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politica e classe

Note introduttive per il convegno

Associazione "Politica e classe"

Il capitale percepisce ogni limite come ostacolo e lo supera idealmente se non l’ha superato nella realtà:
dato che ognuno di questi limiti è in opposizione alla dismisura inerente al capitale, la sua produzione si muove attraverso
contraddizioni costantemente superate, ma altrettanto costantemente ricreate.

Karl Marx “Grundrisse”

scioglimento dei ghiacci blogUna premessa

Come appare ormai a tutti evidente la questione ambientale, complessivamente intesa dai problemi del clima fino al vivere quotidiano delle popolazioni, ha assunto da alcuni decenni un carattere strategico rispetto alle possibilità di sviluppo dell’umanità, mentre i sempre più accentuati ed accelerati processi di valorizzazione del capitale amplificano una situazione che sfugge di mano alle classi dirigenti che dovrebbero guidare l’attuale sistema sociale e le relazioni economiche e produttive internazionali.

E’, infatti, palese che la contraddizione che si manifesta tra crescita economica ed ambiente naturale riveste un ruolo centrale, ma un’ analisi strutturale di questa dinamica non può avere esclusivamente una lettura che si astrae da un sistema di relazioni sociali determinato storicamente e concretamente agente cercando la motivazione dell’attuale situazione in cause antropologiche per cui una generica natura umana tende ad essere “nemica” dell’ambiente ed ad esso estranea. Il rischio che corrono queste interpretazioni è quello di dare una visione parziale e, pensando di contrastare il degrado ambientale, di occultare le cause sociali del problema assolvendo dalle responsabilità chi invece ne è la causa.

Non vogliamo dare lezioni a nessuno soprattutto su una questione che si affaccia per la prima volta nella storia del genere umano in questa dimensione; sappiamo, inoltre, molto bene che se è vero che il pensiero marxista ha affrontato questa questione fin dall’inizio della sua elaborazione teorica lo ha fatto in modo parziale. Certamente non poteva alla fine dell’800 andare a fondo di una analisi della dinamica storica che ha contrapposto il capitalismo all’equilibrio ambientale del pianeta e di conseguenza ci si impone di avere ben presente i limiti di quella elaborazione.

Se questa questione è stata affrontata in modo parziale dai “padri fondatori” del movimento operaio molto più pesante è stata la responsabilità dei partiti comunisti che nel ‘900 non hanno letteralmente visto questa contraddizione; certamente ciò è stato causato dalle condizioni storiche di quel secolo, presenti però anche in questo, che mettevano in primo piano lo sviluppo di quelle forze produttive necessarie a rispondere alle esigenze materiali dei popoli coinvolti nei processi di trasformazione sociale. Ciò non di meno ha evidenziato, chiaramente ma a posteriori, un limite teorico che è stato il riflesso di una visione economicista indotta certamente dalle condizioni oggettive ma che non ha permesso di elaborare una teoria ed una conseguente strategia in grado di determinare un effettivo superamento del capitalismo.

Detto questo ed a partire da questo a noi sembra, comunque, che la cassetta degli attrezzi del marxismo, completata con nuovi strumenti, sia ancora il punto di partenza per una chiave di lettura più vera di una dinamica che parte dal cuore dell’attuale sistema sociale ovvero dal Modo di Produzione Capitalistico classicamente inteso. Non partire da questo “cuore” significa cercare di individuare i motivi della crisi ambientale nelle diverse “forme” di capitalismo storicamente determinate pensando così, conseguentemente, che possa esistere una forma che invece sia in grado di gestire l’attuale sviluppo economico in modo compatibile alla natura.

 

Lo snodo del modo di produzione capitalistico

Parlare del MPC non significa fornire un modello statico che ci permetta di interpretare il mondo ma di cogliere il processo storico che questo modo di produzione genera senza pensare di trovare delle forme permanenti che non vengono date, se non in modo transitorio, nella realtà. Il “motore” di un tale processo sta nella sua unica e vera contraddizione che è quella tra la tendenza allo sviluppo incondizionato della forza produttiva del lavoro sociale e lo scopo limitato della valorizzazione del capitale. Tale dinamica prescinde sia dalle varie forme concrete di capitalismo che si presentano sullo scenario mondiale, più o meno riformiste, liberiste o autoritarie, e dai diversi stadi di sviluppo storico del capitalismo stesso: questa cioè è la caratteristica fondante e permanente dell’attuale e predominante formazione sociale.

Il primo termine della contraddizione ha implicato ed implica una possibilità di emancipazione, storicamente realizzata, della specie umana dai condizionamenti della natura e dal lavoro inteso come pura sussistenza, anche se non compiutamente e irreversibilmente acquisite, e di realizzare nuove potenzialità umane in una gamma di scopi sempre più ampia. Il secondo termine, invece, dà il segno epocale in quanto piega quella possibilità e quella potenzialità allo “scopo limitato” della valorizzazione del capitale, cioè ad un elemento quantitativo che si riproduce tendenzialmente all’infinito ma che entra in contraddizione con la complessità del mondo reale che non è riducibile alla mera riproduzione allargata del valore di scambio.

Un tale procedere all’infinito si manifesta attraverso l’affermazione globale della produzione capitalistica, che supera e subordina tutte le altre forme precedenti di produzione, generalizza la forma di merce fino a penetrare nella natura e nella vita stessa, crea il mercato mondiale non solo come luogo degli scambi ma come produzione dei rapporti sociali, politici, culturali ovvero produce egemonia a livello mondiale. Da tutto questo nasce la contraddizione con l’ambiente “violentato” non dal generico “ente” uomo ma dal funzionamento intimo di un sistema di relazioni sociali che tutto subordina.

Questa potente soggettività “oggettiva” non è affatto assoluta ed unica, essa infatti imprime caratteristiche peculiari nella sua azione verso l’appropriazione dei beni naturali e, in ultima istanza, nel condizionare l’intero ambiente e fa lo stesso nei confronti dello sviluppo scientifico e tecnologico. L’industria moderna e mondializzata non è necessariamente l’unica possibile per il genere umano ma è quella prodotta dalle necessità di valorizzazione del capitale. La stessa scienza e la conseguente tecnologia non sono affatto oggettive ed inevitabili nelle modalità attuali. L’impatto ambientale che questi elementi producono non tengono conto del complesso delle condizioni naturali e della loro complessità proprio perché sono curvati da quello “scopo limitato” che abbiamo citato. Una cartina tornasole di questo meccanismo è l’ideologia di mercato e le leggi economiche capitalistiche che ci vengono quotidianamente offerte in molteplici modi e che vengono fatte apparire come fuori dalla storia e come leggi, queste sì “naturali”, eterne alle quali niente può sfuggire.

Il carattere contraddittorio del processo determinato dall’attuale modo di produzione però non si manifesta in ogni momento; storicamente ha prevalso il carattere emancipatorio determinato dallo sviluppo della forza produttiva del lavoro sociale e questo ha funzionato anche in tempi recenti, ad esempio nel confronto con i paesi socialisti. Solo in alcune fasi la sua contraddittorietà appare in modo palese, evidenziata dal prevalere dell’esigenza di valorizzazione del capitale. La questione ambientale, in forme spesso drammatiche e pervasive fin nel profondo della vita sociale, è uno di questi momenti che non sembra che possa essere semplicemente rimosso con ulteriori fasi di crescita e di riorganizzazione economica poiché le stesse potrebbero invece accentuare la crisi ambientale.

In realtà la “durezza” della questione ambientale evidenzia, via via che le manifestazioni diventano sempre più concrete, una crisi di autoregolamentazione del sistema in cui si mostrano sempre più impotenti anche le istanze politiche e viene minata la credibilità stessa delle leggi “naturali” del mercato. In sintesi emerge una crisi di egemonia che si intendeva essere risolta solo pochi lustri fa.

D’altra parte la questione ambientale complessivamente intesa produce vertenze concrete e presenti in molte aree del mondo, anche se con modi e forme diversi da paese a paese, che si esprimono dal centro sviluppato alle periferie geografiche e sociali. Ma per il livello su cui si propone e per il coinvolgimento di differenti classi sociali emerge che la posta in gioco non è semplicemente una sistemazione parziale della situazione ma è la stessa capacita di questo sistema di riprodursi nelle sue relazioni sociali.

Abbiamo introdotto questo passaggio di ordine teorico non per riaffermare un’ ortodossia oggi inutilizzabile ma perché la snodo del Modo di Produzione Capitalistico è quello che ci permette di individuare il punto di partenza per ricostruire una visione critica della questione ambientale; visione che deve tenere conto degli sviluppi analitici e teorici degli ultimi trent’anni ma in continuità con una battaglia anticapitalista che sappia coniugare lo sviluppo umano con quello della tenuta del sistema ambientale del nostro paese. Come abbiamo già detto non vogliamo dare lezioni a nessuno però pensiamo che una critica generica e senza un segno di classe porti all’unico risultato di mantenere la situazione allo stato attuale.

 

La fase, gli effetti e la resistenza sociale

La drammatizzazione della situazione ambientale ha marciato parallelamente, in questi ultimi trent’anni, allo sviluppo esponenziale dei processi di finanziarizzazione dell’economia capitalistica che ha funzionato da acceleratore dei processi produttivi e di consumo. La crisi degli anni ’70 ha provocato questo salto di qualità che gradualmente ha sottoposto ad uno “stress” sempre più forte il settore della produzione per aumentare i profitti, ad un peggioramento della condizione della forza lavoro finalizzato alla riduzione dei costi di produzione, ad un aumento conseguente dei consumi nei paesi sviluppati e dunque ad un ulteriore consumo della natura stessa e, infine, a periodiche crisi finanziarie.

 Che questa sia la fase che stiamo attraversando è quasi superfluo cercare di dimostrarlo tanto è evidente ormai da diversi anni e soprattutto dalla crisi finanziaria dell’inizio degli anni 2000; l’ultimo esempio di una lunga serie è la crisi dei cosiddetti mutui “subprime” che sono una sintesi di crisi finanziaria, con banche che falliscono, di crisi sociale, con i ceti più deboli che rimangono senza casa, e di peggioramento ambientale, poiché la speculazione edilizia è solo un ulteriore elemento di devastazione del territorio di cui conosciamo bene le conseguenze nel nostro paese.

Da questa condizione generale discendono una serie di effetti che vanno a pesare ulteriormente sulla condizione ambientale, le conseguenze sul clima ne sono ora la parte più evidente e difficilmente contestabile. Non possiamo analizzare nei particolari quali siano complessivamente tutti gli effetti prodotti nè è questo l’obiettivo del convegno che vogliamo organizzare per i primi mesi del 2008; esso, infatti, intende mettere in evidenza i nessi tra le cause economico-sociali strutturali, gli sviluppi degli squilibri ambientali ed i fenomeni di resistenza sociale nei territori che, pur partendo da situazioni specifiche e vertenziali, posseggono una potenzialità anticapitalistica che si esprime più o meno chiaramente a seconda del contesto sociale e politico in cui si manifestano.

Un primo elemento da evidenziare ci sembra quello della politica di privatizzazione che ormai dagli anni ’90 attraversa quasi tutti i paesi. Questa politica si riversa tramite diverse vie nella modifica ambientale in atto. Privatizzazione significa piegare il pubblico alle esigenze del profitto privato ma significa privarsi di quegli strumenti di intervento e di pianificazione che anche in una società capitalista sono necessari per non cadere in una spirale economica irrazionale che appunto, come abbiamo detto, rende impotenti le stesse istituzioni dell’attuale sistema. Nel nostro paese sotto i nostri occhi vediamo gli effetti della privatizzazione e della esternalizzazioni, della precarizzazione per i lavoratori, dello smantellamento dei servizi pubblici che stanno devastando intere aree del nostro meridione con la drammatizzazione della questione dei rifiuti; problema che riveste un ruolo centrale nei paesi dove il consumo fine a se stesso è il modo per riprodurre il ciclo economico e sviluppare i profitti. Ma privatizzazione significa anche sfruttamento incontrollato delle risorse naturali come la questione dell’acqua che da bene pubblico e naturale dei cittadini diventa occasione di speculazione sia nei paesi a capitalismo maturo sia in quelli della periferia, come in Bolivia dove la protesta popolare contro la privatizzazione di questo bene di prima necessità è riuscita a modificare perfino gli equilibri politici del paese. Ci limitiamo a citare solo la questione dell’acqua ma l’elenco dei beni naturali rapinati dalle grandi multinazionali è molto più lungo.

L’altro elemento che ci sembra sia significativo sul piano delle dinamiche economiche che incidono sul nostro “benessere” ambientale è quello della costituzione concreta, con la nascita dell’euro, del blocco economico europeo. La nascita della Unione Europea è un elemento fondamentale della competizione globale che ha preso quota negli ultimi venti anni; questo fatto, che possiamo indubbiamente definire storico, ha molti effetti: uno di questi è che per sostenere la competizione c’è bisogno di una circolazione sempre più veloce delle merci e della attività economica in generale all’interno dell’area dell’Unione. Questo implica dare impulso ad una crescita esponenziale dei lavori pubblici che stanno diventando un pilastro portante dell’ economia dei paesi più sviluppati. Autostrade, treni ad alta velocità, tracciati di collegamento continentale, ponti e quant’altro sono un elemento fondante che si scontra sempre più con le esigenze delle popolazioni locali e di cui la vicenda della TAV in Val di Susa è solo l’esempio più eclatante nel nostro paese.

Un’ultima questione centrale vogliamo evidenziare e riguarda il rapporto tra capitalismo, sviluppo scientifico e tecnologico ed impatto ambientale. Questo intreccio sempre più forte è un nodo strategico perché mette in collegamento la vita quotidiana della popolazione mondiale con i meccanismi propri del Modo di Produzione Capitalistico. L’aumento delle conoscenze scientifiche e delle possibilità di intervento dell’uomo ha segnato un passaggio qualitativo importantissimo ma anche problematico, infatti si è passati dalla possibilità di agire e trasformare la semplice materia inerte, caratteristica dell’industrialismo del ‘900, alla possibilità di intervenire direttamente sulla materia vivente aprendo orizzonti che fino a pochi decenni fa erano appena ipotizzabili.

Siamo di fronte ad un bivio dove è possibile imboccare una strada che aumenti le possibilità di crescita dell’umanità ma è anche possibile che la potenza che stiamo estraendo da questa nuova condizione scientifica prenda la strada dell’interesse particolare. E’ evidente che non stiamo parlando solo di ricchezza materiale e sfruttamento ma di una questione molto più complessa che se gestita sulla base dell’interesse economico privato può ritorcersi contro chi promuove questo sviluppo. D’altra parte non è la prima volta che il capitalismo porta l’umanità in un vicolo cieco, come nel periodo che va dal 1914 al 1945 con due guerre mondiali, dimostrando la sua caratteristica di apprendista stregone che evoca forze che poi non è in grado di governare. Ne può fermare questa irrazionalità la razionalità degli scienziati che spesso sono prodotto e strumento della ideologia egemone.

Gli scenari che possono emergere da una tale prospettiva sono molto pericolosi come dimostrano, ad esempio, le politiche delle multinazionali farmaceutiche che speculano su un dramma di un intero continente come l’Africa che si trova a dover contrastare il flagello dell’AIDS. Altrettanto evidenti sono le conseguenze sull’ambiente se si pensa alla modificazione genetica delle colture che sta trasformando il lavoro contadino, le zone agricole e la stessa alimentazione dell’uomo ancora una volta in funzione del profitto delle multinazionali e senza porsi il problema degli effetti a lunga scadenza sull’uomo e sull’ambiente.

In queste pagine abbiamo cercato di limitare, se possibile, ad alcune questioni la discussione ed il confronto poiché riteniamo che, se da una parte va aperto un confronto teorico serio, dall’altra non possiamo non misurarci con i momenti di resistenza che si stanno esprimendo nel nostro paese ed a livello internazionale. Infatti se è vero che queste lotte concrete spesso hanno il limite dello specifico e del localismo è anche vero che sono il prodotto di una dinamica generale, come noi almeno crediamo, e coinvolgono settori sociali che vanno oltre la sola dimensione di classe.

Se è vero che le lotte che avvengono in America Latina, in Africa o in Asia hanno un carattere più spiccatamente di classe se non direttamente proletario, le lotte che si sviluppano nel cuore dei paesi sviluppati, seppure hanno le stesse cause generali, coinvolgono settori sociali diversificati, settori che se da una parte “nascondono” il carattere anticapitalista di queste lotte dall’altra ci pongono il problema di capire chi oggi è danneggiato dall’attuale sviluppo ed chi ha interesse, anche qui da noi, ad un’altra prospettiva sociale. In termini più generali pensiamo che queste lotte, per quanto diversificate, in realtà possono essere il segno di una incipiente crisi di egemonia che sarebbe miope pensare di poter piegare alle esigenze politiche contingenti di questa o quella forza politica, ma che non possiamo ne nasconderci ne sottovalutare in funzione di una prospettiva di cambiamento.

In conclusione riteniamo che se ci limitassimo al “marxismo scolastico” si potrebbe, banalmente, affermare che nei fondamentali di Marx è già stato tutto descritto ed inquadrato per cui il nostro agire politico dovrebbe limitarsi alla semplice enunciazione e diffusione di queste argomentazioni. Noi riteniamo, invece, che tale atteggiamento, oltre a non fotografare la realtà attuale in maniera adeguata, offende e svilisce il metodo e l’analisi marxiana che, come dovrebbe essere ampiamente noto, non sono un’ arte della preveggenza e del futuribile. Se utilizzando Marx il movimento comunista, in oltre 150 anni di storia, è stato in grado, con tempi e forme sicuramente diverse a seconda delle fasi e dei contesti, di elaborare una discreta critica dell’economia politica lo stesso risultato non è stato possibile acquisire quando si è trattato di mettere in campo una convincente critica del capitalismo maturo dal punto di vista della possibile razionalità e/o equilibrio ecologico. Questa affermazione, per quanto netta, non, è per noi, una pietra dello scandalo ma rappresenta uno stimolo, che raccogliamo, per far avanzare la ricerca e l’indispensabile affinamento delle armi della critica. Un passaggio che vogliamo acquisire per affermare, nel movimento reale, l’urgenza della trasformazione e di una battaglia organizzata per il superamento dello stato di cose presenti.

Roma - Sabato 23 febbraio 2008 ore 9.30

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