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Ecologia… borghese

di Gilles Dauvé

III episodio della serie: Pommes de terre contre gratte-ciel, apparso su ddt21.noblogs.org ; dicembre 2020

Image 00oi5r1Per quanto una piccola minoranza di dirigenti politici di questo mondo ostenti il proprio scetticismo riguardo ai cambiamenti climatici, la maggior parte di essi pretende di essere ecologista: all’ONU, in Vaticano, a Davos, all’università e nei media, dalla destra – incluse certe tendenze dell’estrema destra – all’estrema sinistra… tutti ecologisti. L’ecologia è parte integrante dell’ideologia dominante del XXI secolo.

 

1. Grida d’allarme e consenso

Nel 1961, l’Europa occidentale, alla quale si unirono successivamente anche il Giappone e gli Stati Uniti, si era data un organismo incaricato di promuovere il mercato, la produttività e il liberismo: l’OCSE.

Nel 1972, il «Rapporto Meadows», richiesto dal Club di Roma, che rappresentava un largo ventaglio delle élite economiche, politiche e scientifiche occidentali, metteva in evidenza le conseguenze che lo scarto crescente (e inevitabile) tra l’incremento demografico e la diminuzione delle risorse disponibili, avrebbe provocato. I limiti dello sviluppo1 fu un bestseller mondiale.

Nel 1988, la creazione di un organo di riflessione sui problemi ecologici, il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC), segnala un rovesciamento di prospettiva. La preoccupazione prioritaria non è più la mancanza di risorse (di risorse fossili, in particolare), ma il fatto che le si sfrutti troppo e che si mettano in pericolo gli equilibri indispensabili tanto alla natura quanto alla perpetuazione del mondo capitalistico.

Nel 2006, Nicholas Stern, ex-vicepresidente della Banca Mondiale, metteva in guardia: «Quando gli individui non pagano per le conseguenze delle proprie azioni, ci troviamo di fronte a un fallimento del mercato». Occorrerebbe che le imprese e ciascuno di noi, pagassero un po’ di più adesso, per non dover pagare molto di più in un avvenire prossimo: Stern stimava il costo dell’inerzia rispetto al cambiamento climatico tra il 5 e il 20% del PIL mondiale annuo, contro l’1% nel caso in cui si avesse reagito subito.

Come i calcoli contenuti nei rapporti precedenti, anche quelli di Stern sono contestati, ma la borghesia ha inteso la lezione. Il big business non è più cieco di fronte alla crisi climatica, che spera di risolvere con una crescita rinnovata, differente da quella dei «Trenta Gloriosi»: essendo ormai «ecoresponsabile», la tecnologia di domani rimedierebbe ai guasti di quella di ieri. I borghesi ammettono che il modo di produzione capitalistico pone un problema… a condizione di considerarlo anche la soluzione.

 

2. Mercificare per salvaguardare

Il ragionamento di Stern è conforme alla logica capitalistica: se le imprese emettono anidride carbonica è perché lo possono fare gratuitamente, o comunque pagando troppo poco; affinché riducano drasticamente le emissioni, dobbiamo fare in modo che paghino in proporzione.

Niente di strano: se la mercificazione del mondo tende a inglobare tutto, l’azione antinquinamento (terapeutica o preventiva che sia) non fa eccezione. Il capitalismo mette a profitto praticamente ogni cosa: il disinquinamento risponde a un bisogno solvibile, si traduce quindi in un’attività redditizia, e i riformatori come Stern considerano logico e ragionevole fare del «diritto di inquinare» una merce nel quadro di una «borsa dell'anidride carbonica». Nella pratica, ogni impresa riceve o acquista delle quote scambiabili: se riduce le proprie emissioni, potrà vendere la propria eccedenza di quote ad altre imprese. Sullo stesso modello, si prospetta di dotare ciascuno di noi di una «carbon card» (oggi su base volontaria, domani obbligatoria) con una quota individuale annua di credito che si riduce in seguito a determinati acquisti, anche in questo caso con la possibilità di acquistare crediti o vendere quelli che si sono risparmiati. L’inquinamento verrebbe monetizzato, e il suo impatto negativo registrato nei conti pubblici e privati, allo stesso modo che nel bilancio delle imprese. Fin dalle sue origini il modo di produzione capitalistico ha cercato lo «sviluppo sostenibile» che gli conviene, e la sua inclinazione naturale è quella di correggere i difetti del mercato attraverso il mercato stesso: oggi, si tratta di rendere l’impresa virtuosa tassandola se produce troppa anidride carbonica, o premiandola se ne produce in misura sufficientemente bassa. Il capitalismo realizza e realizzerà dei «risparmi», come ha sempre fatto. Quando l’Unione Europea vanta il successo del suo «sistema di limitazione e di scambio»2, annunciando per il 2020 una diminuzione del 21% delle emissioni di anidride carbonica nei 31 paesi coinvolti rispetto al 2005, il dato probabilmente è contestabile, non la realtà di un certo «progresso». Ma se globalmente l’effetto-serra si accentua, è perché simili progressi non sono all’altezza del problema.

 

3. Quanto vale un oceano?

La quantificazione sistematica discende dall’imperativo della produttività. Alcuni dirigenti di Google spiegano di aver fondato la loro impresa «sulla scienza della misura» e di sforzarsi di «quantificare ogni cosa». La novità consiste nell’includere nei calcoli della redditività finanziaria, parametri che finora erano stati trascurati: fattori umani, naturali, e perfino sociali, ma anch’essi ridotti a numeri. Nel capitalismo, attribuire un valore mercantile agli oceani, appare logicamente come il mezzo migliore per proteggerli, sfruttando razionalmente le loro risorse senza esaurirle. Quando il WWF valuta il «patrimonio oceanico» in 24.000 miliardi di dollari, e afferma che un «prodotto marino lordo», calcolato sul modello dei PIL nazionali, farebbe degli oceani la settima economia mondiale, con una produzione di beni e servizi per 2.500 miliardi (nel 2018, il PIL francese ammontava a circa 2.800 miliardi), tiene il genere di discorso che i capitalisti non faticano a capire. Basterebbe contabilizzare lagune, foreste, barriere coralline e mangrovie come fattori produttivi, e integrare il loro costo nel bilancio delle imprese e degli Stati, per costringere gli uni e le altre a impiegarle con parsimonia. Resta da vedere se, e in quale misura, questo discorso si tradurrà in realtà.

Quantificare il qualitativo – questo è il modo di produzione capitalistico, e questo è «il valore»: ricondurre tutto a uno stesso elemento, a un dato comune, e misurabile in quanto comune. «Ciò che non si conta non conta, e inversamente ciò che si può misurare è passibile di miglioramento», spiega un consulente in un articolo che – veniamo informati – può essere letto in tre minuti. Di conseguenza, tutto deve poter essere ridotto a un rapporto quantificabile costi/benfici. Il Bhutan misura il «benessere nazionale lordo»; l’ONU, la felicità mondiale; e la morte viene valutata in dollari. La Banca Mondiale e i riassicuratori si allarmano per l’aggravamento delle catastrofi naturali dovute al cambiamento climatico, che tra il 1980 e il 2012 sarebbe «costato» 2,5 milioni di persone, cioè 3.800 miliardi di dollari (al lettore, il compito di calcolare il prezzo di un essere umano).

 

4. Tecnica miracolosa

Aggiungere l’ecologia all’economia, compensare con la prima le tare della seconda: è sufficiente, per fare ciò, assimilare il Pianeta a una macchina produttiva, e ripararla come fosse un motore su di giri. I congegni tecnologici non mancano.

Per mezzo di migliaia di specchi dispiegati nello spazio, alcuni geo-ingegneri sperano di poter regolare la quantità di energia solare che raggiunge la Terra. Altri immaginano di ottenere energia «libera» mediante l’idrolisi, che produce idrogeno, o per mezzo di generatori capaci di produrre più energia di quanta ne consumino; oppure, ancora, attraverso agro-carburanti non più derivati dalle barbabietole o dall’olio di palma, ma dalle alghe. Si sperimenta egualmente l’interramento e lo stoccaggio di CO2 nelle profondità della Terra, un modo semplice per insabbiare il problema.

L’ecomodernismo (detto anche post-ecologismo o post-ambientalismo) è esemplificato dal Breakthrough Institute («Istituto della Rottura», fondato nel 2007), promotore di un’energia nucleare sicura e a buon mercato, e di un’agricoltura industriale, unica soluzione che permetterebbe di nutrire 10 miliardi di persone. L’ecologismo ha la sua frangia pro-nucleare, poiché si tratterebbe di un’energia «pulita»: cifre alla mano, i suoi adepti sostengono che, anche tenendo conto di Chernobyl, le centrali nucleari causano in definitiva meno morti e malati del carbone.

Finanziati da padroni miliardari, questi ricercatori apprendisti stregoni fanno venir voglia di riprendere l’appello lanciato nel 1958 dai surrealisti a «svuotare i laboratori»3. Solo una frazione delle loro proposte vedrà luce, ma nella misura in cui verranno realizzate, alimenteranno la religione della scienza e la fede nell’onnipotenza della tecnica, tanto più stupefacenti quanto più le loro «prodezze» vanno oltre la comprensione dei comuni mortali. Qualche millennio fa, le decine di migliaia di fellah4 deportati per costruire le piramidi, avevano almeno un’idea dei procedimenti di costruzione. Per l’uomo moderno, la «scheda elettronica» del suo frigorifero resta un mistero impenetrabile.

 

5. Energia, parola magica

Sostituendosi a crisi energetica, l’espressione «transizione energetica» lascia pensare a una situazione sotto controllo. Ogni settimana viene annunciata una nuova tecnica capace di diminuire un pochino le emissioni di gas-serra. Dato che il petrolio (che oggi assicura ancora un terzo della produzione mondiale di energia, più del carbone) sarebbe in via di esaurimento – o comunque costerebbe più caro in futuro – si starebbe ormai andando verso il solare, l’eolico e le altre energie «rinnovabili».

Innanzitutto, questa «svolta energetica» non mette fine al nucleare, che resta una componente minore della produzione di energia in alcuni paesi (Stati Uniti), regredisce in altri (Germania), ma rimane preponderante in Francia, e si sviluppa in Cina. In secondo luogo, è falso affermare che dopo essere passata dal legno al carbone, e poi dal carbone al petrolio e al nucleare, l’umanità rinuncerebbe oggi gradualmente alle energie fossili in favore delle produzioni «verdi». Le fonti di energia si sommano e si integrano reciprocamente, piuttosto che sostituirsi le une alle altre. Nel 2018, la produzione mondiale di energia elettrica era garantita per il 64% dai combustibili fossili, per il 10% dal nucleare e per il 26% dalle energie rinnovabili.

Abbigliate oggi di tutte le virtù, le fonti rinnovabili continuano ad aumentare in termini relativi, ma in una misura del tutto insufficiente a rimediare ai danni ecologici presenti e a quelli prevedibili. La sete di energia è tale, che occorre fare appello ai combustibili fossili per poter integrare le fonti rinnovabili, le quali funzionano solo a intermittenza (dal 25 al 45% per il solare e l’eolico). Peggio ancora, il «risparmio energetico» (Amazon si è impegnata a raggiungere le «emissioni zero» entro il 2040) alimenta una «crescita» che aggrava i problemi che si suppone esso dovrebbero risolvere: ipertrofia industriale (agroindustria inclusa), urbanizzazione accelerata, modo di vita gadgetizzato e mobilità incessante. Si confrontano incessantemente i vantaggi e gli inconvenienti di misure che sono incapaci di risolvere nella sostanza il dramma climatico, ma raramente ci si interroga sul bisogno di energia.

L’elettricità, in virtù della sua fluidità, è risulta perfettamente adeguata a un sistema sociale in cui regnano la produzione ottimale e la circolazione massima di valore. La produzione di elettricità è più che triplicata tra il 1973 e il 2016 (mentre il consumo totale di energia, nelle sue varie forme, è raddoppiato nello stesso periodo). Inoltre, è l'energia che meglio si adatta agli usi che impone un modo di vita sempre più diffuso, nei paesi ricchi come in quelli poveri, in quanto può essere stoccata e trasportata individualmente in piccole quantità: al giorno d’oggi, è difficile vivere senza pile o batterie a Nairobi come a Vilnius.

È inutile opporre il potenziale delle energie rinnovabili all’assurdità tecnica delle scelte capitalistiche, perché il modo di produzione capitalistico non cerca la tecnica più efficiente dal punto di vista termodinamico (e ancor meno dal punto di vista umano), ma quella più redditizia. Se un’impresa fa trasportare [i diversi componenti necessari alla produzione del, ndr] suo yogurt alle fragole per 9.000 km, vale a dire tredici volte la distanza tra il luogo in cui viene prodotto e quello in cui viene consumato, è perché ha interesse a farlo5. E se l’agricoltura produttivista investe sette calorie per ottenerne una soltanto, è perché, dal punto di vista dell’agro-business, questo spreco non è tale, ma è la migliore fonte di profitto che esso abbia trovato. Per l’esperto di energia e il padrone, i criteri di redditività non sono gli stessi – ma è il secondo a comandare.

L’elettricità, d’altronde, non è una fonte ma una forma di energia, e ce ne vuole già molta per produrne. Se è vero che la parte delle rinnovabili (ancora modesta: circa un quarto del totale) continua a crescere, e i dispositivi elettrici consumano sempre meno energia, è altrettanto vero che gli impieghi dell’elettricità proliferano, con una pletora di apparecchi, o di protesi. «L’elettricità sarà l’energia del XXI secolo», annuncia Total. Schermi, ma anche termostati, allarmi, videocamere, tapparelle elettriche, telecomandi, automatismi di ogni sorta, «case smart»; senza dimenticare che pile e batterie si ricaricano… con energia elettrica (su un miliardo di africani, la metà possiede un telefono cellulare, quando 700 milioni non hanno l’elettricità in casa). L’efficienza energetica porta con sé un aumento del consumo: il «futuro elettrico» che ci viene promesso, non avrà molto effetto sulle emissioni di anidride carbonica.

 

6. Dismisura & mezze misure

Nei progetti di espansione delle centrali a carbone di «nuova generazione», poco inquinanti, di pannelli solari, di centrali eoliche o di veicoli elettrici, c’è una parola che ricorre raramente: industria. Poiché essa ricorderebbe fin troppo che tutto ciò presuppone e alimenta lo sviluppo di una produzione industriale già in aumento. Occorre energia per estrarre i metalli e trasportarli su camion o navi cargo. Le «emissioni zero» sono un’utopia in un mondo che continua a produrre acciaio, cemento e plastica per costruire fabbriche, edifici, strade, porti, aeroporti, e a fabbricare i veicoli che vi circolano. Così come serve energia per ottenere energia, occorre produrre per rimediare ai danni della produzione. All’inquinamento industriale si aggiunge l’industria del disinquinamento, e la moltiplicazione dei rifiuti genera l’attività che li «valorizza».

Quanto al riciclo, che d’altronde ha una portata assai minore di quanto si pretende, esso si scontra col fatto che più i sistemi di fabbricazione, i mezzi di trasporto, gli oggetti e i servizi a contenuto tecnologico diventano complessi (un automobile incorpora oggi svariate decine di dispositivi elettronici), più difficile diventa l'«economia circolare», vale a dire il riciclo. Molti dei metalli impiegati nelle nuove tecnologie non sono riciclabili che in una piccola percentuale.

E allora, a mo’ di compensazione, questo mondo snaturato, lo si ri-naturalizza creando serbatoi di stoccaggio naturale di CO2: riforestazione, resurrezione di praterie, colture «bio», reintroduzione di siepi - e, in città, rivegetazione di tetti, marciapiedi e parcheggi, che ha come principale effetto quello di rallegrare i cittadini.

Il settore del green business, potenza in ascesa, agisce sia in concorrenza che in simbiosi con gli interessi minerari e petroliferi: Total investe in misura crescente nelle rinnovabili. La Scozia deve quasi l’80% del suo consumo di energia elettrica ai venti e alle maree, che intorno al 2030 copriranno – si spera – il 50% dei suoi consumi energetici totali. Altri paesi, come la Danimarca, seguono un’evoluzione simile. Potremmo citare altrettanti casi particolari, incontestabili e destinati a svilupparsi; ma affinché essi si estendano all’insieme, o anche solo alla maggior parte del pianeta, bisogna innanzitutto che le immense trasformazioni delle infrastrutture industriali necessarie alla «ecologizzazione» siano davvero possibili, vale a dire redditizie. Economia circolare, «riparabilità», riciclo, agricoltura rigenerativa, accorciamento delle filiere, finanza sostenibile e sociale… tutta la panoplia della «responsabilità sociale delle imprese» (RSI) si applica solo se – come ammette una società di consulenza in RSI – essa conduce a una situazione win-win, o detto più chiaramente: a degli utili soddisfacenti per gli azionisti. Lasciamo la parola al nuovo sindaco ambientalista di Lione: «Il mondo delle imprese oggi si interessa all’ecologia perché ha capito che questo è l’avvenire».

* * *

Come anticipato da Bordiga nel 19546, l’ecologia assimila ogni cosa a capitale, afferma l’esistenza di un «capitale naturale», e «tratta il globo come capitale», o come «bene fondiario della società […] anonima per azioni» che costituirebbe la specie umana. Contraddizione in termini: un capitale esiste solamente per essere valorizzato, e non sarà salvaguardato che nella misura in cui questo non ostacoli la sua valorizzazione. Il borghese pratica l’ecologia alla stessa maniera del conducente di un’automobile che schiaccia contemporaneamente il freno e l’acceleratore.


Note
1 I limiti dello sviluppo: rapporto del System Dynamics Group, Massachusetts Institute of Technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell'umanità, Mondadori, Milano 1972. [ndt]
2 Cfr. la Bibliografia in appendice al testo. [ndt]
3 Smascherare i fisici, svuotare i laboratori, è il titolo di un volantino a firma «Comitato per il controllo antinucleare» diffuso a Parigi nel febbraio 1958. Qui è possibile leggere il testo del volantino: https://www.resistenzealnanomondo.org/necrotecnologie/smascherare-fisici-svuotare-i-laboratori/. [ndt]
4 Fellah: termine arabo che designa il contadino, generalmente proletarizzato o proprietario di un piccolo appezzamento. [ndt]
5 Cfr.: https://www.lemonde.fr/le-rechauffement-climatique/article/2009/12/10/l-objet-du-jour-le-yaourt-par-terra- eco_1278944_1270066.html.[ndt]6 Amadeo Bordiga, Mai la merce sfamerà l’uomo, Iskra, Miklano 1979, p. 149. [ndt]
6 Amadeo Bordiga, Mai la merce sfamerà l’uomo, Iskra, Miklano 1979, p. 149. [ndt]

Bibliografia
Commissione Europea, Sistema per lo scambio delle quote di emissione dell'UE (ETS UE).
WWF, Vie des océans. Préserver les systèmes marins.
Pr oduction d ’éner gie da ns le mond e, 2012 .
La pr oduction m ond iale d’électricité: une empr einte -matière en transition, 2018.
L’éner gie dans le mond e.
- Andreas Malm, Fossil Capital: The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming, Verso, Londra
New York 2016.
Michael Jakob e Jérôme Hilaire, Unburnable Fossil-Fuel Reserves,«Nature», 2015.
Agence de la Transition Ècologique (ADEME), La Face cachée du numérique, 2018.
Agence de la Transition Ècologique (ADEME), Le Revers de mon look.
- Association négaWatt, Scénario négaWatt 2017-2050, gennaio 2017 (esempio di ecologismo riformatore).
Heather Rogers, Green Gone Wrong. Dispatches from the Front Lines of Eco-Capitalism: How Our Economy is Undermining the Environmental Revolution, Verso, Londra – New York 2013. (L’esposizione di Heather Rogers sottolinea piuttosto l’assenza di una tale rivoluzione).
Sulla crisi capitalistica contemporanea:
Gilles Dauvé, De la crise à la communisation, Entremonde, Parigi 2017, cap. IV.
Bruno Astarian e Robert Ferro, Le Ménage à trois de la lutte des classes. Classe moyenne salariée, prolétariat et capital, Éd. de l’ Asymétrie, Tolosa 2019, cap. IX.

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