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gliasini

Ogni luogo contiene il pianeta

di Renato Galeotti

01 1067x1536Sul vocabolario Treccani leggiamo che il sostantivo “ambiente” deriva dal latino “ambiens ambientis” participio presente di “ambire”, che significa “andare intorno, circondare”. Insomma, l’ambiente è ciò che ci circonda. Ma quanto da vicino ci circonda? Cosa abbiamo in mente, quando parliamo di ambiente? Il globo terracqueo, oppure l’angolo di mondo su cui gettiamo il nostro sguardo ogni giorno? Non ce la possiamo cavare rispondendo: “tutti e due”. Troppo diverso è il rapporto che intratteniamo con il luogo e con il mondo intero per poterli assimilare. Gli spazi in cui viviamo hanno il colore delle foglie, l’odore della terra, il rumore del mare, il pianeta, invece, è un’entità sfuggente, un racconto, un’elaborazione dell’intelletto. Mentre il luogo entra in relazione con i nostri sensi, la Terra è troppo grande per essere abbracciata; per questo possiamo soltanto immaginarla. O per lo meno, così era fino a quando non abbiamo visto la Terra tutta intera, da lontano.

Il 7 dicembre 1972 l’equipaggio dell’Apollo 17 scatta “Blue Marble”, la Biglia Blu, la più nota tra le foto del nostro pianeta visto dallo spazio. Questa immagine rappresenta il simbolo di un passaggio epocale: da quel momento l’ambiente globale inizia ad imporsi come visione dominante; la Terra, che fino ad allora era percepita come la somma di una miriade di territori modellati dagli uomini, diventa il riferimento unificante per tutta l’umanità. Non sono più i luoghi a sommarsi per produrre l’intero, ma l’intero che contiene i luoghi. Si tratta di un passaggio che coinvolge anche il nostro esistere e la nostra maniera di costruire le relazioni con il circostante: la conoscenza cessa di passare attraverso i sensi e gli umani iniziano a vedere se stessi con occhi esterni. Il punto di vista corretto non è più quello di ognuno di noi ma un altro, esterno e lontano.

Nasce, insomma, una nuova visione dell’ambiente che trascende la nostra percezione sensoriale e si accompagna a una visione di noi come abitanti non più di un luogo specifico. Tutto ciò non si pone necessariamente in contrapposizione con la maniera precedente, ma senza dubbio apre orizzonti inediti. Il processo in atto non investe allo stesso modo tutti gli abitanti del pianeta: esiste una larga fascia di umanità che ancora continua a costruire il proprio quotidiano e il proprio futuro intorno a territori noti e circoscritti, ma c’è una fascia ampia e in rapida crescita che perde i riferimenti territoriali e si trova ad interpretare perfettamente il nuovo ruolo di abitante di una realtà che travalica le capacità percettive e relazionali. L’uomo abitante del pianeta non sembra avere strumenti per opporsi a quell’occhio che lo guarda dall’alto.

Nello stesso momento storico in cui una fotografia ci mostra la nostra esistenza da una nuova prospettiva esterna e lontana, si accelerano e si impongono processi già avviati da alcuni anni: un numero sempre maggiore di persone abbandona il territorio degli avi e va a popolare le periferie di agglomerati urbani sempre più grandi, sovrapponendo il proprio ambiente a quello di classi borghesi e operaie già urbanizzate; il consumo di prodotti non sembra avere più alcun nesso con la produzione e i nuovi umani senza territorio subiscono passivamente la nuova situazione perdendo anche quella relazione diretta con la storia degli oggetti quotidiani che, da sempre, aveva rappresentato il fondamento di ogni costruzione sociale. Si tratta di passaggi che minano alle basi l’autonomia delle comunità e costruiscono la dipendenza da un sistema unico. Il territorio su cui si vive cessa di essere il momento aggregante di collettività; le nuove community si associano attorno a riferimenti trans-locali.

La rivoluzione informatica, in questo caso, non fa altro che consolidare un processo di allontanamento dal circostante ormai ben avviato. La situazione inedita produce un mutamento del rapporto tra individuo, collettività di prossimità, conoscenza e, soprattutto, capacità di produrre conoscenza in modo originale e specifico. L’allontanamento dal luogo e dai sensi porta con sé una serie di nuove evidenze, come: 1) la perdita del nesso tra azioni e conseguenze; 2) la subordinazione del locale al globale; 3) la scomposizione del complesso; 4) la dipendenza dagli esperti; 5) il ricorso a numeri, tabelle e grafici per raccontare l’ambiente.

Provo a spiegarlo meglio.

1) La storia dell’uomo è la storia della ricerca di un equilibrio con i luoghi in cui i popoli hanno costruito la propria esistenza: equilibrio con le foreste, con le falde idriche, con gli animali e con tutto ciò che insiste su quel territorio. Ogni eccesso viene pagato. L’uomo senza luogo può, invece, vivere ignorando quello che ha intorno, sovrasfruttando ambiente e persone, consumando senza mai sentirsi parte di una struttura integrata che lo costringe a fare i conti con i limiti imposti dalla natura. L’energia che utilizziamo, i prodotti che acquistiamo ci mettono oggi in connessione con spazi di mondo che non conosceremo mai e questo ci consente di ignorare le conseguenze delle nostre azioni.

2) Oggi i fenomeni globali vengono generalmente percepiti come centrali, mentre quello che ci sta più vicino appare periferico e secondario. Si tratta di un capovolgimento copernicano della visione che ha accompagnato la vita degli esseri umani sulla Terra dalla preistoria fino a pochi decenni fa, quando il reale, il rilevante era quello che investiva l’orizzonte di riferimento. Adesso il singolo territorio non vale in sé ma in quanto elemento di un quadro planetario o, per lo meno, di un quadro disegnato per macro-aree. Nessun luogo è tanto importante da poter gridare la propria voglia di esistere, così deve accettare il ruolo che la pianificazione globale gli attribuisce: qua una discarica, là alberi da mettere a dimora, altrove una linea ferroviaria ad alta velocità o un parco eolico. Il parziale vale per la funzione che ricopre nella composizione globale. Il luogo, così come i suoi abitanti, diventa un tassello all’interno di piani eterodiretti.

3) Mentre l’ambiente locale è sempre stato conosciuto e vissuto nella sua indissolubile unità, dove terra, acqua, aria, piante, animali e umani circondano la nostra vita in un abbraccio congiunto, la vastità del pianeta e la sua inaccessibilità ai sensi pongono l’essere umano di fronte alla necessità di una scomposizione conoscitiva. Così, mentre l’abitante del luogo sa bene che non esiste problema che riguardi un singolo elemento del suo mondo, nell’ambientalismo globale si diffonde l’abitudine di scomporre l’intero per affrontare i problemi separatamente. Naturalmente i ricercatori che si occupano di ambiente sono consapevoli di trovarsi all’interno di un sistema totalmente interconnesso e interdipendente ma, quando gli argomenti diventano dibattito pubblico, la multiformità lascia spazio a semplificazioni e questo ci consegna a confronti inevitabilmente parziali e quindi impenetrabili a visioni autonome.

4) Mentre l’abitante del luogo partecipa al processo di costruzione dell’ambiente, da cui trae le proprie esperienze e le conseguenti elaborazioni, il nuovo abitante globale si trova immerso in uno spazio che non è in grado di controllare e da cui non riesce a trarre conoscenze in maniera autonoma. Il singolo e le comunità, ovunque siano situate, diventano il terminale passivo di azioni e informazioni generati altrove. Così l’uomo non può più contare su quelle che, con Illich, possiamo chiamare tecnologie conviviali (*1), e di conseguenza si diffonde l’abitudine di affidarsi a verità esterne e di rivolgersi ai cosiddetti “esperti” in grado di maneggiare tecnologie universalmente valide che tendono ad uccidere le diversità nate nei luoghi e alimentano la sensazione di ineluttabile dipendenza da entità da accettare a scatola chiusa.

La scienza e la tecnologia universali potranno anche dare risposte a questioni di portata globale, ma sicuramente allontanano gli umani dalla coscienza di sé e della propria terra.

5) Nel momento in cui si è iniziato a sovrapporre l’idea di ambiente a quella di pianeta Terra, abbiamo perso la capacità di parlare del nostro rapporto con la natura senza far ricorso a sequenze di numeri, grafici, tabelle, diventati necessari per scomporre la complessità dandogli un significato. I numeri descrivono la percentuale di gas clima-alteranti contenuti nell’aria, l’acidificazione dei mari, le tonnellate di rifiuti dispersi nell’ambiente. Non ne avevamo bisogno quando l’ambiente era l’erba o l’asfalto su cui poggiavamo i piedi tutti i giorni: il “circostante” era il contenitore della quotidianità e di mille storie che raccontavano gioia, dolore, rispetto, speranza, paura. Grafici e tabelle sono diventati strumento di comunicazione e linguaggio comune quando la realtà da descrivere è uscita dalla portata dei nostri sensi.

Lo so che queste osservazioni possono apparire capziose o ininfluenti, ma credo che possano aiutarci a definire il retroterra su cui si inserisce la questione ambientale nelle prime decadi del terzo millennio.

Nel settembre 2009, sulla rivista Nature, viene pubblicato “A safe operating space for humanity”, un articolo contenente gli esiti di una ricerca condotta da un gruppo di studio diretto dallo svedese Johan Rockström. La tesi di fondo è molto chiara: il pianeta Terra ha goduto, negli ultimi 10.000 anni di un “momento” di relativa stabilità che ha favorito lo sviluppo ed il consolidamento della specie umana.

A partire dalla rivoluzione industriale, questa situazione è stata messa in pericolo. Per cercare di non compromettere una stabilità che senza l’intervento umano sarebbe andata avanti ancora per migliaia di anni, il gruppo guidato da Rockstrom propone uno schema analitico fondato su quelli che vengono definiti “planetary boundaries” (limiti planetari o confini planetari). “Questi limiti descrivono lo spazio entro cui l’umanità può operare senza compromettere la stabilità del sistema terrestre”. In particolare, il gruppo di lavoro individua nove processi che coinvolgono il pianeta nel suo complesso e ne definisce alcuni limiti, superati i quali si rischia di innescare cambiamenti irreversibili. I nove processi selezionati sono: “cambiamento climatico, perdita di biodiversità, interferenza con il ciclo dell’azoto e del fosforo, assottigliamento dello strato di ozono nella stratosfera, acidificazione degli oceani, utilizzo dell’acqua, sfruttamento del suolo, inquinamento chimico, diffusione di aerosol nell’“atmosfera” (*2).

La ricerca ha il grandissimo merito di affrontare la complessità del “sistema Terra”, avendo ben presenti le interrelazioni che legano i diversi elementi in gioco, ma cercando di capire se sia possibile individuare punti critici in certe aree specifiche. In effetti, Rockstrom e i suoi colleghi ritengono che in tre dei nove “confini planetari”, quelli che riguardano la biodiversità, il clima e il ciclo dell’azoto, si sia già superato il livello di guardia.

Queste conclusioni rappresentano il punto di partenza per approfondimenti portati avanti da altri ricercatori negli anni successivi. Oggi si ritiene che, nel caso della biodiversità e del ciclo di azoto e fosforo i limiti siano stati ampiamente superati, mentre per il cambiamento climatico e anche per lo sfruttamento del suolo, ci si trovi in una fascia di alto rischio.

Non entrerò qui nel dettaglio del dibattito scientifico su questi temi. Mi interessa di più capire cosa accade quando il Sistema Terra diventa confronto politico e senso comune, portandosi dietro le inevitabili semplificazioni.

Tra i diversi punti critici tutti egualmente importanti messi in luce dalla ricerca, ce n’è uno che pare essere più “uguale degli altri” e perciò si impone con più forza all’attenzione pubblica. Mi riferisco all’aumento della temperatura terrestre che viene oggi presentato come la quintessenza di ogni problema ambientale. Il cambiamento del clima, come abbiamo visto, non è l’unico problema con cui l’umanità deve confrontarsi se vuole mantenere le condizioni di relativa stabilità che hanno caratterizzato gli ultimi 10.000 anni ma è, probabilmente, quello più facilmente restituibile ai miliardi di abitanti “virtuali” che oggi popolano il nostro pianeta.

Ad uno sguardo disattento, il riscaldamento del pianeta appare l’evento che più di ogni altro inchioda il modello sviluppista alle sue responsabilità e per questo dovrebbe far tremare le vene e i polsi ai potenti. Basta, però, riflettere un po’ per accorgersi che è vero il contrario. Se da un lato l’aumento della temperatura fornisce una rappresentazione immediata delle conseguenze del produttivismo industrialista, dall’altro proprio la dimensione planetaria del problema offre una giustificazione allo stesso modello economico globale. Il sistema vigente risulta più che mai senza alternative se l’obiettivo che ci poniamo è quello di contenere l’aumento della temperatura media terrestre entro tot. gradi rispetto all’attuale, di qui al 2050. Una progettualità globale di questa portata può essere affrontata soltanto facendo riferimento alle istituzioni internazionali, alla logica misurativa, alle trattative tra i grandi della Terra, ai progressi della scienza e alla loro applicazione.

Le istituzioni parlano di cambiamento climatico perché sanno che quello è il loro campo specifico, il campo dell’omologazione che passa attraverso lo sviluppo. Il confronto su questi temi è invaso e soffocato dai numeri più di qualsiasi altro dibattito. Tabelle, grafici, sfilze di dati, scenari futuri più o meno probabili, magari conditi con il racconto di qualche evento metereologico estremo.

Cosa possiamo mai aggiungere noi attivisti a questa cornice preconfezionata? Dobbiamo presentare nuovi dati? Sottolineare con maggior forza quelli già noti? Chiedere di accorciare i tempi di risposta? Al limite, aggiungere la testimonianza di comportamenti individuali attenti al futuro del pianeta? Il fatto è che anche i gesti di civiltà, che si manifestano attraverso le cosiddette buone pratiche o il consumo consapevole, sono il portato estemporaneo di un pensiero eterodiretto, non il frutto di un’elaborazione autonoma che scaturisce dall’esperienza vissuta. I cittadini globali, che oggi esibiscono con orgoglio i loro acquisti verdi, sono spesso i soliti che fino a pochi anni fa consideravano il consumo un valore sociale in quanto motore dell’economia: ricordate la pubblicità in cui tutti ringraziavano il consumatore che rientrava a casa con il sacchetto del supermercato?

I “movimenti dal basso” continuano a rivendicare la propria alterità ma in realtà, se l’argomento su cui ci si confronta è il cambiamento climatico, non possono far altro che innestarsi nel percorso tracciato dalle istituzioni, fornendo una collaborazione secondaria. Chi siede nelle stanze dei bottoni è ben felice di aprire tavoli di discussione a cui far partecipare associazioni e gruppi di pressione; non esiste niente di meglio che sentirsi appoggiati dall’opinione pubblica quando si dovranno scaricare i costi della transizione ecologica su fasce della popolazione più o meno definite. È per questo che i rappresentanti di organismi nazionali e internazionali fanno a gara nel tessere le lodi dei giovani che manifestano per il futuro del pianeta. Forse non è sul clima che i movimenti dovrebbero concentrarsi se intendono indicare alternative esterne alla logica dominante.

Spero di non essere frainteso. Non sto minimizzando la portata epocale della questione climatica e nemmeno il lavoro degli attivisti che lottano oggi per l’ambiente. So benissimo che le vertenze aperte sono articolate e multipolari: il richiamo sempre più pressante alla giustizia climatica dimostra come le rivendicazioni stiano diventando più attente e aderenti a uno scenario che non può escludere i risvolti sociali. Il fatto è, però, che alzando il vessillo del clima ci si getta in un agone che non contrappone i deboli ai potenti, ma descrive un conflitto tra poteri subglobali, tra macroaree, tra interessi economici e politici divergenti.

Qui sta il punto. Visto che i rappresentanti delle istituzioni internazionali non potranno comunque eludere la questione climatica, dovremmo avere il coraggio di “lasciarli soli”, per occuparci di lotte che riguardano più da vicino ogni popolazione che vuole difendere il proprio territorio… e naturalmente vuole difenderlo anche dalle conseguenze iniquamente distribuite del cambiamento climatico.

Le mie affermazioni possono essere interpretate come un favore ai negazionisti climatici; ne sono consapevole: si dirà che, mentre si pongono questioni di “lana caprina”, il pianeta continua a riscaldarsi. Ma siamo sicuri che accettare e rilanciare il confronto sul clima non significhi pregiudicare la possibilità che lotte più definite geograficamente vengano prese in carico? Accettando la logica che vede l’emissione di gas serra come il padre e la madre di tutte le questioni ambientali, ci imbattiamo in dichiarazioni raccapriccianti come quella dell’onorevole Alessia Rotta, presidente della Commissione Ambiente della Camera: “Per accelerare la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili il Parlamento italiano deve sconfiggere la sindrome Nimby (not in my backyard, non nel mio giardino) che troppo spesso ferma i nuovi progetti di eolico e solare nel nostro Paese” (*3).

È l’ambiente progettato a tavolino che si contrappone ai luoghi dell’esperienza reale; i rappresentanti delle istituzioni cercano una sponda negli ambientalisti senza territorio per insegnare il rispetto dell’ambiente a chi si batte per un territorio conosciuto attraverso i sensi. Inutile sottolineare come Alessia Rotta non esprima soltanto la posizione di una parte politica ma il senso comune degli individui fruitori dell’informazione omologata. Le persone che vivono il proprio territorio, rappresentano un fastidioso intralcio per una società fondata su abitanti di un mondo virtuale. Il sistema globale riesce ad accettare e assorbire qualsiasi cosa, ma le collettività senzienti che costruiscono la propria conoscenza in maniera autonoma, cercando riferimenti nella terra che calpestano, sono evidentemente un problema.

Ma non è finita qui: se da un lato si espongono i NIMBY al pubblico ludibrio in quanto nemici dell’interesse generale, dall’altro i grandi della Terra, riuniti a Glasgow, si accorgono dell’esistenza dei Popoli Indigeni e cercano di arruolarli per la difesa del clima. L’atteggiamento pare opposto, ma lo spirito centralista che lo alimenta è il medesimo.

Come è noto, durante la COP26, è stato firmato un accordo contro la deforestazione, denominato “Advancing Support for Indigenous Peoples’ and Local Communities’ Tenure Rights and their Forest Guardianship”. Nella dichiarazione si evidenzia “l’attività di custodia critica svolto dai Popoli Indigeni e dalle comunità locali nella protezione delle foreste tropicali e nel preservare i servizi ecosistemici vitali, e si riconosce il loro contributo globale nel contenere il cambiamento climatico, preservare la biodiversità e uno sviluppo inclusivo e sostenibile”; per questo ci si impegna a promuovere il loro “ruolo di guardiani delle foreste e della natura” (*4). I popoli indigeni vengono presentati come i veri custodi delle foreste e, in quanto tali, sentinelle del clima. Niente da obiettare: si tratta di un’evidenza innegabile. Non è, però, per questa peculiarità che dovremmo rispettarli e difenderli, ma perché hanno il diritto di esistere e la capacità di vivere in autonomia dalle logiche sviluppiste. Sono molto più che guardiani delle foreste: sono custodi di visioni autonome non omologate, persone che vivono e chiedono di poter vivere come sanno vivere; poi, inevitabilmente ma secondariamente, partecipando alla costruzione dell’equilibrio con i territori che abitano, tornano utili per il clima e per i piani che emergono dalle trattative internazionali. Assistiamo, così, ad un ribaltamento totale delle lotte indigene: in sordina, senza suscitare indignazione, uomini e donne insediati nelle foreste o in altri luoghi individuati come critici dal sistema globale, vengono assunti ad argine contro le derive di quello stesso sistema che, contemporaneamente, li sta condannando a perdere i propri riferimenti culturali. Il tutto diventa ancora più irritante e inaccettabile se accostiamo questo accordo sottoscritto alla COP26, con la proposta avanzata, pochi giorni prima, nella dichiarazione finale del vertice G20 di Roma: “Riconoscendo l’urgenza di combattere il degrado del suolo e creare nuove vasche di assorbimento del carbonio, condividiamo l’obiettivo ambizioso di piantare collettivamente 1.000 miliardi di alberi, concentrandoci sugli ecosistemi più degradati del pianeta” (*5).

Stiamo parlando di soluzioni interscambiabili? Possiamo scegliere tra la piantumazione di una quantità di alberi da destinare a uno spazio di globo qualsiasi e la foresta abitata da popolazioni che hanno edificato intorno ad essa la propria esistenza? Una comunità che crea i propri miti e costruisce la propria storia a partire dalla foresta con cui si trova a interagire è qualcosa di unico che non può essere riprodotto altrove; la messa a dimora di piante come risposta al cambiamento climatico spalanca le porte al “nonluogo ecologico”.

Soltanto i popoli che vivono ancora in simbiosi con la propria terra, e quelli che con disprezzo vengono chiamati NIMBY, hanno la capacità e la possibilità di restituire a tutti gli umani la necessità di un rapporto con il mondo reale. Portare all’estinzione i portatori di esperienze territoriali è il vero crimine; i gas clima-alteranti dispersi nell’aria sono soltanto una delle molteplici conseguenze di questo assolutismo monoculturale.

Se è vero che i rappresentanti delle istituzioni hanno il dovere di attivarsi per inserire la lotta al cambiamento climatico all’interno di una progettazione politica, è vero anche che noi gente, noi popolazione, noi abitanti dei luoghi abbiamo il diritto e anche il dovere di mobilitarci in difesa di territori reali, partecipando al mantenimento e alla ricostruzione di equilibri unici e originali.

Le lotte per un ambiente troppo grande per essere afferrato sono sicuramente sincere e appassionate, ma subiscono il senso comune del momento, quindi riescono a imporsi soltanto se e quando corrispondono ai canoni che interpretano lo spirito del tempo… e si tratta di canoni che possono anche scaturire da un confronto democratico, ma sicuramente non plurale perché frutto di un’unica visione totalizzante. Per questo, ogni gesto rivolto alla difesa del luogo che conosciamo non è manifestazione di chiusura, ma piuttosto un atto di amore verso tutto il pianeta: abitare il luogo è un passaggio imprescindibile per riappropriarsi dei sensi e riconquistare il significato quotidiano dei limiti entro cui è possibile muoversi. Solo vivendo il luogo e i suoi limiti avremo la possibilità di sottrarci alle future, o più che mai attuali, lusinghe del modello sviluppista che la prossima volta si presenterà sotto le sembianze dell’idrogeno blu, del nucleare verde o di altre imprevedibili sfumature di colore.


Note:
*1 Per la precisione, Illich si esprime così: “chiamo ‘società conviviale’ una società in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata con la collettività, e non riservato a un corpo di specialisti che la tiene sotto il proprio controllo” (I.Illich, La Convivialità, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1973, p.14).
*2 Rockström, Johan; Steffen, Will; Noone, Kevin; Persson, Åsa; Chapin, F. Stuart; Lambin, Eric F.; Lenton, Timothy M.; Scheffer, Marten; Folke, Carl; Schellnhuber, Hans Joachim; Nykvist, Björn; de Wit, Cynthia A.; Hughes, Terry; van der Leeuw, Sander; Rodhe, Henning; Sörlin, Sverker; Snyder, Peter K.; Costanza, Robert; Svedin, Uno; Falkenmark, Malin; Karlberg, Louise; Corell, Robert W.; Fabry, Victoria J.; Hansen, James; Walker, Brian; Liverman, Diana; Richardson, Katherine; Crutzen, Paul; Foley, Jonathan A. (2009). “A safe operating space for humanity”. Nature. Springer Science and Business Media LLC. 461 (7263): 472–475.
*3 La Repubblica 11 nov 2021. Luca Fraioli.
*4 COP26 IPLC Forest tenure Joint Donor Statement. Advancing Support for Indigenous Peoples’ and Local Communities’ Tenure Rights and their Forest Guardianship Glasgow COP26, November 2021.
*5 Dichiarazione finale del vertice del G20 di Roma (ANSA 31 ottobre 2021).

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Franco Trondoli
Friday, 25 February 2022 01:04
Molto bello ed istruttivo. Grazie..
Cordiali Saluti
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