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antropologiafilosofica

Dall’ecobuonismo all’ecosocialismo

di Andrea Zhok

La meridiana La siesta Van GoghI) Premessa

Recentemente, in coda alle presentazioni del Manifesto per la Sovranità Costituzionale a Milano e Roma, mi ha sorpreso notare come le note più critiche a quel documento si siano appuntate su qualcosa che non credevo controverso, ovvero il rilievo dato alla questione ecologica.

Alcuni hanno obiettato che parlare di riscaldamento globale e di come sarà il mondo tra cent’anni è qualcosa di astratto e lontano, che non tocca le tasche di nessuno; altri che attorno a tale tema interclassista non si può mobilitare alcun ceto preferenziale, alcuna ‘identità di classe’; altri ancora, che si tratterebbe di un modo con cui le élite distraggono l’opinione pubblica da temi di maggiore urgenza.

Questa reazione di diffidenza, di sospetto, a prescindere dalla sostenibilità delle specifiche obiezioni, mi pare degna di approfondimento.

 

II) Il dilemma ecobuonista

Negli ultimi anni, la tematica ecologista è stata integrata con successo all’interno di una visione liberale, che l’ha resa un tema di conversazione alto borghese, garbato quanto innocuo. Il tema infatti si presta a grandi campagne sentimentali, capaci di estrudere occasionali lacrime per le sorti di un orso polare o un panda gigante, salvo poi rientrare prontamente nella sezione ‘tonici e digestivi’: dove, insieme a qualche episodio di cronaca, conferisce quel pizzico di preoccupazione postprandiale che aiuta la digestione.

I temi ecologici, addomesticati dalla ragione liberale, sfociano così in due prospettive generali.

La prima consta di appelli all’iniziativa personale e al senso di responsabilità delle ‘persone di buona volontà’: ciascuno è chiamato a ‘fare la sua parte’, a ‘contribuire col suo granello di sabbia’. Si creano così gli spazi per ‘diete ambientalmente consapevoli’, ‘acquisti etici’, ‘consumi responsabili’, ‘prodotti biologici’, ‘raccolta differenziata’, ‘beni equi e solidali’, e una miriade di altre lodevoli iniziative in cui ci si sente cavalieri dell’ideale a colpi di tofu.

La seconda prospettiva si nutre della periodica constatazione del fallimento della prima. Quando tutta la buona volontà delle iniziative individuali si dimostra inadeguata, allora si crea il terreno per sconsolate geremiadi di tipo ‘antiumanista’. Il problema ecologico assume la forma in cui l’espressione metaforica ‘salvare il pianeta’ assume una veste realistica: dimenticando che il pianeta se la caverà benissimo comunque (diversamente da noi), il discorso assume toni in cui, pur di ‘salvare il pianeta’ anche il sacrificio di quella spregevole specie di primati parlanti che lo abitano appare come una soluzione non disprezzabile. Quest’ultima tesi, pur non avendo molta diffusione nei circuiti mediatici popolari, è intensamente intrattenuta in vari contesti ‘intellettuali’, dove, sulla scorta del cosiddetto ‘antispecismo’, si discute con assoluta serietà di come, vista l’inaccettabilità morale di porre la specie umana in una posizione di valore superiore ad altre specie viventi (sarebbe infatti, una forma di ‘razzismo’), si intrattengono pensose riflessioni sull’opportunità che l’ si estingua.

Così, rimpallandosi dilemmaticamente tra sconsolati giudizi su una specie malvagia, e appelli alla buona volontà individuale, i dibattiti sul degrado ecologico possono serenamente procedere all’infinito, senza che assolutamente nulla cambi.

 

III) Il punto cieco dell’ecobuonismo

L’appello ai piccoli gesti personali assume in questo contesto una posizione esemplare, come incarnazione compiuta della ragione liberale: il consumo, l’acquisto dei beni sul mercato sono visti come la forma principale di espressione della volontà democratica, secondo il modello della sovranità del consumatore (“un dollaro, un voto”). I clienti/consumatori globali hanno la loro occasione di ‘fare la differenza’, acquistando un bene sedicente ‘biologico’ o ‘ecosostenibile’, che certo, magari costerà un po’ di più, ma ne vale la pena se è per il bene del pianeta. Questi appelli alla parte migliore di noi operano magnificamente come valvole di sfogo per lo sdegno di fronte allo scempio ecologico: essi agiscono in forma individualizzata, decentrata, e moraleggiante, inducendo a pensare che si tratta di raggiungere la spontanea adesione, ‘dal basso’, di tutta la grande ‘famiglia umana’ a questo nobile progetto.

E se poi, malgrado tutte le campagne televisive, tutti gli appelli pubblici di teneri bimbi e tutte le mostre di eco-tecno-design su come riciclare le cialde del caffè, il mondo continua ad andare ecologicamente a catafascio, beh, non ci resta che concludere che meritiamo davvero l’estinzione.

Questa prospettiva eco-buonista si guarda sempre sistematicamente dal nominare ogni aspetto di rilevanza economica e normativa. Per quanto sia noto più o meno dall’età del Bronzo che per coordinare efficacemente masse distanti e sconnesse di persone è necessario l’utilizzo di leggi, di norme comuni pubbliche, sembra che la questione chiave sia invece la persuasione morale planetaria di ciascun individuo. Invece che ordinare ai produttori di utilizzare imballaggi in materiali riciclabili, o facilmente disassemblabili in materiali riciclabili, si lasciano proliferare gli imballaggi più vasti e variopinti, nel nome del marketing, salvo poi caldamente elogiare gli sforzi differenziatori individuali. La produzione è spinta costantemente ad aumentare, i beni a differenziarsi e ad essere sostituiti con la maggiore frequenza possibile, le merci (e i beni intermedi, e la forza lavoro) a muoversi ovunque sul pianeta, ma tutto ciò appartiene a quella dimensione sacra che nessuna persona beneducata potrebbe mettere in discussione.

Ciò di cui è permesso parlare sono gli appelli alla buona volontà, mettendo peraltro tra parentesi il carattere essenzialmente censitario di questi appelli, rivolti a chi può dedicare tempo (e denaro) all’acquisto consapevole, senza seguire volgarmente il prezzo più basso o l’acquisto più prossimo. Per ciascuna famiglia che è in condizioni di fare consapevolmente il proprio dovere ecologico, ce ne sono quattro che non sono nelle condizioni di dedicare tempo e risorse a questi problemi, ma tant’è. In ogni caso, le informazioni realmente disponibili ai consumatori, anche a quelli più agiati, colti e benintenzionati, sono scarse e facilmente manipolabili: l’asimmetria informativa tra produttore e consumatore è abissale e trasforma l’idea che il consumatore possa esprimere la propria ‘sovranità’ con l’acquisto in una triste barzelletta.

Tenuto fermo che sentirsi coinvolti nelle sorti ecologiche del pianeta è un sentimento positivo, molto meglio che fregarsene, tuttavia la sensazione che si sia di fronte a manovre per tenere occupate le coscienze più sensibili in processi innocui per il capitale è fortissima. L’appello alle coscienze individuali e ai loro sforzi particolaristici esime gli Stati dall’assumersi la responsabilità di invadenti iniziative pubbliche, soprattutto quando quelle iniziative potrebbero risultare sgradite alla creazione di ‘margine’ dei grandi produttori privati.

 

IV) In rotta di collisione

In quest’ottica l’ambientalismo liberale benpensante ha davvero funzionato egregiamente come arma di distrazione, facendo convergere le energie morali dei ceti più acculturati in una direzione politicamente innocua, che taceva accuratamente ogni legame tra ordinamento economico capitalistico e crisi ambientale.

Quest’ultimo nesso, tuttavia, resta al centro della scena, e per quanto il suo fantasma venga scongiurato con formule apotropaiche in cui ce la si prende genericamente ‘con i politici’, o ‘con i governi’, o ‘con l’ingordigia umana’, esso resta inaggirabile. Tale nesso può essere sommariamente esposto nei seguenti sei punti:

i) Il capitalismo è un sistema in cui l’investimento di capitale privato è il motore della crescita.

ii) L’investimento privato avviene se, e solo se, ha ragione di credere che alla fine di ciascun ciclo produttivo il profitto supererà significativamente quanto investito inizialmente.

iii) La crescita del profitto esige la crescita della produzione (vendibile) in rapporto all’investimento.

iv) La crescita della produzione implica la crescita di processi di trasformazione e consumo di risorse. Per quanto non ogni crescita in ogni settore implichi necessariamente un incremento significativo dei processi di trasformazione e consumo, la tendenza generale è inevitabilmente quella.

v) La spinta alla crescita incentiva la mobilitazione e mobilizzazione di merci e forza lavoro, e tale movimento di persone e merci incrementa ulteriormente tutti i processi di trasformazione e consumo delle risorse.

vi) Il sistema si fonda sulla concorrenza tra capitalisti in competizione per i margini di profitto, e tale concorrenza plurale rende il sistema essenzialmente decentrato, e privo di governo e controllo: il sistema dunque nasce per essere essenzialmente anarchico e ingovernabile.

Data questa cornice, il sistema capitalistico entra necessariamente in costante rotta di collisione con gli equilibri ambientali. Questo, va da sé, non implica che un sistema non-capitalista debba automaticamente rispettare gli equilibri ambientali; tuttavia esso è nelle condizioni per decidere di farlo.

Ora, le recenti proteste si sono concentrate sul ‘riscaldamento globale’, ma per quanto tale problema appaia realmente serio, è importante non perdere di vista il carattere sistematico del degrado ambientale in corso. Si tratta di un attacco su una pluralità di fronti, di cui solo alcuni noti, mentre molti sono oggetto di congetture e si vanno scoprendo sempre con necessario ritardo, vista la rapidità dei cambiamenti indotti dal sistema produttivo.

Accanto al riscaldamento globale abbiamo statistiche impietose sull’inquinamento di aria e acqua, sulla presenza di residui di fertilizzanti, antiparassitari, ecc. nelle falde acquifere e nell’intero ciclo alimentare, sulla diffusione di interferenti endocrini e sospetti mutageni in una miriade di prodotti, e poi ancora sulla crescita di numerose forme tumorali, allergie e intolleranze alimentari, sul crollo della fertilità in vaste aree industrializzate, sulla scomparsa accelerata di grandi blocchi di specie viventi (ed è utile ricordare che gli umani si possono nutrire solo di altre specie viventi), ecc. ecc.

Il numero di fronti di attacco è necessariamente sempre superiore a quello che siamo in grado di tenere sotto controllo, perché i problemi vengono rilevati sempre dopo il tempo necessario per la raccolta e valutazione dei dati epidemiologici, mentre le esigenze della produzione avranno già spinto avanti innumerevoli altre innovazioni produttive con le relative esternalità.

 

V) Dalla sovranità del consumatore alla sovranità del cittadino

Molto sarebbe ancora da dire, ma in definitiva, in un’ottica politica, un unico punto a me sembra cruciale. Il tema ambientale ha, politicamente parlando, i pregi dei suoi difetti. È un tema interclassista, anche se generalmente i redditi più alti sono in grado di difendersi meglio dai problemi ambientali. Questo implica che è più facile per i ceti abbienti trattare il problema in forme di garbato distacco; e tuttavia è anche vero che non è possibile per nessuno chiamarsi completamente fuori. In questo senso il tema ecologico presenta, per le forze politiche che siano in grado di farsene carico con la dovuta radicalità, un’occasione unica per condurre la critica al modello capitalista ad un livello di attualità e universalità oggi non facilmente raggiungibile per altra via.

Il punto di fondo è in definitiva elementare.

Nelle forme del degrado ecologico, la natura distruttiva ed autodistruttiva di quella ‘sovranità dell’economico’ che risponde al nome di ‘capitalismo’ diviene intuitivamente manifesta.

L’unico modo per arrestare questa degenerazione autodistruttiva è sostituire la sovranità dell’economico con una rinnovata sovranità del politico, e precisamente una sovranità popolare, democratica, giacché è l’interesse generale a dover essere tutelato.

Questo significa semplicemente e direttamente due cose:

1) che gli Stati devono essere messi nelle condizioni di dare ascolto e rispondere alle richieste della popolazione, senza che scattino ricatti economico-finanziari (deflusso dei capitali, disinvestimenti, delocalizzazioni, ecc);

2) che gli Stati devono adottare un modello sociale rivolto non alla crescita produttiva generalizzata, ma allo sviluppo; dunque un modello dove l’attenzione non è concentrata sulla creazione di margine (profitto), ma sull’impiego mirato della produzione per finalità umanamente condivise.

Il primo punto equivale alla rivendicazione di sovranità popolare incarnata in istituzioni democratiche.

Il secondo punto equivale all’adozione di una cornice di sviluppo che esce dal modello capitalista ed entra in uno socialista (compatibile con forme circoscritte di mercato).

Non mi pare una prospettiva da trattare politicamente con sufficienza.

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