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nazione indiana

Giù la mascherina: nuovo al cinema italiano

Giampaolo Simi

Per anni abbiamo visto in molti film italiani grandi appartamenti borghesi, graziose mansarde con affaccio mozzafiato, loft ristrutturati e impreziositi dal design con studiata nonchalance. In quegli interni si è consumato un lungo divorzio, per altro del tutto consensuale. Si è trattato del divorzio fra il tanto invocato Paese reale e coloro che si prendevano la responsabilità – o si sentivano capaci – di raccontarlo o, per meglio dire, di provare a interpretarlo. Fra una parte dell’élite culturale e la working class, per tagliarla un po’ alla grezza. Con il ceto medio preso in mezzo e diviso, come spesso succede ai figli nelle separazioni. I professori di liceo e gli impiegati da una parte, i metronotte e i piastrellisti dall’altra, nonostante un medesimo status di lavoratore dipendente e magari stipendi con il medesimo potere d’acquisto in caduta libera.
Un divorzio consumatosi parallelamente in altre forme artistiche, come la narrativa. Ma in quel caso risultava più naturale, meno vistoso e preoccupante, perché investiva un ambiente (almeno in Italia) storicamente più ristretto ed estraneo all’intrattenimento di massa.

C’è voluto del tempo perché un film italiano non indipendente indugiasse significativamente su un angolo cottura da magazzino della convenienza. O su una modesta scarpiera che ingombra un angusto disimpegno. È successo a distanza ravvicinata con “Cosa voglio di più” di Silvio Soldini e con “La nostra vita” di Daniele Luchetti.

È ugualmente significativo che entrambi i film insistano sulle possibili varianti dell’universo-casa, dai box doccia da montare ai cataloghi di mobilia economica on line, dai litorali incancreniti di cemento alle palazzine in cui il ceto medio è stato scaraventato, ben al di là delle vecchie periferie.
Non era più tollerabile che film di grande visibilità, con attori e registi importanti, rimanessero rintanati in un paesaggio culturale e materiale medio-alto. Nel momento in cui lo fanno, si coglie distintamente quanto il divorziodi cui sopra sia stato tutt’altro che una sfuriata finita male, un’incomprensione degenerata. È volato di tutto, dalle sedie al servito buono, altro che. E i cocci si vedono ancora.

Di fronte a questo genere di storie, inutile non tirare in ballo Ken Loach. Ma non è esterofilia. Loach è un catalogo vivente dei pregi e dei rischi, della potenza e dei limiti di questo tipo di storie e del cinema che le vuole raccontare.
Nei suoi film migliori, Loach indovina quella delicatissima alchimia di compartecipazione e distacco che gli permette di “starci dentro” con la pancia e di non sentenziare con la testa, di rivendicare la sua visuale panoramica di intellettuale, ma senza boria. Un approccio che somiglia molto a uno stato di grazia.
Questo stato di grazia, ne “La nostra vita” e in “Cosa voglio di più” non c’è. E forse non ci può essere. Almeno non ancora. Potremmo dire che il film di Soldini pecca per difetto, sposando una sobrietà che alla fine comprime troppo il nostro sguardo sul dolore finale dei due amanti protagonisti. Rischia così di subordinare al reddito non solo la possibilità di vivere una passione, ma anche quella di permettersi la sofferenza, di ambire alla grandezza della, seppur intima, tragedia.
Quello di Luchetti pecca in eccesso, rendendo invece plateale il dolore del muratore Claudietto per la morte della moglie. Con il rischio di far scivolare un evento scatenante dal territorio dei “motivi” a quello delle “giustificazioni” per il modo spregiudicato in cui il protagonista proverà a reagire e a farsi largo nel lavoro.

Questo meccanismo di compensazione mi sembra rivelare qualcosa che si avvicina al nocciolo del problema. Per coglierlo, dobbiamo essere onesti. La working class italiana di oggi a noi intellettuali, non ci piace. Non può piacerci. Si indebita per il superfluo ed evade le tasse per campare la famiglia, erige compulsivamente verandine, passa le domeniche nei centri commerciali a sognare Rimini. E poi, da quando l’hanno convinta che non esistono più né la destra né la sinistra, vota sempre più a destra. Prima la snobbavamo, ora la detestiamo. Ne siamo, sia chiaro, ampiamente ricambiati. Ma non è sopportabile raccontare la storia di uno che si detesta. E allora bisogna bilanciare questa avversione aggiungendo elementi narrativi che ci rendano umana una creatura altrimenti aliena: Claudietto il muratore è uno sciagurato fondamentalista dell’ideologia del fare senza pensare, sì, ma gli è morta la moglie e ha tre figli da mantenere.

Ecco, questo errore nel miglior Ken Loach non c’è. Con rigore talvolta didascalico, Loach racconta come gli ingranaggi socio-politico-economici comprimono, schiacciano gli esseri umani, fino a spremere dal personaggio ribellione, dolore, riscatto, disperazione. Questo perché Loach non detesta i propri protagonisti e non ha bisogno di giustificarli, ricompensarli o renderseli artificiosamente vicini. Non sente verso di loro alcun senso di colpa per averli trascurati, e quindi non sente di dover far loro sconti. Tantomeno ha l’atteggiamento paternalistico dell’intellettuale italiano sulle classi meno istruite così efficacemente stigmatizzato da Gramsci in Manzoni.

Nell’Italia di oggi, poi, tutto è ancora più complicato: uno come Claudietto non legge i libri che scriviamo e se ne vanta pure, rifugge orgogliosamente il teatro, affolla il cinema ormai solo per il 3D e si veste come il vincitore dell’ultimo reality. In sintesi, vive in un altro Paese e parla un’altra lingua. Potremmo scrivere libri e film di denuncia intransigenti e feroci su questi italiani, ma in Italia, oggi, i diretti interessati potrebbero stentare ad accorgersene.

Ovvio quindi che la dimensione personale, la storia di relazioni e di sentimenti sia giustamente scelta, da Luchetti come da Soldini, per tentare di ritrovare un terreno di racconto condivisibile, per tornare a parlarsi dopo tanto tempo, per ricostruire un ponte sopra questa frattura profonda.
Due storie così vanno verso la giusta direzione, regalano boccate d’ossigeno di realismo necessario, bucano finalmente la bolla asfittica di ambienti autoreferenziali, ma ancora non traggono tutte le conseguenze dalle proprie premesse. Salvano i protagonisti ben prima di aver fatto loro sperimentare l’inferno. Provano a disegnarli tridimensionalmente, ma ancora sottolineano un disappunto estetico per impiegatucce e manovali, per le tute di acetato e i locali latino-americani con le palme finte e i drink allungati.

Rivelano insomma quanto quel divorzio sia stato devastante, ancorché consensuale. Ci sbattono in faccia (in questo senso impietosamente) quanto disagio ci provochi l’Italia in cui ci si vanta di essere ignoranti e ci si vergogna di non essere ricchi. È proprio nei loro difetti questi due film hanno il grande merito di suscitare domande non più eludibili: come si racconta l’Italia che non vuole essere raccontata, ma solo guardata? Che senso può avere una prospettiva vagamente neorealista, nell’epoca in cui la tv si è autocostituita reality? Dove ritroviamo quella serenità impietosa che uno come Loach ha saputo centrare nei suoi momenti migliori? E quando saremo capaci di dannare i nostri personaggi senza condannarli, di salvarli senza assolverli?

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