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Beatificazione di carta

redazione InfoAut

Avremmo voluto occuparci di ciò ben prima, innanzitutto perchè cartina di tornasole del nostro tempo, della società nella quale viviamo e lottiamo. Quante volte abbiamo incontrato nel nostro agire quotidiano il prodotto discorsivo, politico e simbolico della matrice culturale agitata dai vari Saviano, Travaglio, Grillo, Santoro e compagnia cantante? Si pensi solo a quanto ha attraversato, nella sua composizione tecnica, il movimento dell'Onda o  all'irruzione sulla scena pubblica di un fenomeno come quello del popolo viola; ma gli esempi potrebbero essere altri, molti ed eterogenei.

La pubblicazione del libro "Eroi di carta" di Alessandro Dal Lago da parte della Manifesto Libri ha scatenato un vespaio di polemiche, congetture e retoriche. Il mainstream è stato infestato nelle ultime due settimane dal gioco (alquanto unilaterale!) della difesa a spada tratta dello scrittore Roberto Saviano, del suo "Gomorra". Esemplificativo non è tanto il patrocinio del personaggio adottato da giornalisti, scrittori e intellettuali, quanto piuttosto l'inammissibilità della critica: non si è molto discorso politicamente e/o letterariamente a partire dalle questioni poste dal lavoro di Dal Lago, si è argomentato sul perchè bollarle come irricevibili, sul perchè debbano essere censurate. Emblematico è come si sia articolata la fucina della polemica, con in prima fila personalità sinistre amorevolmente (e moralmente!) sentitesi obbligate a partecipare alla rimodellazione del rifugio per Roberto Saviano, quasi e anche a sottolineare "Saviano è un eroe di sinistra!". Fa specie quindi osservare come, dentro questo match dialettico, i primi ad invocare (esplicitamente o meno) alla censura del libro "Eroi di carta" siano stati proprio gli stessi notabili che sbraitano contro la presunta dittatura berlusconiana ad ogni sbadiglio del premier...!

Sulle pagine de Il Manifesto, nell'ultima settimana, si è sviluppata una discussione più o meno campale (che riproduciamo interamente di seguito) su quanto scaturito in termini polemici a partire dalla pubblicazione del libro di Dal Lago. L'editoriale della nuova direttrice Norma Rangeri è andato a chiudere il cerchio, come espressione politica della redazione de Il Manifesto, fattuale richiamo all'ordine. Non senza difficoltà abbiamo letto tutto quanto pubblicato: già solo il titolo scelto dalla Rangeri (per mantenere una logica e ordine di giudizio) è manifestazione della povertà di argomentazioni che rasentano idolatria simbolica e inadeguatezza politica. Si sconta tutto il disastro prodotto dalla sinistra, radicale o meno che sia, sul livello della produzione di discorso, linguaggio e progetto. Si appende il santino di Roberto Saviano per aggirare questioni e problematiche ben più complesse della valutazione qualitativa di un libro. Si sceglie la scorciatoia di una rappresentazione mediale imbalsamata sotto le effigie del mito come dispositivo consolatorio e assolutorio di un oggi che (probabilmente) non si è in grado di interpretare, a fronte di una rimozione strisciante del terreno 'politico' per eccellenza (almeno per noi!): quello del conflitto sociale.

La tramutazione, il perchè ed il come, di Roberto Saviano in eroe costituisce l'origine del problema. Interrogarsi sul fenomeno Saviano, nella sua complessità e nelle sue diverse angolature, deve essere lo stimolo per affrontare politicamente questioni dirimenti che non possono essere velocemente liquidate con la sua santificazione, se non si vuole avere l'ipocrisia di adagiarsi e accontentare della costruzione mediale implementata dal potere, quindi della sua scrittura e narrazione. Si corre perpetuatamente il rischio di farsi ridurre o di costituire non altro che una tifoseria plaudente, espropriata di politicità... di urgenza di critica e trasformazione. La miseria del giustizialismo e del populismo moralista, del democraticismo e della legalità di forma, è la raffigurazione del fallimento e dell'illusione che informa soprattutto quei segmenti di coloro che si pensano (e credono) opposizione a Berlusconi.

Che il fenomeno Saviano non sia ascrivibile solamente alle macerie partorite dalla sinistra è fuori di dubbio, recuperando laicamente e riformulando all'occasione una citazione del presidente Mao Zedong: non solo i reazionari sono tigri di carta...

Cogliendo la provocazione della Rangeri, non crediamo affatto che la battaglia contro le mafie sia una trappola borghese, tutt'altro. Prendendo atto della definizione del Santomassimo su "Gomorra" come il libro più importante della storia d'Italia degli ultimi vent'anni, ridiamo e al contempo ci dispiaciamo della sua libreria. La questione politica da porci resta il come ed in che forme direzionare il conflitto, fuori dalle compatibilità di comodo e dall'appagamento (...) di esser diventati semplicemente e solamente spettatori di un recital orchestrato dall'alto.

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Segue quanto pubblicato sulle pagine de Il Manifesto durante l'ultima settimana (commenti di Norma Rangeri, Bruno Accarino e Gianpasquale Santomassimo), l'articolo di Marco Bascetta e i link di altri articoli già on line sull'argomento, a firma di Alessandro Dal Lago e Daniele Sepe.

 

Saviano bene comune

di Norma Rangeri, 6 giugno

Che succede? Siete impazziti? Non avete nulla proprio di meglio da fare che criticare Saviano? E tu inauguri così la tua direzione al manifesto? I nostri lettori sono increduli, arrabbiati, disorientati perché leggono come un ingiustificato attacco le pagine che un nostro collaboratore, Alessandro Dal Lago, rivolge a Roberto Saviano nel libro Eroi di carta, edito dalla manifesto libri, la nostra piccola (e autonoma) casa editrice. Li capisco, per un motivo molto semplice: ho stima di Saviano e credo che la sua battaglia sia anche la mia. Dal Lago svolge una critica molto aspra (nel merito e nel tono) su Gomorra, sul fenomeno Saviano e sulla sinistra ridotta a claque di una illusoria bandiera politica. Non discuto dell'analisi letteraria del professore. Se Gomorra abbia i crismi della grande letteratura o sia un romanzo cronachistico non mi pare fondamentale. È un buon libro e che lo abbiano letto in moltissimi è positivo, specialmente per un paese pigro e analfabeta come il nostro. Mi interessa invece discutere la critica politica che Dal Lago porta a Saviano, e che in parte fa discendere da quella letteraria quando mette in dubbio (navigando in un labirinto di minuzie) l'attendibilità dei fatti raccontati in Gomorra. Mi ha molto colpito, per esempio, che già nelle prime pagine dell'introduzione l'autore citi Nichi Vendola stigmatizzandone il linguaggio «da pulpito e da confessionale» per accostarlo in qualche modo alla retorica di Saviano. Lo scrittore sarebbe preda di una visione «ossessiva» della camorra come Male Assoluto, un mostro, un dragone da combattere con la spada lucente dell'eroe. Un'ossessione che funzionerebbe come un'arma di distrazione di massa perché la criminalità non si combatte a colpi di moda, perché non ci sono solo i camorristi, perché il capitalismo esiste anche senza la camorra, perché non si muore solo ammazzati dai killer di Casal di Principe ma anche negli altoforni, perché, perché, perché... La critica letteraria cede rapidamente il passo a una discussione politica viziata, a mio parere, da un concentrato di ideologia. Effettivamente a volte Vendola parla come un pastore di anime o un poeta, ma questo non appanna la freschezza e l'efficacia del suo lavoro di politico e di amministratore pubblico. Né Saviano vede nella camorra il male assoluto (è una delle critiche di base e più insistenti che gli rivolge Dal Lago). Semplicemente ne ha fatto esperienza e ne racconta, con discorsi e ragionamenti per nulla sommari e moralistici. Ogni volta che l'ho ascoltato ha sempre spiegato i nessi tra economia legale e illegale (Saviano è di formazione marxista e, vorrei ricordarlo, dal 2004 al 2006 ha lavorato per il manifesto scrivendo molti articoli, in pratica già delineando il nucleo di Gomorra). Il suo grande merito è stato proprio aver tolto la camorra dal folklore e averne fatto conoscere al grande pubblico i legami con il potere legale, nazionale e internazionale, del turbocapitalismo. Saviano è stato tra i primi a scavare negli affari di quel Nicola Cosentino poi salito alle cronache nazional berlusconiane, ad aver distrutto l'aurea di rispetto verso il più forte e il più furbo, specialmente uno dei pochi capace di parlare ai ragazzi. Apertamente, pubblicamente, coraggiosamente (il prezzo che sta pagando lo dimostra) persino nella nostra asfittica televisione. Che infatti lo tollera ma non lo sopporta e ora prova a dimezzare il suo ciclo di incontri autunnali con Fabio Fazio. Fermiamoci per un momento al piccolo schermo. Ricordo ancora la serata su Raitre. Per due ore Saviano fece una lezione sul ruolo giocato dalla stampa locale a sostegno della camorra. Analizzò titoli, nomignoli, slang, impaginazione: il linguaggio del consenso popolare alla mafia. Regalando un inedito squarcio sull'antropologia criminale alimentata dall'informazione regionale. E l'altra, alcuni mesi dopo, altrettanto eccentrica per il nostro piccolo schermo, dedicata agli scrittori della libertà, pericolosi sovversivi, morti o sopravvissuti alla ferocia del sistema politico. Anche allora ci fu chi prese la matita rossoblu per precisare sulla conformità di questo o quel passaggio, commettendo l'errore di abbassare gli occhi sul dito anziché sollevare lo sguardo verso la luna. Non sarà per caso questo fissare il proprio ombelico uno dei tic più perniciosi della sinistra? Dal Lago sostiene che le cose scritte da Saviano già erano conosciute, che dunque non avrebbe scoperto nulla di nuovo. Ma conosciute da chi? Quanti sapevano della dimensione internazionale dell'impero di Sandokan? Prima che Napoli si coprisse di rifiuti, prima di vedere certe scene del film Gomorra, quanti avevano capito che i nostri pomodorini o le nostre mele affondano le radici nei rifiuti tossici delle industrie del nord? Nel lungo j'accuse si infilano poi i rivoluzionari doc (ma di quale secolo?), pronti a contestargli di non aver detto cosa pensa su palestinesi, guerre e quant'altro. Ma come? Prima lo si accusa di mettersi su un piedistallo e sproloquiare su cose che non sa, poi si pretende di vestirlo da tuttologo? Prima il "martire" deve tacere poi invece deve sentenziare sul mondo? Dice Dal Lago che in sostanza noi gli crediamo solo perché lui è un martire e noi ci sentiamo tutti colpevoli di non esserlo. Dunque gli crediamo a prescindere, cedendo alla categoria dell'eroismo da sempre terreno di coltura della destra. Probabilmente è scattato anche questo meccanismo. E sono d'accordo con Dal Lago anche quando osserva che spostare il conflitto politico in una dimensione solo morale finisce per assecondare una tendenza moralistica e consolatoria (si potrebbe anche aggiungere giustizialista). Ma appuntare questa deriva sul petto di Saviano è un'operazione impropria. Vogliamo caricare tutto sulle spalle di questo ragazzo? Vogliamo farne una metafora degli errori della sinistra? Consiglio di ascoltarlo con più attenzione, invece, e potremo sentirlo ripetere di non voler essere un eroe («io non voglio essere un eroe, perché gli eroi sono morti e io sono vivo. Io voglio vivere e voglio sbagliare»), e di temere la diffamazione, che ha visto all'opera contro don Diana («ne ho paura ma me l'aspetto»). Saviano si è conquistato una credibilità per quello che ha scritto e per ciò che ha fatto. Credo che gli italiani e l'opinione pubblica di sinistra siano più intelligenti di quel che si crede (l'altra sera la seriosa puntata di Annozero sulla crisi economica, con Tremonti, Bersani, la protesta dei ricercatori, e niente risse, ha fatto il boom di ascolti). Oggi in Italia c'è una platea, che altrimenti ne sarebbe rimasta esclusa, capace di conoscere i volti, i modi, le leggi di una mafia globale. Perché uno scrittore ha raccontato di controllo del territorio, lavoro nero, nord e sud. Una moda? Un'illusione? Un surrogato dell'autentica lotta di classe, un'icona annacquata, bipartisan e un po' berlusconianiana? Ogni volta che nella sinistra nasce una speranza legata a una persona capace di interpretare e di rappresentare qualcosa di più di se stesso, scatta una voglia matta, un vizietto masochista, di buttarlo giù. Ma chi è che fa l'esame del sangue ai movimenti buoni e a quelli cattivi, dov'è il nuovo laboratorio, dove sono i medici con la ricetta salvasinistra? Se essere ascoltati, avere successo, essere amati, avere a cuore il riscatto dei deboli, essere il testimone di storie come quella di don Diana, fare una battaglia per la legalità contro le mafie (nel paese di Falcone e Borsellino) sono trappole borghesi, modi sbagliati di fare politica, mi piacerebbe che in Italia fossimo sempre di più a sbagliare così.

L'imprevisto del coraggio individuale

di Bruno Accarino, 5 giugno

Ho espresso consenso così tante volte, e in modi così imbarazzanti, alle opinioni e alle analisi di Marco Bascetta e di Alessandro Dal Lago da ritenermi autorizzato a proporre, questa volta, una linea di ragionamento diversa da quella di Bascetta (il manifesto, 30/5). Nell'articolo si difende il diritto di Dal Lago a intervenire con pacatezza e lucidità smitizzanti sul fenomeno Gomorra e si disegnano alcuni paletti, contro l'ebbrezza consolatoria e a tutela dell'intelligenza critica e non conformista. Il mito, e quello di Saviano non fa eccezione, è refrattario ad ogni razionalità discorsiva. Verissimo, e Marco fa bene a ricordarlo: appena ti siedi pensoso e cerchi di smontarlo argomentativamente, il mito si è già liquefatto, la sua sostanza narrativa si è squagliata, il suo messaggio educativo, che già è un di più che lo spinge nei paraggi della dissoluzione, è andato in pezzi. Ma allora occorre chiedersi quante e quali sono le cose ancora sottoposte a razionalità discorsiva e se davvero esistono altre sedi in cui si possa sfuggire a quanto di infido e di opaco viene veicolato dal mito. Il quale annebbia: è il suo mestiere. Ma anche la teodicea, caro Marco, non scherza. Sono moltissimi, più di quanti crediamo, quelli disposti a concedere che il mondo è una schifezza, ma sono pochi quelli che resistono alla tentazione di aggiungere: anche la merda appartiene al creato, se il padreterno avesse voluto creare il mondo senza merda, avrebbe fatto gli esseri viventi senza il culo. Così, in questo finalismo ingenuo e popolare, a volte trainato da una sensibilità confusamente religiosa e malinconicamente assolutoria, si consumano e si spengono tante energie di lotta e di protesta. Questo grumo di giustificazionismo, di arrendevolezza, di rassegnazione e talvolta di nonchalance presuntamente elegante, è un'aria nella quale siamo immersi: non è nemmeno una costruzione, una menzogna o una cospirazione, è una disposizione d'animo, il che è peggio. Commettiamo l'errore di monitorare il berlusconismo andando a caccia di episodi pacchiani di cortigianeria e di portaborsismo - a me accadde di richiamare il prototipo, quello di Baldassarre Castiglione. Ma si vorrà concedere che lo spettacolo penoso offerto dai manutengoli del potere, con appendici psicopatologiche di identificazione con il capo, è stato spiazzante e ha presentato un volto inedito anche ai meno giovani e ai più scafati di noi. Ad ogni buon conto, abbandoniamo pure questa pista sdrucciolevole e improduttiva. Santi, martiri, eroi? Per carità, questi sono sempre supplenti, protesi malriuscite, forme di surrogazione di quello che non c'è, al massimo versioni di sinistra del celodurismo. E quello che manca è una razionalità politica che non costringa a riesumare la virtù corrusca e guerresca del coraggio, che non renda straordinariamente onerosa l'espressione del dissenso e l'attestarsi, anche il più sobrio possibile, su posizioni di intransigenza democratica. Oggi si tende a credere che da un lato esista una massa di galoppini inviluppati in trame di malaffare, dall'altro uno sparuto drappello di impavidi resistenti. E soprattutto che la zona intermedia sia una terra di nessuno, non presidiata e non presidiabile perché incolore, informe, muta nel significato e nelle emozioni. Sappiamo che non è così, ma è inquietante il fatto stesso che questa immagine distorta abbia potuto trovare cittadinanza. Agli amici increduli e sconcertati di fronte alle pagine di Gomorra o alle scene del film omonimo mi tolgo lo sfizio di dire: sono un docente universitario, che cosa volete che mi faccia ancora impressione in fatto di criminalità, di complicità e di acquiescenza? Quando si tratta di assuefazione, esistono ancora scuole di eccellenza. Vogliamo invece parlare di redazioni giornalistiche appiattite su uno stile censorio e autocensorio, di situazioni lavorative attraversate dal ricatto e dalla sopraffazione, di piccole e grandi violenze perpetrate nell'amministrazione pubblica, e della caduta verticale della solidarietà, se non di classe, almeno di corporazione e di colleganza che accompagna tutte queste vicende? Ci è cascato addosso, disseminato tra i molti guai che dobbiamo fronteggiare, un nodo tanto imprevisto quanto elementare: quello del coraggio individuale. Imprevisto perché l'Europa, dopo appena un sessantennio senza scannatoi di guerra (al suo interno, per altri territori il discorso è diverso), ci ha detto inorgoglita: potete rilassarvi e abbassare la guardia. Ecco perché la figura di Saviano si gonfia in modo abnorme, i latini direbbero che si è inflazionata. La spettacolarizzazione mediatica lamentata da Marco Bascetta è l'altra faccia di una comunicazione politica che ha inasprito quei meccanismi sottili, notissimi epperò inscalfibili, di scoraggiamento, di dissuasione, di excommunicatio. È un'impresa titanica parlare, non mettere a repentaglio la propria vita: rompere la crosta delle tante cose linguisticamente e dialogicamente tabuizzate. Il più modesto rischio, quello che dobbiamo quotidianamente gestire a tutti i livelli, assume allora le fattezze di un pericolo incombente, si ingigantisce a minaccia cupa e prossima, ma è falso che ci sia sempre in gioco un posto di lavoro, uno stipendio, un destino professionale, una famiglia, una carriera o una biografia. I calcoli dell'utilità marginale, quando sfilano sul palcoscenico il coraggio e la viltà, andrebbero rifatti con un minimo di onestà. La vera violenza originaria, reiterabile all'infinito in tutti i i luoghi di lavoro, è la narrazione - a proposito di miti - di un'agenda, di un ordine del giorno e di una gerarchia di priorità che rendono ridicola la posizione di chi cerca di sparigliare le carte e di stilare altre graduatorie della comunicazione: è la patetica risibilità degli uomini soli, e sarebbe facile dimostrare che, anche in un rapporto a due, è una faccenda di sfera pubblica. Invertire l'ordine del giorno di chi comanda è una delle scommesse quotidiane del manifesto. Chi ce l'ha fatta, sul fronte opposto, è stato Bossi, che un lontano giorno sanzionò la fine della questione meridionale e annunciò l'avvento del protagonismo, anzi dell'unicità monopolistica, di quella settentrionale. A volte basta poco, mica ci vuole il supporto della verità.

Una polemica da fine della politica

di Gianpasquale Santomassimo, 4 giugno

Gomorra di Roberto Saviano è il libro più importante sulla storia d'Italia degli ultimi vent'anni. Non so se è scritto bene o male, non ho titoli per dirlo, e neppure mi interessa molto. Certamente è un libro efficace, non solo perché illustra nel dettaglio le trasformazioni di una società criminale specifica, descritta dall'interno, ma soprattutto perché fa comprendere le trasformazioni della società italiana in un ciclo molto lungo e ancora di là dall'esaurirsi. Quel che Saviano dice sulla camorra è in realtà metafora, probabilmente non cercata e non voluta, della parte vincente della società italiana fondata sull'individualismo acquisitivo, emersa dalla lunga crisi della socialità costituzionale, e del suo rapporto con la politica e le istituzioni. Una società che ormai non ha più bisogno della politica, che può e vuole «fare da sé», che non ha più bisogno di protezione dai politici ma anzi offre protezione ai politici, che alla politica chiede semplicemente di non intralciare il suo cammino. O, più precisamente, di produrre leggi-quadro che consentano a questa società di crescere. L'elenco di «provvidenze» in questo senso sarebbe lungo e qualificante, ma è una vicenda che è giunta ormai a una svolta decisiva: la legge sulle intercettazioni sarebbe un tassello decisivo in questo quadro. Il mitico federalismo a venire sarebbe la ciliegina su una torta ormai quasi confezionata: controllo pieno, ufficiale, non più solo «di fatto», dei più forti sui più deboli, supremazia non più contrastata e contrastabile. La fine della politica, così come è stata intesa nel lungo Novecento, è stata di fatto già realizzata in questo paese, in attesa che lunghi e troppo lenti processi di reinvenzione tentino di rimodellarla da sinistra. Non mi riesce di scorgere, qui ed ora, una «ossessione unanime per la legalità». È triste semmai che il dibattito politico debba concentrarsi su qualcosa che in ogni paese civile sarebbe considerato pre-politico, un presupposto necessario, non solo condiviso ma indiscutibile e indiscusso, della politica. Certo un paese fortunato e civile non dovrebbe avere bisogno di eroi, e la sinistra non dovrebbe avere bisogno di icone. Ma esiste ancora la sinistra? E soprattutto esiste ancora il «paese» di cui eravamo abituati a discutere?

La libertà negata di criticare Saviano

Marco Bascetta

Perché manifestolibri ha voluto pubblicare una decisa analisi critica (seria, rigorosa e diffusamente argomentata, come da più parti è stato riconosciuto) di Gomorra e di numerose, successive prese di posizione pubbliche del suo autore, Roberto Saviano? Ci sono diverse ragioni. La prima può essere messa in chiaro dal passo di un articolo che attacca furiosamente Eroi di carta, il libro di Alessandro Dal Lago edito da manifestolibri, pubblicato sul periodico della fondazione finiana Farefuturo: «Un paese che non ha bisogno di eroi è un paese che non ha esempi da seguire, che rinuncia a guardare il futuro con la speranza del cambiamento...».

Da un siffatto «futuro», carico di richiami arcaici e inquietanti modelli, volentieri ci teniamo alla larga. È la discussione democratica, il confronto tra posizioni diverse, l'esercizio dello spirito critico e non l'emulazione di santi, martiri ed eroi a fare crescere una collettività. E, forse suo malgrado, Saviano è stato risucchiato proprio in questo genere di tristi retoriche che non vorremmo veder tornare a prevalere. È vero e molto rilevante il fatto che Roberto Saviano sia minacciato, esposto, in una pesante condizione di rischio.

Questo dovrebbe spingere a proteggerlo, a cercare di assicurare rapidamente alla giustizia coloro che lo minacciano, a bandire i politici che si avvalgono dell'appoggio delle mafie. Ma non è in nessun modo un argomento che renda indiscutibili le sue «verità», inconfutabili le sue affermazioni, incontestabile la sua interpretazione del fenomeno camorra, sublime la sua scrittura.

Certamente Berlusconi e l'ineffabile Fede hanno attaccato Saviano piuttosto volgarmente (con argomenti, precisa la stampa di destra, del tutto diversi da quelli del sovversivo Dal Lago), quando l'arbitrio e le opportunità del momento hanno suggerito loro di farlo, come in passato gli avevano suggerito di apprezzare lo scrittore campano e in futuro potranno tornare a suggerirglielo. Dobbiamo allora subordinare le nostre riflessioni e i tempi della loro espressione alle mutevoli esternazioni del cavaliere e della sua corte? E, del resto, quanti danni ha fatto la logica secondo cui «il nemico del mio nemico è mio amico»? Anche Adriano Sofri non dovrebbe averlo dimenticato. Ricorderà, spero, gli «amici» assai poco presentabili scelti da certo antiamericanismo. Se dovesse essere questo, come purtroppo sembra, uno dei principi dell'antiberlusconismo odierno (da Di Pietro a Murdoch?) lo considererei una grave iattura, per non dire di peggio.

E, tuttavia, non si può negare che Saviano abbia meritevolmente attirato l'attenzione di una vasta opinione pubblica sulla criminalità organizzata in Campania. Ma si potrà pur ritenere, argomentandolo, che lo abbia fatto in forme spesso discutibili e che il mito che gli si è costruito intorno abbia indotto più a una sorta di innocua tifoseria (come dimostrano molte reazioni alle critiche di Dal Lago, emotive e del tutto ignare delle sue motivazioni) che all'impegno politico e sociale o alla comprensione di una realtà complessa e contraddittoria come quella meridionale. Come avranno letto Gomorra dalle parti della Lega? È lecito discuterne? Manifestolibri pensa di sì.

È abbastanza evidente che la questione vada ben oltre il caso di Gomorra e del suo autore. Ma, allora, ci si chiederà, perché prendersela proprio con Saviano, viste le numerose controindicazioni? Perché ciò che si è raggrumato intorno alla sua figura è l'esempio più vivido, e al tempo stesso più scomodo, di mito che si sostituisce al ragionamento, di predicazione che prende il posto dell'analisi, di moda che subentra alla convinzione, in un paese in cui tutto ciò che non avviene sotto i riflettori, o nel regno delle alte tirature, semplicemente non esiste, e tutto ciò che da questi è invece illuminato assume i tratti incontestabili della verità e dell'oggettività, di un ordine invalicabile del discorso. In un paese in cui il darsi sulla voce nei talk show è diventato la quintessenza dell'agire comunicativo e l'esercizio della critica impiegando strumenti culturali non banali, una colpevole perdita di tempo. Così, almeno, sembra pensarla Paolo Flores d'Arcais che tuttavia ha inspiegabilmente sottratto una frazione (speriamo limitata) del suo prezioso tempo per mettere all'indice (quello dei libri proibiti) su tre colonne del Fatto quotidiano un libro che non ha letto e non intende leggere.

Si possono condividere (e io personalmente le condivido), smontare o respingere le critiche che Dal Lago rivolge all'epopea di Gomorra, ma non censurarle o relegarle nella categoria, che a sinistra non dovrebbe avere cittadinanza, della bestemmia. Sono, alla fine, proprio queste reazioni, le quali rivelano una «sinistra» impregnata della retorica degli exempla virtutis, sempre più disposta a sacrificare la comprensione delle radici (legalissime e beneducate) dell'ingiustizia all'indignazione del telespettatore, alle emozioni forti del suddito in cerca di protezione (che è ben diverso dal cittadino in cerca di sicurezza), a testimoniare della necessità di confrontarsi con i temi importanti che Dal Lago pone.

Qui a Berlusconia, tra fandonie e miti, tra spettri ed epifanie del Maligno, tra risentimenti e narcisismi (non stiamo più parlando, sia chiaro, di Saviano, ma dei fustigatori di Dal Lago) è in corso da un pezzo una vera e propria guerra all'intelligenza, dove ogni ragionamento di un qualche spessore è tacciato di sabotaggio o di spregio dell'umore popolare. Un antico scrittore puritano americano diceva che quanto più sei colto, arguto, intelligente, tanto più sei pronto a lavorare per Satana (la camorra?). Attenetevi dunque alle sacre scritture, ai sentimenti «sani», all'ammirazione della Virtù. Che questo imperativo provenga dalla sinistra la dice lunga sullo stato in cui versa. Per quanto ci riguarda continueremo a cercare di comprendere il mondo che ci circonda, a pubblicare e leggere libri che ci aiutino a farlo, anche a costo di mettere in questione, magari giovandogli, qualche idolo popolare.

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Sulla polemica, vedi anche:

    * La mia risposta a Roberto Saviano da sax comunista [di Daniele Sepe]
    * Il diritto di criticare l'icona Saviano [di Alessandro Dal Lago]

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