Print Friendly, PDF & Email

Osservazioni sulla crisi*

Antiper

La relazione introduttiva di Giulio Palermo all'assemblea sulla crisi economica che si è tenuta a Massa il 24 febbraio scorso1 è stata certamente interessante ed ha offerto molti elementi di riflessione. Il punto più forte è stato senza dubbio quello dell'aver interpretato la crisi come crisi derivante, in ultima istanza, dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, ciò che viene spesso dimenticato oppure, quando va bene, ricordato in modo puramente rituale. E' stato meritevole anche il fatto di aver introdotto la serata con una sostanziosa ricognizione su alcune categorie marxiane (dalla differenza tra capitale fisso e capitale costante, al plusvalore, alla formulazione del saggio medio di profitto, accennando anche ad una critica alle impostazioni “empiriste” ed al metodo di misurazione adottato in alcune analisi econometriche).

Molti passaggi sono risultati condivisibili, alcuni anche in modo inatteso (visto l'andazzo nel cosiddetto “movimento”), come il richiamo a non schierarsi, anche solo inconsapevolmente, a fianco del “capitalismo dal volto umano” -magari quello dei settori produttivi che “danno lavoro” -contro il capitalismo “cattivo” delle banche (per quanto una distinzione di questo genere, dopo l'Imperialismo di Lenin, sia ormai in larga parte formale). E' un punto importante che da anni andiamo sostenendo nei confronti di coloro che hanno agitato la categoria di “neo-liberismo” proprio nel senso paventato da Palermo il quale è stato tanto più meritevole in quanto, pur avendo scritto un libro intero sui caratteri del neo-liberismo2, ha usato con parsimonia questa categoria.

Invece di riassumere tutte le questioni emerse nella serata, ci concentriamo solo su quelle che a noi paiono più controverse. Ne indichiamo due in particolare, entrambe di carattere principalmente “politico”: “movimento no debito” e “de-mercificazione”.




“Noi il debito non lo paghiamo”

La prima questione è quella che riguarda la campagna “no debito”. Correttamente, Giulio Palermo ha criticato le componenti politico-culturali che si illudono di poter separare la spesa “buona” che originerebbe un debito giusto e dunque sostanzialmente accettabile dalla spesa “cattiva” che invece originerebbe un debito ingiusto e dunque assolutamente inaccettabile (anche se, dal nostro punto di vista, la spesa per ospedali è certo ben più nobile dalla spesa per cacciabombardieri e solo conoscendo come funziona l'imperialismo si capisce che la condizione affinché vi siano tanti ospedali in questo paese è che - all'occorrenza - vengano usati tanti cacciabombardieri in qualche altro paese).

Il punto è che l'intero movimento “no debito” suscita parecchie perplessità che non possono essere risolte semplicemente dicendo cose del tipo “io sto nel movimento a modo mio”, “il vertice del movimento lancia campagne che non condividiamo ma noi, alla base, ci muoviamo per conto nostro” (le frasi non sono esatte, ma il senso di quanto detto è grosso modo quello): il giudizio su un movimento non può partire del fatto che una qualsiasi persona ci sta dentro con posizioni inconciliabili: semmai, questo è un problema di coerenza di questa persona e non certo del movimento e dei suoi “vertici” i quali, al contrario, hanno tutto l'interesse ad imbarcare chicchessia pur di fare “massa”.

Prendiamo un brano dell'appello per la manifestazione di Milano del 31 marzo (“Occupyamo Piazza Affari”)

“Vogliamo un diverso modello sociale ed economico in Italia e in Europa, fondato sul pubblico, sull’ambiente e sui beni comuni, per riconvertire il sistema industriale con tecnologie e innovazione, per la pace e contro la guerra, per lo sviluppo della ricerca sostenendo scuola pubblica e università, per garantire il diritto a sanità, servizi sociali e reddito per tutti, lavoro dignitoso, libertà e democrazia”


“Vogliamo un diverso modello sociale ed economico”
(quale?) “in Italia e in Europa” (e del resto del mondo ce ne fottiamo?), “fondato sul pubblico” (lo stesso “pubblico” che fino a qualche mese fa era governato da Berlusconi o quello che oggi è governato da Monti, Fornero, Passera...?), “sull’ambiente” (fondato sull'ambiente? Casomai sul rispetto dell'ambiente...) “e sui beni comuni” (ma cosa sono, perdio, questi benedetti beni comuni?), “per riconvertire il sistema industriale con tecnologie e innovazione” (questo, il modo di produzione capitalistico, lo fa già ogni giorno, da sempre, anche senza il sostegno dei “no debito”, per avere maggiore produttività, minori costi, minori salari, minori occupati...), “per la pace e contro la guerra” (vabbè, non può mai mancare una chiacchiera per la pace), “per lo sviluppo della ricerca sostenendo scuola pubblica e università, per garantire il diritto a sanità, servizi sociali e reddito per tutti, lavoro dignitoso, libertà e democrazia” (bla, bla, bla... una raffica di concetti “alla Alberto Lupo” -“parole, parole, parole...” -; e poi perché solo la Libertà e la Democrazia? Perché non anche la Fraternità, la Legalità, l'Uguaglianza, la Giustizia, la Felicità, l'Amore... e altri pii desideri di questo tipo? Roba da matti).

Leggere cose di questo tipo fa davvero accapponare la pelle. L'unica consolazione è la totale indifferenza con cui tutti - e i lavoratori in primo luogo - accolgono questi deliri di impotenza.


***


Delle tante perplessità che suscita l’attuale “movimento contro il pagamento del debito pubblico” ne scegliamo solo due (sottolineando, pur essendo inutile, che se il movimento “no debito” non ci piace questo non significa che ci piaccia il pagamento del debito).

a) La prima perplessità riguarda il rapporto tra natura politica del movimento e rapporti di forza dentro il movimento e del movimento nell’intera società. La domanda è infatti questa: è possibile nel contesto specifico del movimento “no debito” e in qualsiasi altro contesto - prescindere da una valutazione “mate-realistica” (cioè materialistica e realistica) e non immaginaria sui rapporti di forza esistenti tra le diverse componenti culturali del movimento (che nel caso “no debito” dovrebbe essere concepito in modo esteso, ovvero comprendendo anche le molte forze di destra che sono contro il pagamento del debito e, soprattutto, le forze istituzionali e le frazioni capitalistiche interessate al non pagamento)? Evidentemente no, perché se il movimento assume posizioni politiche e caratteristiche culturali antitetiche a quelle di chi lo interpreta in modo anticapitalistico, si finisce per passare il tempo a differenziarsi e a fare la critica delle posizioni egemoni per non essere confusi con esse (e infatti, nel suo intervento, Giulio Palermo ha dovuto polemizzare -per differenziarsene -con alcune posizioni interne al movimento, come quella, criticata più volte, contro i cosiddetti “audit” sul debito pubblico3). Soprattutto, si finisce per alimentare una battaglia che non conduce da nessuna parte, né sul piano pratico (ma sarebbe il male minore perché di questi tempi puntare sulle “cose concrete” è come puntare alla roulette), né soprattutto - e questo è molto più preoccupante - sul piano politico-culturale.

b) La seconda perplessità (che però non riguarda Giulio Palermo il quale, anzi, ha giustamente criticato le posizioni moralistiche e le parole d'ordine facili) attiene ad un tema che da tempo sembra essersi ormai perduto ovvero quello della “contestualizzazione” delle parole d'ordine, per evitare che esse si trasformino in pure chiacchiere prive di qualsiasi credibilità ed efficacia, buone solo per mobilitare il “residuato bellico” di una sinistra alla deriva, costretta ad agitare slogan strappa-applausi sui lavoratori che lottano, sugli immigrati che soffrono, sui no Tav che fanno la rivoluzione, sulla Resistenza tradita, sulla guerra che semina morti, sul lavoro che uccide, sulla finanza usuraia, sul padrone che discrimina, sull'unità necessaria dei lavoratori, ecc... e tutto il restante armamentario retorico di persone che si farebbero tagliare un braccio prima di dire qualcosa di interessante e di non già sentito un triliardo di volte.

Con tutta la buona volontà è per noi molto difficile accogliere parole d’ordine che si propongono di far funzionare il capitalismo al contrario di come è inevitabile che esso funzioni, così come ci è molto difficile adottare parole d'ordine che si propongono di realizzare misure di politica economica le quali, nientemeno, sarebbero utili tanto agli sfruttati quanto agli sfruttatori, come suggeriscono oggettivamente le chiacchiere sul sotto-consumo e sulla più equa re-distribuzione del reddito di cui si è parlato anche in assemblea e su cui Giulio Palermo ha detto qualcosa riferendosi - giustamente in modo critico - alle sciocchezze sul reddito di cittadinanza/esistenza di Fumagalli & co.

Ma allora anche “noi il debito non lo paghiamo” è uno slogan che deve misurarsi con il contesto storico-sociale in cui viene avanzato a meno che non si tratti anche qui di una pura chiacchiera, gemella dell'altra chiacchiera -“noi la crisi non la paghiamo” -che fa ridere di sé da 4 anni a questa parte. Poniamoci dunque la domanda: siamo ancora nel capitalismo o siamo nel “paese delle meraviglie”? Se siamo nel capitalismo come possiamo pensare che esso funzioni con “regole” non capitalistiche o, addirittura, anti-capitalistiche? E non è forse una regola del capitalismo quella che se chiedi un prestito (cioè se contrai un debito) poi questo prestito lo devi rimborsare e se non lo fai, magari non ti ammazzano, certo, ma di sicuro non continuano a farti prestiti4 a meno che non sia possibile scaricare su qualcun altro il rischio di insolvenza - e soprattutto l'insolvenza vera e propria - come è avvenuto per la finanza derivata. Ma qual'era il giochino che ha poi condotto al crack del 2007? Era che si “poteva” elargire un prestito a chiunque anche senza alcuna garanzia, cartolarizzando il credito e scaricando il rischio di insolvenza su qualcun altro, in una catena dello scarica-barile in cui gli ultimi “scemi” ad assumersi il rischio erano i fondi di investimento sfigati per piccoli risparmiatori sfigati irresistibilmente attratti dall'illusione di poter ricavare reddito dal semplice “investire in borsa” ovvero dal “dolce far niente”, a prescindere del modo in cui le banche realizzavano i profitti da ripartire anche con i poveri illusi di sui sopra. Fondi sfigati che venivano e vengono collocati - come dimostrò efficacemente la puntata di Report “Pensioni senza fondo” - su titoli a rischio, titoli che vengono invece evitati come la peste dagli investitori non sfigati (per cui si può dire che “fortuna” e “sfortuna” si distribuiscono biecamente, ma non ciecamente, in ambito finanziario).

Inoltre, sempre per ridurre il rischio, i titoli sfigati per risparmiatori sfigati venivano assicurati (CDS5) sull'eventuale mancato pagamento scaricando parzialmente il rischio prima sugli assicuratori (come AIG) che a sua volta lo hanno scaricato sullo Stato (gli USA, come nel caso del crack di AIG) che a sua volta lo ha scaricato su altri Stati (l'Europa, come nel caso degli effetti del salvataggio dal crack di AIG e si dovrebbe aggiungere, non su tutta l'Europa, ma principalmente su alcuni paesi europei).

Ad un certo punto il meccanismo è andato in tilt; certo, come a detto Palermo, in parte anche a causa del rialzo dei tassi di interesse praticati dalla FED che ha fatto crescere le rate dei mutui, ha reso insolventi centinaia di migliaia di famiglie e concorso a provocare l'esplosione della bolla immobiliare. Ma bisogna domandarsi cosa ha imposto questo cambiamento di strategia della FED dopo che per anni questa aveva praticato tassi quasi nulli. Forse, ipotizziamo, hanno avuto un qualche ruolo anche le difficoltà (e gli enormi costi da tamponare in qualche modo) delle campagne militari in Afghanistan e Iraq, difficoltà prodotte dalle Resistenze - e non certo dalle chiacchiere impotenti dei paci-finti (“per la pace, contro la guerra”) - che, a loro volta, erano state spinte dalla ricerca del controllo geo-strategico delle vie dell'energia e delle materie prime per rialzare il saggio di profitto delle imprese a base USA.

Bravi, anzi bravissimi, sono stati gli “amministratori” USA a non fare saltare per aria tutto il sistema, iniettando un'enorme quantità di dollari nelle casse delle banche, provocando una svalutazione del dollaro e dei Titoli di Stato che ha fatto incazzare un po' tutti e Cina/Giappone in modo particolare (visto che questi due paesi detengono titoli del Tesoro americano per migliaia di miliardi di dollari che valgono ora assai meno di quanto valessero prima).

Per (loro) fortuna, il problema è stato scaricato sui Titoli di Stato europei ed è venuta fuori l'attuale “crisi dell'euro”. Ora la situazione è questa: se il debito (pubblico, in questo caso) non verrà pagato il “sistema Europa” rischia di venire giù e, con esso, rischia di venire giù buona parte del “sistema USA”. Pertanto, è lecito supporre che la soluzione “no debito” non sia nell'interesse del “sistema” e che non verrà da esso praticata. Magari si farà un'eccezione per la Grecia o per qualche altro paese minore, ma ben difficilmente si farà per paesi importanti come l'Italia (che è un paese imperialista e non certo un paese oppresso dai perfidi alemanni come si sragiona in certi ambienti “no debito”).

Poiché il “default europeo” non è nell'interesse né dell'Europa (o, per meglio dire, dei principali paesi europei), né degli USA, il default non ci sarà e bisognerà pagare almeno la maggior parte del debito (posto che il movimento “no debito” non sembra in grado di imporre alcunché). Qualche sconto sul piano della somma globale ci sarà? Probabilmente sì (anche perché se uno i soldi non ce l'ha, non ce l'ha, è inutile continuare a chiederli), ma non ci saranno certo sconti sulla politica economica da seguire che si può riassumere così: ristrutturazioni pesantissime per i lavoratori.

Chi pagherà il debito non è difficile capirlo dal momento che questo deve essere pagato con nuova ricchezza e non con nuovo debito (come si è fatto per decenni). E da dove viene la nuova ricchezza se non dal lavoro o, per meglio dire, dallo sfruttamento capitalistico del lavoro? Ergo, i lavoratori di tutta Europa saranno massacrati e ben lo ha fatto intendere Mario Draghi affermando che il modello sociale europeo - non solo quello italiano o greco - è finito e che quindi una grande quota di salario sociale verrà fatta evaporare.

Ora, senza rapporti di forza favorevoli (e senza poter contare troppo sulle contraddizioni interne del sistema) non è possibile nessun “default controllato e selettivo” (di cui si parla a vanvera nel movimento “no debito”). Ma ove anche, poniamo, Italia o PIIGS6 non pagassero il debito cosa succederebbe (siamo nel capitalismo, ricordiamolo)? Secondo Giulio Palermo non succederebbe nulla: le banche non prenderebbero soldi, punto e basta. Un po' poco.

Intanto se le banche chiudono -in un sistema basato sull'indebitamento delle imprese e, come avrebbe detto il buon vecchio Lenin, sulla fusione tra capitale bancario e capitale industriale7 anche le imprese chiudono (a meno che i soldi non glieli regali lo Stato prendendoli dalle nostre tasche). E se le imprese chiudono i lavoratori vengono licenziati.

E poi almeno un altro effetto “possibile” lo vediamo. L'anno successivo al mancato pagamento del debito cosa succederebbe? Succederebbe sicuramente che il paese insolvente, per alcuni anni, venderebbe molti meno titoli di quelli che vengono venduti adesso e a tassi molto più alti; dunque, una grossa parte della spesa pubblica non sarebbe più coperta (metà della spesa oggi è coperta da debito). E cosa succederebbe alle condizioni materiali dei proletari? Forse che verrebbero tolti soldi dalle tasche dei ricchi per metterle in quelle dei poveri sotto forma di salari, servizi, ammortizzatori sociali, ecc...? Siamo nel capitalismo, la risposta non è difficile: ebbene no, niente Robin Hood; verrebbero peggiorate drasticamente le condizioni materiali dei lavoratori, proprio come successe in Argentina che un default lo fece nel 2001 con i seguenti risultati



Come si vede, l'effetto del default è, nell'immediato, il massacro sociale. Altro che “non succede nulla”. E, nell'odierna situazione di crisi post-2007 non abbiamo alcuna garanzia che dopo il default vi sarebbe un “rimbalzo” nel medio termine8, così come non abbiamo nessuna garanzia che questo eventuale recupero verrebbe ad essere spartito in modo “equo” ovvero non polarizzato a favore dei redditi più alti, come è stato, in tutta l'area OCSE, negli ultimi 40 anni9 .

E allora, la situazione è più o meno questa: se l'Italia paga il proprio debito pubblico i lavoratori italiani verranno massacrati; ma se l'Italia non paga il debito, i lavoratori italiani verranno massacrati lo stesso. E' questo il punto: comunque vada, nel capitalismo, sono i lavoratori che vengono massacrati. Non c'è nessuna “via d'uscita” nel sistema e chi lo dice è un imbecille o un mascalzone; c'è solo la via d'uscita dal sistema, per quanto oggi praticamente impossibile da imboccare a causa di una serie di ragioni.


La lotta per la de-mercificazione

Il secondo tema dell’intervento che merita di essere approfondito (e ben di più di quanto si possa qui fare) è quello della de-mercificazione che Giulio Palermo riassume così: la richiesta di reddito (“di cittadinanza”, “di esistenza”, ecc…) che viene formulata da alcuni ambienti è la richiesta di poter comprare merci che, senza quel reddito, non potrebbero essere comprate. E' il “via libera” alla produzione di merci purché si permetta a tutti di accedere al loro consumo. Al contrario, secondo Giulio Palermo, rivendicare la gratuità del pane, piuttosto che il denaro per comprarlo, dovrebbe ridurre gli ambiti di mercificazione capitalistica.

Lasciamo perdere se sia possibile “de-mercificare il pane” senza intaccare il modo capitalistico di produrlo e distribuirlo. Per fare un esempio, in Italia i farmaci “generici” sono gratuiti e quelli non generici sono quasi gratuiti per le fasce meno abbienti della popolazione; ma si può forse dire che la produzione e la distribuzione di quei farmaci sia de-mercificata? O non si deve piuttosto riconoscere che, gratuità o meno, il mercato della produzione e della distribuzione dei farmaci è uno dei mercati più fiorenti e potenti che esistano?

E lasciamo perdere anche il fatto che il tizio che rivendica un reddito10 per il solo fatto di essere un cittadino riservando il salario11 solo a quei volenterosi stakanovisti che vorranno lavorare pur non avendone bisogno - altro che capitalismo, qui siamo nel “paese di bengodi”! - non si preoccupa certo di come realizzare questo obbiettivo perché il suo cervello ha già fatto anche troppa attività “cognitiva” ed ora deve riposare.

Se la merce è un qualcosa che ha un valore d’uso (la proprietà di essere utile a qualcuno) e al tempo stesso un valore di scambio (il rapporto con cui una certa quantità di questa merce si scambia, appunto, con un'altra quantità di una diversa merce) allora non è detto che la merce sia sempre un prodotto del lavoro in senso stretto12 . Prendiamo l’acqua, il famoso “bene comune”, che è stato sempre storicamente tanto poco comune da costituire motivo di contesa. Le principali città sono state costruite sui fiumi cioè su vie d’acqua, il controllo dei mari è stato uno degli elementi fondativi dello sviluppo mercantile molto prima della nascita del capitalismo, la mancanza o l'abbondanza di acqua hanno dato ai popoli siccità o fertilità e dunque povertà o ricchezza… Ebbene, l’acqua è “solo” acqua se nessuno la controlla, altrimenti diventa un qualcosa di utile e di scambiabile: diventa merce. L'acqua è stata trasformata in merce molti secoli prima che si raccogliessero le firme per il referendum contro la “mercificazione dell'acqua”13 . Del resto, per sapere se l'acqua sia o meno merce, basta andare al supermercato (anche alla Coop), in genere vicino all'aranciata o al chinotto, e presentarsi poi alla cassa pretendendo di non pagarla. Oppure rispondere alle bollette “l'acqua è un bene comune e io la bolletta, come la crisi e il debito, non la pago”: vediamo quanti bidet ti fanno fare dopo.

Marx inizia la sua analisi del “capitale” dal concetto di merce, ma per cercare un tratto caratteristico del modo di produzione capitalistico introduce il concetto di “società mercantile semplice”, una società teorica in cui lo scambio ha come obbiettivo solo il soddisfacimento dei bisogni. In questa società l’allevatore va al mercato per vendere il formaggio e con il denaro ricavato compra altre merci che egli non produce: la vendita ha solo lo scopo della compera. Invece, dice Marx - e in questo trova la caratterizzazione che stava cercando - nel modo di produzione capitalistico è la compera che ha come obbiettivo la vendita di merci e la realizzazione del plusvalore generato nel processo produttivo.

Nel capitalismo non ha nessuna importanza quali merci vengono prodotte perché l'obbiettivo non è soddisfare bisogni, ma generare profitti. Una crociera con la Costa Concordia non è certo un “bisogno”, ma se c'è qualcuno che la paga, allora c'è qualcuno che la vende. Invece, delle analisi di Marx o di Lenin ci sarebbe grandissimo bisogno, specialmente nella sinistrata sinistra italiana, ma siccome quasi nessuno compra i libri che le contengono, quasi nessuno li vende.

Sono tutte cose abbastanza note. Ora, il punto da sottolineare è che per Marx non è il concetto di merce che caratterizza il modo di produzione capitalistico, ma il fatto che il modo di produzione capitalistico generalizza ed estende la forma di merce a tutti gli ambiti della società al punto che gli stessi rapporti tra gli uomini vengono mascherati da rapporti tra cose (“feticismo delle merci”, lo chiama Marx). Non è la merce, ma la progressiva mercificazione sociale, che caratterizza il capitalismo. Dunque, pretendere che il capitalismo non produca anzitutto mercificazione equivale a pretendere che esso non funzioni come capitalismo.

Solo perché viviamo nel modo di produzione capitalistico dobbiamo dunque essere contrari alla demercificazione o essere indifferenti alla progressiva mercificazione della società? No di certo, ma perché bisogna pretendere la “de-mercificazione” del pane o dell'acqua (in quanto sarebbero beni primari) e non pretendere quella dell'energia? Forse che l'energia (l'elettricità, i carburanti, ecc...) non è oggi un bene primario? Si pensa forse di far funzionare gli strumenti delle sale operatorie a manovella? Dobbiamo nazionalizzare Ferrarelle e San Pellegrino e lasciare indisturbate Exxon e Eni? Perché? Forse che le guerre scatenate per il controllo delle materie prime (come il petrolio) fanno meno danni agli uomini e all'ambiente di quanti ne faccia lo sfruttamento capitalistico dell'acqua o della farina?

Se uno è comunista nel senso del comunismo lotta per una società in cui tutto debba essere “demercificato” mentre invece se uno è “comunista” nel senso dei “beni comuni” lotta per una società in cui l'acqua viene fatta pagare ai romani da Alemanno o Rutelli. Ah, 'mbé, 'sti cazzi...

Non è Karl Marx, ma un altro Karl - Polanyi - il teorico della lotta contro la mercificazione della società all'interno del capitalismo. Secondo Polanyi, ogni passo nel processo di mercificazione della società ha stimolato una reazione anti-mercificazione (si tratta di quello che l’autore chiama “doppio movimento”14); e questa reazione avrebbe condotto alla creazione di istituzioni capaci di controllare l'azione del mercato su quelle che Polanyi definisce “merci fittizie” (lavoro, terra, moneta). Mentre tutto veniva mercificato le “merci fittizie” venivano sottratte all'auto-regolazione del mercato.

Ma le cose non stavano propriamente in questo modo. Intanto perché il lavoro, per fare un esempio, non è mai stato sottratto alle regole del mercato, come la realizzazione di alcune conquiste economico-sociali potrebbe far supporre. Intanto, il capitale ha dovuto concedere queste conquiste per necessità in alcune fasi di forte crescita, e già questo è un semplice fatto “di mercato” perché il maggiore prezzo della forza-lavoro - cioè il maggior salario - è stato il prodotto della maggiore domanda di forza-lavoro nelle fasi di crescita. E, proprio come spiegava Marx in Salario, prezzo e profitto, ovvero nel primo libro del Capitale, il prezzo della forza-lavoro oscilla, con la legge della domanda e dell'offerta, attorno al suo valor medio storicamente e socialmente determinato, ovvero, come per ogni altra merce, attorno al suo costo di (ri)produzione. Inoltre, proprio quelle conquiste economico-sociali hanno reso convenienti la de-localizzazione in zone o paesi a minor costo del lavoro e queste de-localizzazioni hanno ridotto i posti di lavoro, hanno fatto diminuire la domanda di forza lavoro e, con essa, il suo prezzo (i salari, appunto). Questo mostra abbastanza chiaramente che i lavoratori sono sempre stati “sul mercato”, solo che invece di stare su un mercato del lavoro nazionale stavano - e stanno -, ormai, su un mercato del lavoro internazionale.

A questo si aggiunga che spesso le lotte per le conquiste economico-sociali hanno avuto il non trascurabile effetto collaterale di depotenziare le lotte per il potere. Zygmunt Bauman15, parla ad esempio di “economicizzazione del conflitto”, una sorta di risarcimento economico per gli effetti della produzione capitalistica in cambio della rinuncia alla lotta per il controllo su tale produzione. Analogamente Beverly Silver16 ed altri hanno parlato di “patto”: reddito contro consenso. Tu mi dai una parte dei proventi della mercificazione (anche sotto forma di merci, tipo pane e acqua gratuiti) e io non mi ribello più contro di essa.

Una volta c'era anche il concetto di “aristocrazia operaia” con il quale, Marx prima e Lenin poi, indicavano lo scambio con cui, alcune componenti del movimento operaio, si impegnavano a sostenere il proprio Stato nazionale - finanche in guerra - in cambio delle briciole provenienti dalle rapine coloniali e imperialiste. Per estensione, è un po' “aristocratica” anche la tendenza odierna di molti lavoratori a “perdonare” le missioni di guerra del proprio paese purché utili a difendere i livelli di consumo. Già, perché non basta dire “ci vogliono più consumi per i lavoratori” (come dicono i “sotto-consumisti”, cioè la quasi totalità della cd “sinistra”); bisogna anche dire come ricavare le risorse aggiuntive per tali consumi. La rapina imperialista è uno dei più realistici tra questi “come”; l'esproprio proletario dei ricchi è, invece, dentro il modo di produzione capitalistico, uno dei meno realistici).

Quanto il “patto” di cui cui parla Beverly Silver sia stato esplicito e consapevole da parte dei lavoratori è difficile dirlo (mentre è molto più semplice dirlo per i loro rappresentanti politici e sindacali). La cosa, in fondo, ha un'importanza relativa anche perché, invece che di patto, sarebbe meglio parlare di un particolare equilibrio di rapporti di forza venutosi a determinare in un particolare contesto macro-economico e dentro un particolare quadro geo-politico, un equilibrio che ha permesso l'estensione del salario sociale in tutte le sue voci (diretto, indiretto, differito) e la creazione di forme di protezione sociale contro l'aleatorietà del mercato (la presunta “demercificazione” polanyiana) e l'arbitrio del padrone (l'articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, per fare un esempio). Poi, che queste conquiste si siano realizzate in cambio di una sostanziale rinuncia a qualsiasi aspirazione di trasformazione rivoluzionaria è poco, ma sicuro.

Quando si è rotto il presunto “patto”? Quando la sovrapproduzione iniziata negli anni ‘70 e la caduta del saggio di profitto ad essa precedente hanno prodotto una condizione di crescente difficoltà per il capitale di redistribuire reddito ed un'alterazione dei rapporti di forza a svantaggio dei lavoratori i quali, abituati a “grandi conquiste” con il minimo sforzo17 , si sono abbarbicati alle proprie organizzazioni politiche e sindacali nella speranza che compissero il miracolo di impedire al padrone di riprendersi tutto ciò che questi era stato costretto a cedere nella fase precedente. C'è bisogno di dirlo? Il miracolo non si è compiuto e il ciclo storico del riformismo (nella sua più ampia accezione) si è quasi completamente esaurito18. L'odierno dilagare di proposte politiche neoriformiste (provenienti anche dalla quasi totalità dei gruppi politici che hanno l'ardire di definirsi anti-capitalisti, comunisti, antagonisti, rivoluzionari, bla, bla...) è solo il sintomo del fatto che al ridicolo, come al peggio, non c'è mai fine.

Cos’è per i lavoratori, oggi, la mercificazione19, se non la progressiva perdita di salario sociale? Rivendicare la gratuità del pane o rivendicare il denaro necessario per comprarlo non appaiono più, da questo punto di vista, due opzioni tanto diverse. Sono comunque richieste di salario ricevuto sotto forma di reddito (salario diretto, acquisto del pane) oppure ricevute sotto forma di servizi (salario indiretto, erogazione pubblica del pane). Che poi uno giustifichi la richiesta di reddito in base al fatto di “essere cittadini” oppure che giustifichi la gratuita distribuzione del pane in base al fatto che il pane è un “bene comune” o un “bene primario” o altro cambia ben poco, almeno per il capitale che continua imperterrito a distribuire solo calci nel didietro.

E dunque, in conclusione. E' sbagliato lottare per la “de-mercificazione” di alcuni beni o servizi ovvero, in forma più classica, per un aumento del salario sociale? No di certo, i lavoratori hanno sempre diritto a cercare di vendere al prezzo più alto possibile la propria forza-lavoro e non hanno alcun bisogno di giustificare tale diritto.

Il punto è che questo non è molto diverso dal reclamare reddito in generale e soprattutto non ha nulla a che vedere con la messa in discussione del capitalismo come modo di produzione (tanto è vero che proprio le idee politiche di Polanyi sono l'espressione di una visione critica del liberalismo e del mercato “auto-regolato” che non è né rivoluzionaria, né anti-capitalista, ma bensì socialdemocratica e riformista).

Non si può pretendere che il modo di produzione capitalistico non funzioni da modo di produzione capitalistico. Ed è proprio per questo che, al Polanyi fiducioso - come si è poi visto, vanamente - sul fatto che gli uomini avrebbero tratto insegnamento dalla tragica esperienza degli anni '30, preferiamo il Lenin secondo cui “lo stato borghese si abbatte e non si cambia” perché gli ingranaggi della macchina statale borghese sono pensati per funzionare in una sola direzione e di tale macchina non ci si può servire neppure dopo una rivoluzione, figuriamoci prima.

Marzo 2012


*Due osservazioni sull'intervento di Giulio Palermo all'assemblea di Massa sulla crisi del 24 febbraio 2012 e qualche considerazione ulteriore

____________________________________________

Note

1 L'assemblea era intitolata “Capire la crisi per non pagarne le conseguenze”: un obbiettivo decisamente ambizioso a nostro avviso ben difficilmente realizzabile. Verrebbe invece da dire: bisogna capire la crisi proprio per essere consapevoli che non è possibile impedire che siano i lavoratori a pagarne le conseguenze, stante il modo di produzione capitalistico.

2 Giulio Palermo, Il mito del mercato globale. Critica delle teorie neoliberiste, Manifestolibri.

3 Cfr anche Giulio Palermo, Riformismo e anticapitalismo nel movimento no-debito, marzo 2012.

4 "Quando nel 2002 venne dichiarato il default gli investitori stranieri abbandonarono lo stato ed il flusso di capitali verso l'Argentina cessò quasi completamente. Il governo si trovò ad affrontare l'arduo compito di rifinanziare il debito. Lo stato non aveva denaro da parte al tempo e le riserve di valuta estera della banca centrale erano quasi del tutto esaurite", Wikipedia sulla crisi in Argentina del 2001.

5 Credit Dafault Swaps.

6 “PIIGS” è il termine giornalistico dispregiativo con cui vengono indicati i paesi europei più a rischio dal punto di vista economico: Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna.

7 La fusione tra capitale bancario e capitale industriale fa si che il crack dell'uno non possa che risolversi nel crack dell'altro. E' questo quello che, dopo il 2007, è stato definito giornalisticamente l'effetto della crisi finanziaria sull'economia “reale” (oltre a quello, naturalmente, che con anche il denaro finto, almeno finché non viene dichiarato tale, si possono comprare merci vere, ma quando le bolle esplodono molto denaro finto evapora e così pure come molta domanda.

8 Come avvenuto in Argentina che però era un'economia relativamente piccola in cui era più semplice migliorare la situazione economica grazie all'aumento delle esportazioni favorito dalla svalutazione o dall'aumento delle in-localizzazioni, chiamiamole così, favorite dal minore costo del lavoro. Per un paese come l'Italia (7 volte maggiore dal punto di vista economico) la cosa sarebbe ben più difficile, specialmente in un contesto enormemente più competitivo a causa della crisi. Per citare un dato, l'Argentina, che aveva visto diminuire notevolmente il proprio debito fino al 2007 (anche perché in pochi si fidavano a darle denaro) dal crack di Wall Street in poi ha visto il proprio debito pubblico crescere enormemente. Insomma, il “populismo di sinistra” della famiglia Kirchner ha comprato buona parte del proprio indubbio consenso a debito, un po' come faceva il nostro “pentapartito” negli anni '80. Nonostante questo, l'indice di povertà in Argentina sta tornando pericolosamente vicino (30%) a quello del 2001 (37%), dopo essere diminuito per alcuni anni (effetto rimbalzo).

9 Cfr. OECD, Growing unequal?, 2008 e OECD, Divided we stand, 2011.

10 Che è in definitiva una semplice capacità di comprare.

11 Che è il compenso per l'espletamento di un'attività lavorativa.

12 In senso lato lo è invece sempre, perché anche il semplice raccogliere funghi è un lavoro. E se questi funghi (che io non ho prodotto) li porto al mercato per scambiarli allora li trasformo in merce.

13 In realtà, aldilà della retorica sull'“acqua nostra madre” dei vari padri comboniani, il referendum era contro la privatizzazione delle aziende “pubbliche” (come se queste aziende non fossero già semiprivatizzate) e contro il profitto garantito ai privati (come se non ci fossero già numerosi esempi di “profitto garantito”, vedi le Autostrade regalate ai compagni Benetton o la Telecom regalata al compagno Colaninno); quello era il punto sostanziale del referendum o così, almeno, lo hanno inteso sostenitori del si come il signor Alemanno Gianni, noto campione della difesa dei cosiddetti “beni comuni”.

14 Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi.

15 Zygmunt Bauman, Memorie di classe, Einaudi.

16 Beverly J. Silver, Forme del lavoro. Movimento operai e globalizzazione dal 1870, Bruno Mondadori.

17 Giacché non si può certo paragonare l'intensità del ciclo di lotta degli anni 1914-21 (comprendente il “biennio rosso”) o del 1943-'48 (comprendente la Resistenza) con quella molto meno radicale, ma molto più produttiva in termini di risultati economico-sociali della fine anni '60 - metà anni '70.

18 Antiper, Il ciclo sgonfiato.

19 O la ri-mercificazione, se si vuol dire che certe realizzazioni economico-sociali erano state una demercificazione (o socializzazione, come la definiscono Giovanni Arrighi e Beverly Silver).

Add comment

Submit