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Racconti di piombo

di Davide Carrozza

#1

anni di piombo2Quella mattina di Giugno del ‘76 Marcella aprì discretamente la porticina del mio scompartimento. Un dolce quasi impercettibile “permesso” confermò che quella donna bellissima avrebbe viaggiato con me. Subito per istinto nascosi tutti i ritagli di giornale nella cartellina non badando al loro ordine. Mentre dicevo “lasci non si preoccupi” avevo già preso la sua mastodontica valigia e con uno sforzo sovraumano l’avevo issata sul porta bagagli. Parlammo. Era di Pisa, stava tornando li per andare a votare. Io invece stavo andando a Genova ad unirmi al comando brigatista che di lì a pochi giorni avrebbe freddato il giudice Coco. Ovviamente non glielo dissi.

In quel periodo avevo paura di chiunque incontrassi, cercavo di carpire in ogni volto segnali di pericolo per la mia incolumità da buon clandestino, ma quella donna non mi fece paura, forse me ne stavo già innamorando. Finalmente mi trovavo a parlare con agio con un membro della società civile, anzi una vera e propria borghese in carne e ossa, e che borghese! Che lo fosse lo avevo capito dagli occhiali e dalla camicia di raso con fantasia di rombi, nonostante i jeans sportivi a vita altissima. “Noi abbiamo sempre votato lo scudo crociato e ci siamo sempre trovati bene” Stranamente non provai ribrezzo a queste parole, ma un’incredibile curiosità, la stessa curiosità che mi faceva volerle strappare di dosso quella camicia. Anni dopo, sulle mura del carcere di Poggio Reale vedevo il mio fantasma, quello che sarei stato. Come sarebbe stata la mia vita se invece di combattente comunista fossi diventato impiegato d’azienda borghese, marito di Marcella?

Che ne sarebbe stato di me se invece di inseguire la chimera della rivoluzione avessi incanalato tutto il mio fervore nell’amore per Marcella, per i nostri figli, per la nostra mansarda, per le nostre macchine. Arrivò la libertà ma il mio fantasma non mi abbandonò, era riflesso negli occhi delle donne che anche vagamente somigliavano a Marcella.

 

#2

Non avevo ancora compiuto 33 anni quando mio malgrado capii che dovevo passare alla clandestinità. Mia madre era rimasta il mio unico legame con la mia vecchia identità, morta lei non avevo più motivo di rimanere me stesso. Avevo continuato a fare il guerrigliero e combattente rivoluzionario mentre lei era convinta fossi un semplice operaio. Non potevo permettermi che scoprisse che ero un terrorista, ci sarebbe rimasta secca. L’organizzazione insisteva perché passassi alla clandestinità. E’ la regola dicevano, è troppo rischioso, è un suicidio, è pericoloso per te e per tutti noi. Io inventavo scuse diverse ogni giorno perché sapevo che se fossi diventato clandestino non avrei più potuto vederla, non avrei più potuto prendermi cura di lei. Come sta la tua fede? Mi disse pochi giorni prima di morire. Non seppi rispondere, ma la sua domanda continuava a ronzarmi in testa e ad infastidirmi come una zanzara. Ecco cos’era la fede per me dopo la morte di mia madre, una zanzara. Ne sentivo il ronzio fastidioso nell’orecchio, quando poi accendevo la luce per ammazzarla con una ciabatta lei non c’era più, per poi infastidirmi di nuovo a luci spente. Il giorno del funerale di mia madre fu il mio ultimo con il mio nome, prima della clandestinità. Dovevo esserci però, nonostante il pericolo che comportava una mia uscita in pubblico. Più che altro perché diversamente nessuno avrebbe organizzato quel funerale. Sapevo che quello sarebbe stato l’ultimo giorno che avrei visto mio zio. Gli parlai, lo abbracciai, gli stetti sempre vicino. Una vicinanza che agli altri sarà sembrata insolita ma che associarono al trauma di aver perso mia madre. Fu ovvio per lui confondere le mie lacrime da lutto; non poteva capire. Ero triste anche perché non lo avrei più visto. Mi disse che avrei potuto trasferirmi da lui o comunque considerare la sua casa sempre a mia disposizione, chissà pensai, forse un giorno dopo la rivoluzione, quando avremmo fatto quello che siamo chiamati a fare. Era per lui che combattevo, pensai, per gli operai sfruttati come lui, costretti con i loro sacrifici a tenere in piedi il sistema capitalista che arricchisce solo i soliti baroni. Costretti a lavorare come schiavi nei frastuoni assordanti della fabbrica, sotto torchio e sotto minaccia dai capi reparto che cronometravano le loro prestazioni, accalcati nei treni pendolari, in piedi con il vassoio in mano in mensa per mangiare l’immangiabile. E’ a loro che penso quando sparo o gambizzo qualcuno, durante gli espropri proletari o quando brucio una macchina. Lo faccio per lui. Anzi, è come se lo facesse lui al posto mio, io sono il suo braccio armato.

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Mentre lo abbraccio mi risuona in testa la sua voce, quella voce che mi chiamò quando da bambino caddi in quel burrone e lui venne a prendermi, quando al mare mi faceva salire sulle sue spalle mentre mio cugino saliva su quelle di mio padre e lottavamo a spingerci. La sua voce tozza e profonda mentre urlava “forza dai!” era la mia carica. Ne avevo bisogno ora come non mai che anziché mio cugino dovevo buttare giù uno stato.

Il funerale di mia madre fu la fine di un capitolo della mia vita. Nulla sarebbe stato più uguale. Il giorno dopo avrei bruciato i miei documenti davanti agli altri membri dell’organizzazione, avrei cambiato circa un paio di identità al mese. Nessuna vita sociale, nessun amico se non quelli dell’organizzazione, nessuna donna se non quelle dell’organizzazione. Avrei colpito gli obiettivi per poi vivere come una talpa nei vari covi a disposizione. Una vita da monaco della rivoluzione che si sa…non è mica un pranzo di gala come disse qualcuno.

Due giorni dopo il funerale di mia madre andammo a colpire un servo del giornalismo di regime che dalle pagine del suo giornale minava la nostra credibilità e fiaccava le menti rivoluzionarie. Ero sul sedile posteriore di una vespa mentre rallentammo senza fermarci, avevo già la pistola in mano. Quando il compagno alla guida lo chiamò per cognome, lui si voltò terrorizzato, aveva già capito tutto e forse se lo aspettava. Gli sparai due colpi alla gamba destra come previsto, provò ad alzarsi e gli sparai alla gamba sinistra. Alzò lo sguardo e i nostri occhi si incrociarono. Avrei giurato di aver visto gli occhi di mio zio.

 

#3

Volevamo attaccare il cuore dello stato…ma lo stato un cuore non l’aveva”

Nella casa di Via Gradoli come al solito si dormiva poco e male. Avevamo parlato fino all’alba e quando tutti andarono a letto sfiniti nonostante gli innumerevoli caffè, mi ritrovai a dover dormire in cucina. Con il mio solito materassino di fortuna adattato per le occasioni, dovetti dormire con i vestiti del giorno prima addosso, usando il mio cappotto come coperta. La mattina dopo sentivamo ancora l’imbarazzo della conversazione del giorno prima, mentre facevamo colazione: forse anche per questo parlammo poco. Sentii dentro la voglia di andare via al più presto senza aggiungere altro . Aspettai il turno per la doccia.

aldo moro brAltri compagni che non erano rimasti a dormire, quel giorno entravano d’improvviso in cucina dalla porta appositamente lasciata semiaperta. Nel frattempo, altri facevano la doccia e uscivano in accappatoio o con solo un asciugamano intorno alla vita, per poi recarsi nelle stanze, vestirsi e ritornare di nuovo in bagno per fonare i capelli o per pettinarsi. Tutto ciò, unito alla nuvola di fumo per le incalcolabili sigarette, mi dava un senso di fastidiosa promiscuità, imbarazzo misto a nausea. Eppure, mi era capitato altre volte di vivere una simile confusione sia in quello che in altri covi.

All’improvviso mi ritrovai per strada, in pieno giorno, con il traffico fastidioso e assordante. Mi sentivo come catapultato in un’altra dimensione. La narrazione brigatista che avevo in testa si scontrava con la normalità schietta dei clacson che suonavano, del vociare della gente che camminava in fretta come a voler raggiungere un qualche posto. Volli andare verso casa di mia madre, ma decisi di scendere a Termini anziché a Repubblica per passeggiare un po’ e pensare. Cos’era e dove si trovava questo maledetto SIM, chi aveva pensato a questa sigla, chi controllava questo dominio globale delle multinazionali, come faceva la borghesia imperialista a guidare le scelte dei governinon ci capivo più niente. Ma in che pasticcio ideologico c’eravamo cacciati. Quando scrivevo io i comunicati poi mi sembrava tutto più chiaro, rivoluzione e controrivoluzione…tutto molto più semplice. Lo capivo io che sono un proletario, lo capivano tutti i proletari quindi.

Ma poi perché proprio Aldo Moro? Perché i compagni non capivano che sarebbe stato l’errore politico più grave che avessimo mai potuto commettere? La nostra organizzazione si era sempre distinta dalle altre della sinistra extra parlamentare per lo spessore politico! O almeno cosi pensavamo. Nessuno scriveva i comunicati come noi, nessuno aveva la nostra proprietà di linguaggio tecnico. Nessun gruppo armato poteva dirsi meglio organizzato di noi. Noi avevamo le colonne, i fronti della contro, i comitati esecutivi…eravamo noi la rivoluzione, eravamo noi il braccio armato di tutti quelli che affollano le piazze, dei figli dei capitalisti che odiano i genitori, degli operai stanchi di essere soggiogati dal padrone. Allora perché sbagliare cosi?

I compagni speravano di far passare l’idea che il vero obiettivo fosse la Democrazia Cristiana e che Aldo Moro era solo un simbolo, un rappresentante per tutti gli altri. A chi la volevano raccontare. Un osservatore leggermente più attento lo avrebbe capito subito che Moro era solo un ripiego, un sequestro più fattibile. Ma dico io…. se uno vuole colpire la DC rapisce Andreotti, rapisce Fanfani, non Aldo Moro che lavorava da anni ad un governo con i comunisti! Che errore dio mio! Come lo spieghi a tutti quei compagni che da anni votano PC e ci sostengono in silenzio?

Quando ci saranno i processi (perché ci saranno) si verrà a sapere che Andreotti e Fanfani non erano “rapibili” allora faremo la più grande figura di merda mai vista, più grande della figura di essere beccati tutti. Perché saremo tutti beccati, non c’è dubbio. Magari non verremo beccati tutti insieme…e dovremo arrampicarci su mille specchi per coprirci a vicenda. Questo non è il sequestro Sossi e non è nemmeno il sequestro Costa, non è roba da quarta pagina, questo è un sequestro di cui si parlerà in tutto il mondo. E se ne parlerà ogni giorno finché non sarà finito. Anzi, se ne parlerà per anni anche dopo.

Annientare la scorta, ma siamo matti, chi ha partorito questa idea, ma come si può dico io! Perché mettere cosi a dura prova le persone che ci appoggiano in silenzio. Dopo tutto questo sangue inutile, possiamo mai pensare di continuare ad avere l’appoggio degli operai, degli studenti? Non può essere. Siamo sull’orlo del baratro. Se davvero nei prossimi giorni verrà rapito Aldo Moro e annientata la scorta la nostra organizzazione sarà destinata a fallire. Non solo! Sarà ricordata sempre per questo episodio. Io avrò buttato vent’anni della mia vita e la rivoluzione sarà stata solo un’illusione. Nessuno parlerà più di quando con piccole azioni di guerriglia venivano adeguati i contratti degli operai in fabbrica. Il nostro nome sarà indissolubilmente legato a quello di Aldo Moro, comunque vada a finire questa storia.

Mentre scendevo dalla Metro guardavo le facce rilassate e al contempo serie dei passeggeri che si affrettavano verso l’uscita di Piazza dei Cinquecento. Pensai a quanto sarebbero cambiate, quanto si sarebbero storpiate quando di lì a qualche giorno avrebbero sentito dell’agguato per rapire Moro e di tutti quei morti ammazzati. Pensai a quanto saremmo cambiati nell’immaginario collettivo. Non più giustificati dalla lotta di classe e dalla rivoluzione, ma spietati carnefici. Non più i rivoluzionari con il fucile in spalla, ma i vili attentatori dello stato. Lo stato e il popolo si alleeranno contro di noi e saremo accerchiati. Moriremo politicamente e spiritualmente.

Con tutti questi pensieri apocalittici mi ricordai di aver preso solo un caffè e di non aver mangiato nulla. Era già tarda mattinata e decisi di fermarmi in quel chioschetto di Via Einaudi dove andai tempo prima con Matteo. Non avevo ancora voglia di vedere mia madre. Non ero ancora pronto a mettermi di nuovo nei panni dell’altro me, non la vedevo da una settimana tanto era stata impegnativo il periodo. L’ avevo chiamata dalla cabina vicino al covo circa due giorni prima. Non era affatto la tipa da essere in pena. Oltre a non sospettare minimamente della mia reale attività, era convinta che il mio profilo di addetto controllo qualità mi portasse in giro per le fabbriche d’Italia. Tutte fandonie ovviamente. Tuttavia, fu proprio in quel Marzo del ‘78 che cominciai a confondere le mie identità quella di brigatista che operava quotidianamente, e quella di operaio appositamente costruita per mia madre. Sarebbe banale dire che non sapevo più chi fossi, piuttosto direi che non capivo più quale delle due identità era prevalente e come interagivano l’una con l’altra. La verità è che tutta questa storia di Aldo Moro mi aveva messo in una situazione faticosissima. L’errore che i compagni si apprestavano a fare era non solo un tradimento, ma un qualcosa che mi avrebbe fatto ricredere in poco tempo su tutta la mia linea, se non addirittura su tutta la mia vita adulta. Avevo 40 anni circa. Avevo dedicato la mia vita alla lotta armata da quandone avevo 32. Prima di allora pensavo solo a come risolvere i problemi della gente, finché la lotta armata non si presentò come la soluzione. I morti quindi non sarebbero stati solo 5, ma 5 e mezzo. Se non addirittura 6.

 

#4

I compagni evasi ci raccontarono della condizione delle carceri. Negli “speciali” si arrivava anche fino 20 ore di isolamento al giorno, celle rettangolari di 4 metri per 3 scarsi che ospitavano quattro detenuti. Solo 2 ore d’aria al giorno in un cortile di 12 metri per 5 chiuso da tutti i lati e coperto in alto da una rete metallica. Nessuna assistenza medica. Anche solo per dei comuni antinfiammatori bisognava compilare la “domandina”, quella che serviva per qualsiasi richiesta, anche per avere un libro…l’ok era sempre ovviamente a discrezione della direzione. Le perquisizioni al momento dell’incarcerazione avvenivano in stanze affollate da guardie, con gli oggetti personali rovesciati per terra, a volte calpestati e sporcati. I compagni denudati e ispezionati analmente senza pudore. Insulti, percosse, botte che continuavano fino alla cella. Era questa l’accoglienza dello stato alla rieducazione, era questo “il senso di umanità della pena” dell’articolo 27. Presto i detenuti venivano resi edotti delle regole: stare sull’attenti quando la guardia apre la porta o lo spioncino, salutare le guardie con la formula “buongiorno signor superiore”. Lo spioncino si apriva migliaia di volte. La conta passava alle 8 alle 16 e alle 21 occasione di violenza fisica per ogni pretesto, i detenuti vivevano con l’ansia della conta successiva, in un vortice d’ansia infinito. Bisognava andare dalla cella al cortile con le mani dietro la schiena e di corsa. Anche quella era occasione per pugni calci e schiaffi. I compagni evasi avevano ancora i segni delle percosse sul corpo. Non ci capacitavamo. Se quella era la pena, se quello era il modo in cui lo stato si vendicava, quando sarebbe finita questa guerra? Quando avremmo smesso di combattere? Quando sarebbe finito il vortice d’odio. Anziché riabilitarsi i compagni in cella si incattivivano, formando comitati di lotta, brigate di campo (con la k), collettivi dei prigionieri comunisti.

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Qualcosa bisognava fare. Grazie ai militanti irregolari impiegati al Ministero di Grazia e Giustizia individuammo un obiettivo: l’ispettore centrale Dottor V.T., funzionario della direzione delle carceri. Era lui che aveva il compito di far funzionare ed ispezionare le carceri applicando le direttive del Ministero. Era lui il tramite fra i direttori delle “speciali” e il Ministero, era lui che anche in qualità di ispettore distrettuale di Toscana-Umbria e Sardegna si recava costantemente a visitare le carceri di Alghero, dell’Asinara, di Nuoro, e altre speciali. In quanto tale quindi concludemmo che il nostro obiettivo era uno dei principali responsabili del trattamento disumano subito dai nostri militanti “prigionieri” e da tutti i detenuti. Aprimmo l’inchiesta, cominciammo i pedinamenti e in un paio di giorni venimmo a capo di tutto. Sapevamo dove abitava e che tragitto faceva per andare al ministero tutte le mattine, dove si fermava a comprare il giornale, a prendere il caffè e quanto tempo in media rimaneva nel bar. Dovevamo solo scegliere il momento per colpire. Si aprì quindi una discussione molto accesa all’interno della nostra colonna: ferire o uccidere? Per alcuni le violenze subite dai compagni dovevano essere pagate con la morte; il sacrificio di quel funzionario dello stato doveva servire come monito per tutti gli altri affinché la situazione cambiasse. Io non ero d’accordo; non avremmo fatto altro che inasprire la violenza. Pensai e dissi in varie occasioni che sarebbe stato molto più efficace ferirlo, non cosi gravemente da provocargli la morte ma abbastanza da dargli il tempo di degenza ospedaliera per riflettere. Quando sarebbe rientrato in servizio, memore del bruciore delle pallottole, forse avrebbe posto rimedio. Uccidendolo invece non gli avremmo mai dato modo di riparare. Molti cominciavano ad interessarsi della questione delle carceri in quel periodo, giornalisti del calibro di Casalegno sulla Stampa, i Radicali di Pannella e dietro a loro più o meno tutti i partiti. Noi eravamo un’organizzazione politica e la nostra azione, se pur armata, doveva avere un senso politico, nessuno di noi doveva mai dimenticarlo. Passò la mia linea e un pò beffardamente fui scelto io per mettere a segno l’azione. Mia la linea politica e mia la mano che avrebbe sparato.

La mattina dell’agguato mi alzai molto presto. Andai in cucina e con calma cominciai a preparare il caffè. Mi ricordai di quel discorso del compagno Alberto, appassionato di psicologia. Le “azioni minime”. Quando fai qualcosa fai in modo che la tua mente sia completamente immersa in quello che fai, anche nella cosa più banale, anche in quella apparentemente più insignificante, rimani immerso in quell’azione. Che sia preparare il caffè o caricare la pistola, rimani li nel tuo presente perché quell’azione in quel momento dev’essere la cosa più importante della tua vita, nel presente dove non c’è futuro e non c’è passato. E’ questo il segreto della felicità diceva Alberto. A volte funzionava davvero. Con lentezza misi il caffè sul fuoco e mi sedetti ad aprire il giornale. In prima pagina la notizia della valanga di neve a Foppolo dove morirono 8 persone. Noi qui a batterci per la rivoluzione, a lamentarci del nostro destino consegnato ad un carcere o ad uno scontro a fuoco e nel bergamasco 8 vite spezzate durante una lieta vacanza sulla neve. Un giramento di testa, forse un po d’ansia, forse un leggero attacco di panico. Niente di grave, ne avevo sofferto in passato ma i controlli cardiologici erano andati tutti benissimo. Quella era una mattina come tutte le altre e tale doveva rimanere. Dovevo gambizzare un funzionario della stato ma quando si è in guerra cose del genere sono la routine. Quando si sceglie la rivoluzione ci sono anche giornate cosi. Con l’ansia si convive, anzi, la si usa a proprio vantaggio. Una doccia veloce, un saluto con un bacio alla compagna Elena che ancora dorme, quando si sveglierà sarò già di ritorno a cosa già fatta e potrò raccontarle tutto. Brevemente e senza fronzoli come sempre. La pistola già caricata la sera prima nella cintura dei jeans mi da un pò fastidio all’inguine, ma anche questo si può sopportare. In un quarto d’ora sono già in Via Giulia dove mi aspettano gli altri compagni. Poco prima delle 9 V.T. dovrebbe passare dal Vicolo della Moretta, abbiamo deciso di sparagli lì. Mancano ancora pochi minuti ed evitiamo di dare segni di nervosismo per possibili testimoni. Simuliamo risate totalmente inautentiche. V.T. intanto sta camminando verso di noi. Lo riconosciamo dal passo spedito, dal solito cappotto e dalla solita valigetta. La compagna Mara lo intercetta chiedendo un’informazione stradale “Mi scusi, da che parte si va per il Gianicolo”. Non gli do il tempo di aprire bocca e gli scarico tutte le pallottole sulle gambe senza mai guardarlo in faccia. In un breve fotogramma però incontro il suo sguardo prima di dileguarmi e un attimo prima che cadesse a terra. Una faccia sofferente come ovvio, ma con una vaga espressione di schifo, di ribrezzo. Era una smorfia di dolore acuto o era anche un vero ribrezzo nei miei confronti.

Di ritorno a casa mi misi a letto nonostante non fossero nemmeno le 10, non mi interessa se ha fotografato mentalmente la mia faccia e fornirà un identikit. Erano tante e tali le precauzioni da clandestino che in quel periodo davvero non potevo fare di meglio per la mia sicurezza. Non riesco a togliermi di dosso quello sguardo però! Sono passati tanti anni e oggi mai e poi mai nemmeno penserei a sparare qualcuno alle gambe, per nessuna ragione al mondo. Finalmente ho capito però fra le mie epifanie che quello sguardo in fondo in fondo era il mio.

 

#5

All’inizio di Dicembre dell’83 non vedevo per la mia vita alcuna prospettiva futura, nessuna speranza. Se prima di allora il mio discorso politico si era saputo sempre rigenerare e trovare nuove ragioni e nuove strade da percorrere, a Dicembre ‘83 avevo raggiunto e toccato il fondo.

A più di 5 anni dal mio arresto, il carcere mi aveva fiaccato lo spirito, annientato l’anima e spento ogni fiamma. Lo stato che io avevo sempre combattuto e che si era innalzato a giudice con una condanna esemplare, non sembrava aver placato la sua vendetta con il fine pena mai. Fu in quel periodo che cominciai a capire che allo stato non bastava semplicemente togliermi la libertà. Voleva molto altro. Voleva la mia dignità, voleva la mia vitalità, voleva il vigore della mia mente pensante, voleva privarmi dell’efficienza.

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Fu in quel periodo che realizzai che ero stato condannato all’ergastolo con tutto ciò che ne consegue. Prima di allora lo sapevo certo, ma non lo avevo ancora interiorizzato. Per noi comunisti combattenti il carcere è un fronte di lotta come gli altri, non solo lo mettiamo in conto, ma non lo consideriamo l’ipotesi peggiore, visto che potremmo morire da un momento all’altro durante un’azione.

Ebbene quel Dicembre dell’83 però fu un momento di svolta.

Mentre pensavo al modo migliore per farla finita, durante l’ora d’aria il compagno Fabrizio mi disse: “Facciamo uno sciopero della fame” Lì per lì l’idea mi sembrò assurda, ma al rientro in cella ne parlai con i miei compagni e fummo improvvisamente riaccesi da tutta la valenza politica che a questo gesto riuscimmo a dare.

Partimmo con solo un quarto di latte zuccherato al giorno il 7 Dicembre. Improvvisamente ci sentimmo sereni. Con lo sciopero della fame tornavamo in possesso del nostro corpo e della nostra libertà, se fine per noi doveva esserci sarebbe stata nobilissima, saremmo morti protestando per le condizioni disumane di quel carcere, saremmo morti nella lotta che ci aveva sempre contraddistinto, senza avere sconti di pena e benefici personali per aver raccontato questo o quel fatto, ma mettendo noi e il nostro corpo a disposizione di una causa valida. Comunque sempre contro lo stato borghese, questa volta però in forma pacifica.

A pensarci anche oggi quella mi appare come l’unica scelta possibile. 22 ore di isolamento al giorno, ora d’aria in un corridoio con una grata per soffitto, divieto di ogni tipo di socializzazione compresa addirittura la messa, divieto di ricevere pacchi da casa, colloqui di poco meno di un’ora con i nostri familiari costretti a trasferte estenuanti e attese infinite, dietro ad un vetro alienante e tramite un citofono spesso malfunzionante. Qualcosa bisognava fare.

Al decimo giorno di rifiuto del cibo capimmo che la nostra fame non importava a nessuno, i vassoi pieni venivano semplicemente ripresi e reimpiegati nelle altre celle, Ad ogni modo però sii unirono a noi altri compagni e alle soglie del Natale eravamo diventati 12. Decidemmo anche di rifiutare il quarto di latte zuccherato. Strano a dirsi ma ci stavamo spegnendo serenamente, sapevamo che quella morte collettiva avrebbe avuto un’eco importantissima e ciò rendeva la nostra agonia quasi dolce.

Il 23 Dicembre, l’antivigilia di Natale, sempre il solito Fabrizio ha una grande idea. Chiediamo un colloquio con il cappellano del carcere. Si perché c’era giunta voce di un recente convegno dei cappellani presieduto dal Cardinal Martini il cui oggetto era la “dignità umana del detenuto”. Ci sembrava il momento propizio per portare qualcuno a conoscenza del nostro digiuno. Qualcuno ebbe a dire che la nostra ideologia non poteva ammettere discorsi di natura teologica ma Fabrizio rassicurò, lasciate fare a me, è solo politica.

Ci venne concesso un colloquio da Don Salvatore. Trovammo finalmente una persona, degna di questo nome. Era visibilmente scosso e genuinamente preoccupato per la nostra salute e decise così di scrivere una lunga lettera al Vescovo di Nuoro per portargli all’attenzione la nostra condizione e quella della comunità carceraria. Nella lettera Don Salvatore inoltre comunicava le sue dimissioni da cappellano del carcere con effetto immediato. Nella lettera Don Salvatore parlava di “terrorismo di stato”. Al terrorismo lo stato rispondeva con il terrorismo. La messa di natale dell’83 nel carcere di Badu ‘e Carros non ebbe luogo perché non c’era nessuno a celebrarla.

Capimmo che la situazione era più complicata di quello che potesse sembrare. Il nostro carcere era stato teatro di una rivolta nell’Ottobre dell’80, durante la quale erano avvenuti anche due omicidi; era stato applicato l’art 90 della riforma per stato emergenziale, da allora mai abrogato a prescindere dalla volontà della direzione.

Il 27 Dicembre una delegazione del Partito Radicale con in testa Marco Pannella venne a trovarci con telecamere a seguito. Il 28 Dicembre il PC rivolse un’interrogazione parlamentare al ministro Martinazzoli. Con l’inizio dell’anno nuovo il governo decise per l’abrogazione dell’articolo 90.

Venimmo a sapere della nostra vittoria mentre eravamo ricoverati per le nostre condizioni e decidemmo di porre fine allo sciopero della fame. Nel paese cominciò un lunghissimo dibattito sulle condizioni dei detenuti, dibattito che poi sfociò nella famosa Legge Gozzini. Mi sento di dire che se non fosse stato per noi questo paese non avrebbe mai conosciuto concetti quali “permesso premio”, “detenzione domiciliare”, “regime di semilibertà” e tante cose impensabili prima del Dicembre ’83

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