essere” a fronte di quella dell’”essere”. Si tratta di argomenti e tesi che, in buona misura, incontrano quelli del “teorico della politica” Ratzinger-Benedetto XVI.

Alla fine, non si tratta tanto di condividere o meno le risposte del “Papa inattuale”, quanto piuttosto di raccogliere le domande a cui egli ha dato voce. Ma per lo spirito del tempo che oggi detta legge nella cultura dominante a essere inattuali forse sono le stesse domande e preoccupazioni espresse dal “Papa della scelta”.

Concludo il mio “dialogo virtuale” intorno all’eredità che Benedetto XVI lascia alla nostra cultura politica, ponendo un’altra variante della domanda “radicale” e “scandalosa”: ma la democrazia ha bisogno di Dio o no? Verrebbe da rispondere con un “non so”, o con un più presuntuoso “so di non sapere”. Ma verrebbe anche da aggiungere: pure nel caso in cui non avesse bisogno di Dio, la democrazia avrebbe comunque bisogno di “un qualcosa” capace di difendere e agevolare il rispetto degli uomini, delle loro vite e delle comunità di convivenza tra diversi nella libertà. E con esso anche il rispetto della legittimità della lotta contro la sudditanza imposta o amministrata da chiunque goda del potere di imporla o di amministrarla. Insomma, riesumando ancora Nietzsche, ma questa volta in coppia con Woody Allen: Dio sarà pure morto, ma nemmeno noi stiamo tanto bene.


NOTE
[1] Ho trattato di questi argomenti in un lungo saggio accademico: G. Nevola, Sulla laicità della democrazia nella società post-secolare. Fondamenti di legittimità e Benedetto XVI “teorico della politica”, in “Sociologia del Diritto”, 1, 2018, al quale rimando per approfondimenti.
[2] Benedetto XVI, Discorso al Parlamento Federale Tedesco, Reichstag di Berlino, 22 settembre 2011, ora in M. Cartabia, A. Simoncini (a cura di), La legge di Re Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI, Milano, Rizzoli, 2013, p. 245.
[3]Le due citazioni sono tratte da J. Milton, Areopagitica. Discorso per la libertà di stampa, Bompiani, Milano, 2022, pp. 26-27 e 28 (ed. or. 1644).
[4] Benedetto XVI, Discorso al Parlamento Federale Tedesco, cit. pp. 246-47.
[5] Sul punto si veda il famoso discorso del 2006 all’Università di Regensburg (Ratisbona), fonte di molte polemiche: Benedetto XVI, Fede, ragione e università, Aula Magna dell’Università di Regensburg, 12 settembre 2006, reperibile qui: https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2006/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20060912_university-regensburg.html.
[6] J. Ratzinger, Ciò che tiene unito il mondo, in J. Ratzinger, J. Habermas, Etica, religione e Stato liberale, Morcelliana, Brescia, 2005, pp. 44.45 (ed. or. 2004).
[7] Nella lingua madre di Ratzinger: Vernunft, prima ancora che Rationalität.
[8] Come non pensare al righello misuratore richiamato dall’ingegnere Robert Musil, autore de L’uomo senza qualità.
[9] Lo stesso vale, a suo modo, per le concezioni del mondo dette non scientifiche dalla scienza istituzionalizzata.
[10] Vedi, ad esempio, J. Habermas, I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale, in J. Ratzinger, J. Habermas, Etica, religione e Stato liberale, cit.
[11] Vedi E.-W. Böckenförde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, Morcelliana, Brescia, 2006.
[12] H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, 1994, Etas, Milano, p. 398 (ed. or. 1945).
[13] F. Neumann, Le tre forme del diritto naturale, in Id., Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, Bologna, il Mulino, 1984, p. 151 (ed. or. 1940). Non inganni in riferimento alla “volontà del sovrano”. Esso richiama la tesi di Carl Schmitt secondo cui “sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”, ma nella teoria politico-giuridica di Schmitt la “sovranità” non riflette “normativamente” (alla Kelsen) la pregnanza del diritto positivo, quanto piuttosto “decisionisticamente” la pregnanza comunitaria del diritto naturale. Per quanto sia ardita e affascinante e a tratta lucidissima nello spiegare la realtà della politica, qui la teoria schmittiana rischia di risultare aporetica, e non solo “disturbante” per la cultura dominante della nostra epoca.
[14] Quei regimi rivoluzionari che avevano travolto la Russia zarista prima e poi una seria di regimi oligarchico-liberali nel cuore dell’Europa (a partire dall’Italia e dalla Germania).
[15] F. Neumann, Le tre forme del diritto naturale, cit., p. 155.
[16] Per approfondimenti sul punto vedi G. Nevola, Sulla laicità della democrazia nella società post-secolare, cit.
[17] F. Neumann, Le tre forme del diritto naturale, cit., p. 155.
[18] F. Neumann, Le tre forme del diritto naturale, cit., p. 165.
[19] Idem.
[20] F. Neumann, Le tre forme del diritto naturale, cit., p. 159.
[21] F. Neumann, Le tre forme del diritto naturale, cit., p. 158.
[22] . Ratzinger, Orientamento cristiano nella democrazia pluralistica?, in Id., Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI), p. 202 (ed. or. 1984).
[23] Idem.
[24] Oggi, invece, tende a prevalere una concezione della “legittimità basata sull’output”. Questa ritrae il cittadino come consumatore di beni politici (e non come suo “produttore”) e declina il tema della legittimità dei regimi democratici in termini “paternalistici” o di soddisfazione dei cittadini nei confronti dei beni prodotti dalle istituzioni politiche e nei confronti della loro distribuzione. Sul concetto di legittimità democratica basata sull’output e sui suoi limiti cfr. F. W. Scharpf, The Problem Solving Capacity of Multi-Level Governance, Firenze, Istituto Universitario Europeo, 1997; per una critica più radicale: B. Barber, Con$umed, New York, Norton, 2007.

Comments

Search Reset
0
Alfred
Wednesday, 11 January 2023 19:48
Avrei preferito che se andasse in silenzio e senza troppi commenti a sinistra.
Ho sempre provato per lui antipatia 'a pelle' forse piu che per il polacco che in diverse forme e' stato piu scaltro, retrogado e interventista di lui.
Non posso che condividere le osservazioni e conclusioni di questo articolo, per me l'analisi del soggetto si conclude li.
Sia umanamente che politicamente.
https://www.sinistrainrete.info/politica/24664-alessandro-visalli-poche-note-sulla-morte-di-joseph-ratzinger.html
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Max
Wednesday, 11 January 2023 15:27
E basta co' 'sto Papa!
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
AlsOb
Monday, 09 January 2023 12:56
Scritto molto utile per l’esposizione equilibrata e il contenuto ricco di spunti e didascalico.
Il fatto curioso e ironico è che Ratzinger è stato fondamentalmente un onesto reazionario e pregiudiziale anticomunista. Tuttavia davanti ai fanatici zeloti del neoliberalismo fascista, del capitalismo finanziario e dello scientismo, spesso di provenienza dalla sinistra, appare un ragionevole progressista.
Con insistenza e senza pause ha ininterrottamente sollevato la questione del fondamento della morale e giustizia per uno stato, negando ostinatamente che la religione della scienza possa dare un contributo definitivo, nonostante la ragione categoriale positivista abbia trionfato e guadagnato robusta fiducia, per gli incontestabili e notevoli successi raggiunti in ambito tecnico.
Tutto ciò varrebbe specie per gli stati e il sistema neoliberale occidentale, che, dopo avere portato a compimento il capitalismo con la completa autonomizzazione del valore di scambio, mostrano, sulla base della fede nella ragione positivista e un equivoco primato del concetto di coscienza, di radicalizzare il processo di secolarizzazione, affievolire il legame con le radici cristiane e distanziarsi definitivamente da Dio.
Sotto un certo punto di vista sembra parzialmente rievocare Pasolini, per il giudizio complessivamente preoccupato e negativo sulla evoluzione politica del mondo contemporaneo e il passaggio al relativismo culturale e morale, ma con la sensibile differenza che, mentre Pasolini non ammette la possibilità di parlare di effettiva democrazia e giustizia nel sistema economico capitalistico basato sullo sfruttamento di classe, Ratzinger non fa specifici riferimenti al capitalismo né pretende un suo superamento. Ciò che vuole è ridefinire più solidamente i concetti di morale e giustizia, riaffermare i gradi di indipendenza della Chiesa, non relegabile a una sorta di agenzia sociologica subalterna e riposizionarla al centro del palco, in termini spirituali, non di potere temporale, come insegnante e fornitrice allo stato, che da sé è incapace di fondarli, i criteri di verità e morale.
Il teorema politico di Ratzinger è abbastanza semplice e logicamente cogente: la ragione del soggetto che si apre alla trascendenza partecipa del divino e acquisisce la grazia della fede; e sono proprio questa ragione e fede mediati dalla Chiesa a fornire allo stato i fondamenti di verità e morale e di qui i criteri di giustizia. Lo stato che non perseguisse responsabilmente tale base morale o che si limitasse a strumentalizzarla, si ridurrebbe al dominio di una associazione di ladroni e predatori.
I cristiani svolgono una vita di passaggio nel mondo, dal momento che si aprono alla trascendenza e riconoscono la ragione di provenienza divina, acquisiscono la fede, che in quanto base morale costituisce l'argine contro il male e perversioni presenti nel mondo. Da portatori di speranza guardano alla città di Dio in cui si compirà la promessa, e godono degli effetti che la speranza produce nella vita mondana.
Mentre il capitalismo, in quanto ordinamento politico, economico e sociale mondano non rappresenta per lui a priori un problema, più sanguigno è nel porre l’equazione nazismo uguale a comunismo e nel deplorare gli stati totalitari, per l’aspirazione a voler opprimere e controllare in modo integrale l’uomo.
Se si comparano la teologia di Marx e quella di Ratzinger esse stanno agli antipodi, la prima segnata da un irriducibile, eccessivo ottimismo cristologico e soteriologico, la seconda discutibilmente prudente, rinunciataria, imbevuta di pessimismo conservatore cristiano.
Per Ratzinger, privo di brillantezza e degli strumenti intellettuali per capire il capitalismo, oltre alcuni aspetti sociologici e morali, pur apprezzabili, per non parlare di un disincanto e acume alla Weber, l’orizzonte del dominio e sfruttamento borghese appare un fato irrevocabile nella città terrena. Ma come scrive l’autore del post Ratzinger, al di la delle differenze e delle critiche sollevabili, merita rispetto per la genuinità della fede, l’onestà intellettuale, per non avere ceduto alle lusinghe dei sicofanti del neoliberalismo fascista, per non avere esitato a dire con lucidità cose che “andavano dette” in una triste epoca in cui la sinistra è stata promotrice del neoliberalismo e della mistificazione.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit