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illatocattivo

Moriremo «green»?

A proposito di capitalismo verde

di Il Lato Cattivo

noluvbjlOgni modo di produzione implica rapporti storicamente determinati con un dato puramente fisico- biologico, un sostrato pre-sociale modificabile ma insopprimibile1. Da una diversa angolazione, si potrebbe anche affermare che i modi di produzione storici non sono mai (stati) altro che differenti varianti di un soggiacente rapporto con questa datità fisico-biologica, che include allo stesso tempo la natura non-umana e l'umanità come specie. In ogni caso, nel corso dei millenni, rapporti sociali di produzione determinati si sono instaurati, sviluppati e succeduti sulla base di un sostrato minerale, vegetale e animale, che questi stessi rapporti hanno trasformato in misura maggiore o minore a seconda dei casi.

Il modo di produzione capitalistico (MPC) non è il solo né il primo modo di produzione ad avere significative ricadute su questo sostrato. Semplicemente, tali ricadute assumono oggi, con questo modo di produzione, proporzioni e determinazioni qualitative inedite. È il nocciolo di verità contenuto nel concetto, per altri versi contestabile, di antropocene. Questo fatto si iscrive nella differenza essenziale che distingue il MPC dai modi di produzione precedenti: in questi ultimi, il plusprodotto non veniva sistematicamente e prevalentemente reinserito nel processo di produzione. Per i signori feudali, per le burocrazie statali del modo di produzione asiatico, per i patrizi della Roma antica, per le proto-classi delle società di cacciatori-raccoglitori del paleolitico superiore etc., l'elemento preminente nella gestione del plusprodotto è il suo dispendio. Viceversa, nel MPC l'elemento predominante è l'investimento, nella fattispecie l'investimento in capitale costante (mezzi di produzione e materie prime). Quando si parla di accumulazione del capitale, si parla essenzialmente di questo.

Ma da dove viene questa compulsione all'accumulo che Marx chiama Akkumulationszwang (Zwang = coercizione, costrizione), così pregna di conseguenze per il tema in oggetto? Come abbiamo già avuto modo di sottolineare in diverse occasioni, non è la sola concorrenza, ma – inscindibilmente – sono i limiti incessantemente posti dal lavoro vivo all'aumento dell'estrazione del plusvalore, a spingere il plusvalore estratto a convertirsi (per quanto mai integralmente) in capitale addizionale. Pertanto, il movimento espansivo del capitale dipende non dal funzionamento interno di uno soltanto dei due poli del rapporto sociale fondamentale (i.e. la concorrenza interna al polo capitalistico), ma dalla meccanica complessiva del rapporto stesso (i.e. la concorrenza e la lotta di classe). In questo quadro, che è quello della riproduzione normale del MPC, la resistenza opposta dal polo-lavoro non mira a nient'altro che a conservare e, se possibile, espandere il proprio fondo di consumo, ovvero ad appropriarsi di una parte relativamente più ampia del prodotto sociale. Precisazione, questa, che dovrebbe bastare a sgomberare il campo da facili ottimismi: la lotta di classe quotidiana e la causa ambientale non hanno alcuna vocazione naturale ad andare d'accordo. Tra un aumento salariale da spendere in prodotti nocivi e inquinanti, e un paniere di mezzi di sussistenza decurtato ma eco-sostenibile, l'operaio e l'impiegato sceglieranno generalmente il primo. La riproduzione su scala allargata del rapporto di classe si effettua realmente, e per entrambi i suoi due poli fondamentali, in opposizione e, se necessario, a detrimento della riproduzione della natura non-umana. Da un po' di tempo a questa parte, va di moda citare il famoso passo di Marx sul capitale come rapinatore delle due fonti della ricchezza sociale – la terra e il lavoratore – facendo come se il lavoro non fosse uno dei due poli del rapporto capitalistico, e come se quest’ultimo non implicasse la separazione del lavoratore dalla terra. Seppure «per interposta persona» (ovvero attraverso il rapporto col capitale), la separazione fra la terra e il lavoratore include la possibilità della sua degenerazione in antagonismo aperto.

Ora, che il processo d'accumulazione sconvolga una parte del sostrato fisico-biologico che lo sorregge, che essa ne risulti anche irreversibilmente danneggiata e impoverita – ciò non rappresenta in un primo tempo un problema per la marcia del MPC, e non lo costringe a riformarsi se non marginalmente, quando ciò inizia a pesare su branche o settori circoscritti. La redditività del capitale è innanzitutto redditività dei singoli capitali, e quel che più conta dal punto di vista del capitale individuale, è realizzare profitti superiori ai suoi concorrenti diretti – poco importa che il saggio di profitto medio della sua branca, o quello generale, sia alto o basso. Per quanto sia possibile postulare una soglia teorica oltre la quale la degradazione del sostrato fisico-biologico si ripercuoterebbe in maniera ad un tempo deleteria ed uniforme sulla redditività di tutti i capitali singoli, fintanto che questa soglia non viene oltrepassata (e ce ne vuole, come vedremo), tale degradazione – quand'anche raggiunga livelli considerati critici dall'opinione pubblica o dalla comunità scientifica – resta solvibile all'interno della concorrenza fra capitali: se induce costi supplementari per determinate imprese o intere branche della produzione sociale, queste vorranno ripartirli in seno al club della classe capitalista tutta oppure scaricarli sulle imprese o le branche ritenute maggiormente responsabili. Nella baruffa inter-capitalistica, si troveranno allora gli eco-sensibili, gli eco-moderati e gli eco-indifferenti: allo Stato, e agli Stati fra loro, l'onere e l'onore di trovare un compromesso al ribasso. Ma la degradazione del sostrato fisico-biologico crea anche nuove opportunità: produce nuovi bisogni e apre nuove prospettive di investimento. A destra e a manca, capitalisti di ogni risma si spremono le meningi per riuscire ad approfittarne. Alcuni pensano di aver trovato la formula per rifare il mondo, altri non disperano di trovarla, e altri ancora remano contro, convinti a torto o a ragione (dal loro punto di vista) che non tutto il male viene per nuocere. Allo Stato, ancora una volta, il compito di «trovare la quadra», e avanti così. I nostri quattro lettori non avranno difficoltà a riconoscere in questo schizzo impressionistico, lo stato dell'arte della cosiddetta transizione ecologica in Italia e nel mondo. Una transizione che avanza a passo di lumaca, ma non per questo manca di attirarsi gli strali degli oppositori.

Reimpostata così la questione, e preso atto del fatto che la transizione green resta, per ora, in buona parte un mero slogan2, si può con ciò escludere che una presa in carica più vigorosa e incisiva della questione ambientale possa farsi strada attraverso il frazionamento dei capitali e la fitta trama dei conflitti concorrenziali di cui vivono e periscono? In un momento in cui il conflitto russo-ucraino e le sue ramificazioni sembrano dover condurre alla progressiva rottura delle interdipendenze energetiche fra Europa centro-occidentale e Russia, viene da chiedersi se la transizione green, a fronte delle difficoltà a mettersi in moto sua sponte, non verrà imposta «per cause di forza maggiore» (quantomeno sul Vecchio Continente), salvo immaginare che si possano costruire nuovi gasdotti e rigassificatori ovunque. Ma il primo interrogativo ne sottende un altro, più fondamentale ancora: quello intorno alla supposta inconciliabilità fra l'imperativo capitalistico della massima estrazione di plusvalore e l'imperativo della preservazione del sostrato fisico-biologico non-umano. Che vi sia opposizione tra i due imperativi – come in precedenza affermato – è un conto; ma basta questo a negare la possibilità che la produzione capitalistica riesca a tenere conto del secondo imperativo pur continuando a perseguire il primo?

Per la gran parte dell'ecologismo odierno, non c'è preclusione di principio verso quest'idea, ma c’è soprattutto un colossale malinteso sul motore del cambiamento. Chi presenta lo Stato o la politica come il problema, li designa anche come la soluzione. È qui che si situa la congenita debolezza delle lotte che vertono intorno alla questione ambientale, la loro incapacità di dare impulso a trasformazioni di rilievo. Queste lotte si sviluppano e sono talvolta coronate da successo solo in contesti locali, intorno a obiettivi estremamente circoscritti, e a partire da determinanti altrettanto specifiche (generalmente la difesa della piccola proprietà o del tessuto economico locale). L'ideale della «difesa della natura» esiste forse nel cielo dell'ideologia, ma diventa qualcosa di reale solo quando è sospinto da specifici interessi materiali, messi sulla difensiva dalle «grandi opere» del grande capitale. Non appena l'ecologismo si disconnette dai contesti locali per tentare di situarsi ad un livello più generale, gli viene a mancare il terreno sotto i piedi. Non si tratta qui di rimproverare alle lotte ecologiste di essere ciò che sono, o di non essere ciò che non sono, ma di comprendere le ragioni per cui non pervengono a costituirsi in una vera lotta per le riforme, e a pesare realmente sui grandi orientamenti dello sviluppo capitalistico. È il problema delle mobilitazioni general generiche come le marce «per il clima». Ma è anche il problema dei partiti ecologisti, la cui offerta politica non «sfonda» (nemmeno in Germania) al di fuori di segmenti ristretti e ben delimitati del corpo elettorale.

Per la quasi-totalità della doxa «anticapitalista» o radicale, d'altro canto, la risposta è scontata: il capitalismo non sarà mai ecologico – secondo la formula di Gilles Dauvé, di cui abbiamo recentemente tradotto alcuni testi incentrati su tale insieme di questioni. Pur condividendo gran parte delle considerazioni di Dauvé, vorremmo, su questo punto preciso – e anche a costo di sconfinare un poco nella fantascienza o nella fantapolitica – instillare nei lettori il seme del dubbio, ed esortare alla cautela nei confronti delle posizioni eccessivamente unilaterali. Alcuni sono convinti che il MPC sia irrimediabilmente arrivato a fine corsa; altri lo vedono pronto a realizzare, da un momento all'altro, i sogni del transumanesimo. Gli uni e gli altri sembrano accordarsi sulla sua incapacità di farsi carico della questione ambientale. Ma ne siamo proprio sicuri?

Le analisi che sposano questo punto di vista hanno certo dalla loro quella che si chiama la forza dell'evidenza. Esse hanno buon gioco nel far valere l'aggravamento dei processi di degradazione del sostrato fisico-biologico non-umano e l'irreversibilità di alcuni di essi, come pure l'innegabile timidezza degli Stati nel prendere misure adeguate a rispondervi. In pochi, però, sembrano disturbati dalla visione che in qualche modo le sottende: se per l'ecologista il capitale è menefreghista per definizione, mentre lo Stato potrebbe muoversi nella giusta direzione (a condizione che ve ne sia la volontà politica), per l'«anticapitalista» sono condannati all'immobilismo tanto l'uno quanto l'altro. L'accento posto sull'inazione degli Stati, in relazione al surriscaldamento climatico, ad esempio (vedi COP 26 etc.), oblitera completamente il fatto che la dinamica del capitalismo è mossa in primo luogo dall'impresa – forza tutt'altro che conservatrice, almeno in linea di principio – mentre lo spartito delle politiche statali è per lo più di accompagnamento. Il keynesismo novecentesco non si è imposto per mezzo della dittatura del proletariato (ma per evitarla, semmai), e una qualunque politica riformista priva di sponde nel mondo imprenditoriale è comunque perdente in partenza. «La bestia è l'azienda», diceva qualcuno – bestia demoniaca e sconcertante, capace di «grandi prodigi» (Apocalisse di Giovanni, 13-13). È su questo terreno, e non su quello della politica, che il MPC dà prova della sua capacità (o incapacità) di preservare il sostrato fisico-biologico – una necessità che entro certi limiti, e sul lungo termine, è anche quella delle condizioni di riproduzione del capitale (si pensi al declino degli insetti impollinatori, vitali per qualsiasi agricoltura, capitalistica e non). Esiste una ragione stringente per pensare che i combustibili fossili o la fissione nucleare siano l'ultima parola del capitale in fatto di produzione energetica, o che le odierne abitudini di consumo non debbano più cambiare? Se sì, il lettore ben informato è pregato di segnalarcela.

È egualmente sul terreno dell'impresa – non certo quello «microeconomico» dell'impresa singola, ma dell'impresa come metabolismo sociale che trasforma la materia – che si deve scendere, se si vuole dimostrare l'insostenibilità del rapporto fra capitalismo e ambiente. Qualcuno in passato vi si cimentò, e i risultati scatenarono una tempesta… in una tazza di tè. Un ecologista della prima ora fattosi ibernare a metà degli anni 1970 e risvegliatosi ai giorni nostri, potrebbe chiedersi: ma cosa ne è stato dei famosi «limiti dello sviluppo»? A leggerlo oggi, a cinquant’anni tondi tondi dalla sua pubblicazione, il celebre rapporto dei ricercatori del MIT, commissionato dal Club di Roma, lascia quantomeno perplessi3. Ricordiamo che il modello da essi proposto consisteva in un insieme di proiezioni elaborate al computer, realizzate attraverso la combinazione di cinque grandezze – popolazione, prodotto industriale pro capite (in dollari costanti), alimenti pro capite (consumo annuale in kg di grano), inquinamento, risorse non rinnovabili (in base alle le riserve accertate) – secondo una traiettoria di crescita esponenziale. Ne uscirono sostanzialmente due scenari alternativi, uno caratterizzato dall'esaurimento delle materie prime, l'altro da un terribile aumento dell'inquinamento:

«Alimenti, servizi e prodotto industriale aumentano esponenzialmente. […] questo tracciato corrisponde alla condizione di superamento dei limiti naturali, con successivo collasso provocato dall'esaurimento delle risorse naturali non rinnovabili. Il capitale industriale cresce fino a un livello che richiede un afflusso enorme di materie prime, per cui il processo di crescita è accompagnato dal progressivo depauperamento delle riserve; ma ciò provoca una lievitazione dei prezzi delle materie prime, per ottenere le quali occorre impegnare frazioni crescenti di capitale, a discapito degli investimenti. Alla fine gli investimenti non riescono più a seguire il passo del deprezzamento del capitale, e si verifica il collasso della base industriale e quindi dell'agricoltura e dei servizi, dato che questi settori dipendono in maniera essenziale dai beni prodotti dall'industria (fertilizzanti, insetticidi, attrezzature ospedaliere, calcolatori e soprattutto energia per la meccanizzazione). […]

«Per un breve periodo di tempo la situazione rimane a un livello critico poiché la popolazione, a causa dei ritardi che caratterizzano il ciclo riproduttivo e i processi di assestamento sociale, continua a crescere; ma le carenze di alimenti e di servizi sanitari provoca un rapido incremento dell'indice di mortalità e il livello di popolazione si abbassa. […]

«Possiamo comunque provare a essere ancora più ottimisti, supponendo di raddoppiare, grazie a nuovi ritrovamenti o progressi della tecnologia, l'entità delle riserve stimate di materie prime […] Questa volta, però, la fine dello sviluppo è provocata soprattutto da un improvviso, straordinario, aumento del livello di inquinamento, causato dal superamento della capacità naturale di assorbimento dell'ambiente. Inquinamento e carenza di alimenti fanno aumentare l'indice di mortalità. Nello stesso tempo, come si vede, le riserve di risorse naturali subiscono un drastico depauperamento, a dispetto dell'ipotesi di un iniziale raddoppiamento di tali riserve: pochi anni in più di crescita esponenziale sono sufficienti perché il sistema industriale bruci queste risorse extra. In definitiva, se noi facciamo l'ipotesi di non correggere in alcun modo l'attuale nostro comportamento, il sistema mondiale sembra destinato a svilupparsi per poi subire un collasso e precipitare in condizioni di miseria.» (Ivi, pp. 104-106).

Il rapporto si caratterizzava altresì per la reiterata critica dell’«ottimismo tecnologico», precoce e tutto sommato radicale se si tiene conto dell'epoca:

«La tecnologia può alleviare i sintomi dei mali che affliggono il mondo senza agire sulle cause fondamentali. La fiducia nella tecnologia come soluzione definitiva a tutti i problemi può sviare la nostra attenzione dall'aspetto fondamentale della situazione, lo sviluppo in un sistema finito, impedendoci così di applicare i provvedimenti realmente necessari.» (Ivi, p. 124)

«Gli “ottimisti tecnologici” confidano che la tecnologia giungerà a rimuovere o ad allontanare i limiti allo sviluppo della popolazione e del capitale. Abbiamo dimostrato peraltro, nel modello del mondo, che l'applicazione della tecnologia ai problemi dell'esaurimento delle riserve naturali, dell'inquinamento, della mancanza di alimenti, non risolve il problema essenziale, quello cioè determinato da uno sviluppo esponenziale di un sistema finito e complesso. I nostri tentativi d'introdurre anche le più ottimistiche previsioni sugli effetti della tecnologia nel modello, non impediscono il verificarsi del collasso finale della popolazione e dell'industria, in ogni caso non oltre il 2100.» (Ivi, p. 119)

Entro e non oltre il 2100? Campa cavallo… Ironia a parte, il problema di fondo del modello dei ricercatori del MIT si riassume nella equazione sviluppo economico = crescita esponenziale. L'ignoranza dei più elementari meccanismi dell'accumulazione capitalistica gioca brutti scherzi anche alle menti più sublimi. Gli errori metodologici degli autori del rapporto risultano evidenti nel passaggio che segue, dove vengono formulate alcune precauzioni rispetto all'attendibilità del modello:

«[...] non è verosimile che il mondo reale si comporti esattamente secondo quanto indicato da uno qualsiasi dei diagrammi visti, soprattutto nell'intorno del punto di crisi, giacché tali diagrammi sono stati ricavati considerando solamente gli aspetti materiali dell'attività umana; per i fattori che possiamo definire sociali (distribuzione del reddito, composizione numerica del nucleo familiare, scelta tra beni materiali, servizi, alimenti) si è fatta l'ipotesi che essi continuino a evolvere secondo i modelli affermatisi nel corso della storia più recente in tutto il mondo.» (Ivi, p. 117; corsivo nostro, nda)

Il primo errore consiste nell'estrapolazione. Il postulato della crescita esponenziale viene desunto dall'andamento delle variabili considerate nel periodo dei cosiddetti Trenta gloriosi. Prendiamo innanzitutto la popolazione e il capitale, le variabili che nell'ipotesi della società a crescita «zero» sollecitata dai ricercatori del MIT, si sarebbero dovute ricondurre ad un'assoluta stabilità4, pena l'apocalisse economica, sociale e ambientale. È stata forse esponenziale la crescita demografica negli ultimi cinquant’anni? Secondo il rapporto del MIT avrebbe dovuto esserlo:

«[...] consideriamo il processo di crescita demografica: per passare da 1 a 2 miliardi di abitanti sono occorsi più di 100 anni, il terzo miliardo si è raggiunto in 30 anni, il quarto in meno di 20, e probabilmente la popolazione arriverà a toccare i 7 miliardi di abitanti prima dell'anno 2000, cioè fra soli 28 anni.» (Ivi, p. 122)

Peccato che nel 1999 la popolazione mondiale aveva appena superato i 6 miliardi: un miliarduccio mancava ancora all'appello… e scusate se è poco! Da notare che la percentuale di incremento annuo della popolazione mondiale, salita ininterrottamente dal 1945 fino al picco della fine degli anni 1960 (+2,09 % nel 1969), era già notevolmente scesa all'alba del nuovo millennio (+1,31 % nel 2000) e in cinquant'anni si è praticamente dimezzata (+1,05 % nel 2020). Malthusiani di tutto il mondo, potete ridurre la dose di ansiolitici! Veniamo al capitale: il tasso di crescita annuale del PIL mondiale, che negli anni 1960 oscillava tra il 5 e il 6 %, fino al picco del 6,55 % nel 1973, non ha, da allora, mai più ritrovato le stesse vette, e per due volte è entrato perfino in territorio negativo (-1,66 % nel 2009 e -3,60 % nel 2020). Aggiungiamo che la pretesa dei ricercatori del MIT di essersi attenuti esclusivamente a grandezze fisiche non è interamente verificata, in quanto l'indicatore della produzione industriale da essi utilizzato (il PIL pro capite espresso in dollari costanti) per definizione non è una grandezza fisica, ma monetaria. E che dire delle riserve accertate di materie prime? Già Paul Mattick, in un testo del 1976, aveva espresso forti riserve sull'utilizzo di queste stime5. Volendo supporre che possiedano comunque una certa attendibilità, se esaminiamo, ad esempio, l'evoluzione delle riserve accertate di petrolio, vediamo che esse, dai tempi del rapporto del MIT, non sono affatto diminuite, ma quasi triplicate (vedi grafico sottostante). Lo stesso vale per il gas. Invitiamo dunque i lettori a mettere mano alla pistola, d'ora in poi, ogni qual volta sentiranno parlare di «picco petrolifero».

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Molto in voga negli anni '90 e all'inizio dello scorso decennio, la teoria del «picco petrolifero», secondo cui l'aumento dei prezzi del petrolio sarebbe determinato dal suo progressivo esaurimento, ha aggiunto un'ulteriore cortina fumogena all'immane riassestamento finanziario, a base di speculazione e ricerca di beni-rifugio, che ha spinto i prezzi del greggio ai picchi dell'estate del 2008 (140 dollari per il barile di brent, ai primi di giugno) e della primavera del 2011 (125 dollari per il barile di brent, ai primi di aprile). Le successive smentite di tale teoria, dettate dal crollo dei prezzi che in entrambi i casi ne è seguito, hanno generato una nuova variante, più sofisticata, della medesima, secondo cui l'esaurimento del petrolio non si tradurrebbe in un aumento lineare dei prezzi, bensì nella loro crescente volatilità. Sarà… ma a noi pare che questa volatilità derivi sostanzialmente dalla diversificazione del mercato petrolifero intervenuta nel corso degli ultimi quarant’anni, sia al livello delle forniture fisiche (contratti a lungo termine, mercato spot, futures) che della carta finanziaria (compra-vendita di futures a fini speculativi, options etc.), e dalla molteplicità dei parametri che concorrono oggi alla formazione dei prezzi spot (flessibilità maggiore o minore dell'offerta, dimensione degli investimenti, accordi OPEC, andamento dei mercati finanziari, conflitti geopolitici etc.). In definitiva, limitarsi a invocare i crescenti bisogni energetici e di materie prime, a fronte della finitudine del pianeta Terra e della limitatezza delle sue risorse, porta ad analizzare il capitalismo per ciò che non è, cioè come un sistema di mere grandezze fisiche. E se è ragionevole pensare che talune materie prime finiranno prima o poi per esaurirsi, è bene saper riconoscere le banalità dell'economia volgare (la parabola del bicchiere d'acqua nel deserto), anche quando vengono presentante in salsa ecologica.

Sfondiamo porte aperte? Può darsi. Ma vale la pena ricordare che più di un compagno, all'epoca, prese il Rapporto sui limiti dello sviluppo per oro colato, o comunque più seriamente del dovuto. E non parliamo solo delle divagazioni psichedeliche di Cesarano & Collu in Apocalisse e rivoluzione6: si veda anche, ad esempio, il testo del Gruppo della Sinistra Comunista riportato in appendice, il primo, a nostra conoscenza, ad aver parlato del rapporto del MIT nel milieu. Morale della favola: ci si trovi davanti al Rapporto del MIT o alle sue filiazioni attuali, la diffidenza è d'obbligo.

Se poi si aspira a superare d'emblée il dualismo uomo-natura, si cominci con l'includere l'umanità come specie nel sostrato fisico-biologico. Ciò che Marx chiama «il corpo organico dell'uomo» – distinguendolo così dal suo «corpo inorganico» (la natura esterna) – è un costrutto elastico, come mostrano le sue mutazioni attraverso la storia (dalla statura alla speranza di vita), a seconda dell'habitat, delle abitudini alimentari e dei modi di vita. Come si rapporta il capitale a questo corpo? Nonostante le condizioni di vita precarie, insalubri, talvolta estreme, che il MPC impone attraverso il pianeta, esso ha visto la più grande propagazione della specie umana nella storia, prima dei popoli colonizzatori, poi dei popoli (ex-)colonizzati – e ciò anche al netto dei vari e ben noti massacri. Nonostante il suo tallone di ferro, esso non ha (ancora?) smesso di sottrarre alla miseria più nera, innalzando il loro tenore di vita, centinaia di milioni di individui, localizzati oggi principalmente in Asia. Questo indica, fra le altre cose, che il processo avviatosi grossomodo all'inizio del Novecento, consistente nella generalizzazione del salario differito e indiretto e nello sviluppo di settori economici per i quali l'esistenza di tale componente del salario rappresenta la cosiddetta domanda finale – processo impensabile senza le poderose spinte provenienti dalle classi operaie delle zone capitalistiche interessate – non è terminato. Se ristagna o regredisce in Occidente, si espande altrove. Voler criticare l'ideologia del progresso senza tenere conto di queste coordinate, vuol dire condannarsi a lottare contro i mulini a vento.

La dinamica del capitalismo maturo (leggi: «sussunzione reale del lavoro al capitale») per ciò che concerne il paniere dei mezzi di sussistenza, non consiste nel togliere il pane di bocca al lavoratore, mantenendolo ai limiti della morte per inedia, ma nel diminuire ad un minimo il valore di questo paniere e la sua proporzione in rapporto agli altri fattori della produzione. Tale diminuzione necessita di un'elevata produttività, la quale non si ottiene con la semplice coercizione, ma richiede tutto un sistema di incentivi materiali destinati ai detentori della forza-lavoro, oltre che investimenti in capitale fisso. Certo, il capitale può annichilire i corpi tramite la guerra, e perfino organizzarne lo sterminio su scala industriale; ma fintanto che ne ha bisogno – e generalmente ne ha bisogno – ne sfrutta la capacità lavorativa (Arbeitsvermögen), e per farlo adeguatamente deve garantire e continuare a vegliare sulla riproduzione del suo supporto materiale (il «corpo organico»). Per il MPC, non c'è nessuna contraddizione di principio nel fatto di combinare delle condizioni patogene di lavoro e di vita con un sistema sanitario che si occupa di agire più o meno efficacemente sui loro effetti... almeno fintanto che i livelli di profitto lo consentono. Mutatis mutandis – e in termini più attuali – non c'è contraddizione nel fatto di creare le condizioni che favoriscono l’insorgere di epidemie più o meno ricorrenti e mortifere, e promuovere contemporaneamente l'industria farmaceutica come soluzione del problema (vaccini o meno). Palliativo che agisce sugli effetti e non sulle cause, ed eventualmente foriero di contro-reazioni inattese? Lo si può sempre sostenere; ma non ci si illuda che una simile denuncia abbia una qualche portata di fronte allo schiacciasassi capitalistico e alla relativa efficacia delle toppe che è costretto, suo malgrado, ad inventarsi.

Il nodo della questione, dunque, è sapere se il MPC può applicare al «corpo inorganico dell'uomo» (la natura esterna) lo stesso trattamento che riserva, quantomeno nelle aree centrali dell'accumulazione, al suo «corpo organico». In termini generali, valgono qui le conclusioni del testo di Mattick precedentemente citato:

«Se si appurerà che salvare il pianeta può essere redditizio, allora la salvaguardia del pianeta diventerà un ulteriore business, tanto più che la distruzione dell'ambiente è essa stessa uno strumento della competizione per accaparrarsi quote del profitto totale. Questo problema appare nella letteratura economica sotto il titolo di “esternalità”, ovvero come distinzione tra gli effetti privati e i concomitanti effetti sociali della produzione capitalistica. I fenomeni sociali includono anche i fenomeni ecologici, come quando l'emissione di sostanze inquinanti di ogni tipo, che entrano nei cicli naturali, finisce per distruggere il necessario equilibrio globale dell'ossigeno. […] Questi fenomeni, ampiamente noti, che possono essere attribuiti sia alla produzione di profitto che alla sua limitazione, colpiscono in maniera diversificata i diversi capitali, e quindi provocano essi stessi dei tentativi di limitare la devastazione all'interno del capitalismo. Se questi tentativi potranno o meno avere successo, dipenderà dalla massa di plusvalore, cioè dal crescente sfruttamento dei lavoratori o, in altri termini, dal loro “modesto tenore di vita".» (Paul Mattick, op. cit., corsivo nostro, nda)

Catturare particelle di CO2 dopo avere appestato l'atmosfera per decenni? A priori, non vi è alcuna controindicazione: non ebbe forse a dire Keynes che scavare buche per poi riempirle è un'attività del tutto razionale, dal punto di vista dell'economia nazionale? Ridurre drasticamente le emissioni future? Non una cosa impossibile, a condizione che nella guerra fra lobbies dell'energia, un'alleanza fra il nucleare, le rinnovabili e l'idroelettrico riesca a mettere all'angolo petrolio, gas e carbone, almeno in una parte del pianeta. Sviluppare il riciclo dei metalli, o rendere green la filiera dell'idrogeno, o…? Tutto è fattibile, a condizione che il consumo energetico a monte sia a basso costo e a basse emissioni. Come per le ferrovie e altre infrastrutture nel passato, qualche nazionalizzazione sarà inevitabile, per sottrarre alla perequazione del saggio di profitto gli investimenti con i tempi di rotazione più lunghi. E quand'anche une parte di questi investimenti fosse, per il capitale sociale complessivo, una pura spesa in perdita (le famose faux frais), la stessa considerazione non varrebbe meno per innumerevoli altre attività non produttive di plusvalore che sono del tutto necessarie alla riproduzione del capitale, come la pubblicità, le assicurazioni o le banche. L'essenziale è che la massa del plusvalore sia sufficiente. Ma è proprio qui che la faccenda si complica, e che bisogna calare maggiormente il ragionamento nella realtà attuale.

La prima ragione per cui la transizione green viene oggi più spesso strombazzata che attuata, sta nell'eccedenza di capitale che l'insieme dei principali stati capitalistici del mondo e le rispettive banche centrali si ostinano a tenere in vita, per evitare un enorme tracollo finanziario e le reazioni sociali che esso comporterebbe (o meglio: comporterà, perché prima o poi…). Ma basterà che le condizioni favorevoli all'investimento produttivo vengano ricreate, e si vedranno montagne di liquidità (quelle non bruciate dal tracollo finanziario) uscire dai casinò del capitale portatore d'interesse per ritrovare un impiego sotto forma di capitale produttivo. Che gli aggiustamenti settoriali privilegino – anche nell'ambito del mercato azionario – le produzioni compatibili con la transizione green, sarà soltanto benefico per il rilancio dell'accumulazione: la devalorizzazione – in questo caso a danno non solo dei capitali più arcaici o di quelli con l'acqua alla gola, ma anche di capitali economicamente in buona salute e ciononostante incompatibili con la transizione green (un caso particolarmente morale di usura morale dei mezzi di produzione7) – sarebbe tanto più massiccia. L'OCSE, ad esempio, stima il corrispettivo di capitale attualmente in funzione che verrebbe reso inutilizzabile dalla transizione, a 320 miliardi di dollari nella produzione di elettricità e a 520 miliardi di dollari nel settore del petrolio e del gas8. Ma c'è un secondo problema. Per rendere possibile la transizione green, è necessario rinnovare una parte considerevole della base produttiva, cioè produrre nuovi mezzi di produzione. Ciò imporrebbe di ridurre la quota-parte dei consumi all'interno del PIL a favore degli investimenti, il ché implicherebbe a sua volta una modificazione del paniere dei mezzi di sussistenza: una pauperizzazione simultaneamente relativa e assoluta (meno merci e servizi, da produrre in un minor tempo di lavoro socialmente necessario).

L'imposizione a larghe masse di popolazione di una vita da vegan straight-edge senza bistecche, né alcool, né sigarette (e con poche spese sanitarie assicurate) – potrebbe certo passare per l'introduzione di misure autoritarie di razionamento in condizioni emergenziali più o meno reali (non c'è mai fumo senza arrosto). La gestione della crisi da Covid mostra, al di là della diversità dei contesti locali, il livello di disciplina sociale che la maggioranza delle popolazioni delle aree centrali dell'accumulazione è, almeno temporaneamente, in grado di sostenere in contesti che lo giustifichino. Ma per rendere accettabili sul lungo periodo privazioni più sostanziali del divieto di prendere l'aperitivo al bar, bisognerà che i nuovi standard di consumo comportino delle contropartite (riduzione della giornata lavorativa? pieno impiego?…).

Senza un movimento di consistenti frazioni capitalistiche in direzione della transizione green, le politiche statali saranno sempre insufficienti. Il capitalismo diventerà green solo se e quando ciò risulterà redditizio – o meglio: abbastanza redditizio da suscitare un massiccio movimento di capitali verso le branche della produzione compatibili con questa prospettiva. Una svolta che non è ancora all'ordine del giorno, che non ci eviterà una buona dose di catastrofi, e che in definitiva presuppone – come conditio sine qua non un proletariato sconfitto e impotente. Allora, e soltanto allora, si vedrebbe di che pasta è fatta la transizione verde. In questo senso, la sua realizzazione potrebbe valere come una sorta di termometro della lotta di classe nelle diverse aree geostoriche.

In conclusione, il capitale può «salvare il Pianeta» – ma alla sua maniera e soprattutto alle sue condizioni, cioè invertendo il modus operandi in vigore fino ad oggi: quello consistito nel sacrificare il sostrato fisico- biologico non umano a beneficio del tenore di vita dei salariati. In maniera speculare, nessuna rivoluzione si farà mai per «salvare il Pianeta». È sempre e solo per salvaguardare la propria riproduzione immediata, che i proletari si sollevano contro il capitale. Il paradosso è allora il seguente: tanto il superamento del MPC che la sua riforma green dipendono dalla condotta della classe in seno alla quale la «coscienza ecologica» è meno diffusa – ovvero dalla sua disponibilità o meno ad irlandesizzarsi9.

* * * *

Appendice

Costruzione e rivoluzione

Gruppo della Sinistra Comunista10

[ Introduzione a: Amadeo Bordiga, Costruzione e rivoluzione, antologia a cura del Gruppo della Sinistra Comunista, novembre 1972 ]

«Il socialismo è il minimo che possiamo fare». (R. Luxemburg)

I

Proseguendo nel lavoro di presentazione degli argomenti della dottrina marxista delucidati da Bordiga, sottoponiamo in ordine al tema «Costruzione e rivoluzione» una raccolta di nove scritti che vanno dal 1951 – Piena e rotta della civiltà borghese – al 1966 – Questa friabile penisola si disintegrerà sotto l'alluvione delle «leggi speciali» vane, equivoche e sterili, se non salta prima la macchina rugginosa dello Stato capitalista ed elettorale.

Le trattazioni vertono su sviluppi e fatti storici legati alle grandi «costanti» del capitalismo. L'affarismo privato e il sostegno pubblico, la logica della «morte» redditizia e la «vita» delle merci, la costruzione di gigantesche strutture estraniate e l'appiattimento dei comportamenti sociali si inseriscono nelle linee classiche dell'interpretazione marxista. Omicidio dei morti Politica e costruzione Pubblica utilità, cuccagna privata Specie umana e crosta terrestre Spazio contro cemento Drammi, gialli e sinistra della moderna decadenza sociale La classe dominante non pianga le sciagure, ci ha sempre vissuto e ci vivrà sempre –, insieme ai due scritti già indicati che, rispettivamente, aprono e chiudono la «serie», attestano con dovizia di riferimenti che la palma di industria sovrana del «sinistro» spetta di diritto al capitalismo11.

Dimostrano inoltre che l'avanzatissimo sfasciume idro-geo-atmosferico-sociale non è dovuto ad eccessi scriteriati di isolati gruppi economici o alla malvagia sapienza di «Top men» sottrattisi al controllo del buon senso collettivo. Gli ultimi dati in materia ecologica (oggi la grande passione delle «coscienze infelici» e il grande affare delle potenze del valore), che sono quelli dell'andamento produttivo, dello sviluppo demosociale e dell'ambiente-biosfera, confermano in pieno le previsioni catastrofiche emesse, e con puntualità perfezionate, dal marxismo. I miti del progresso e del benessere si rivelano gravidi di tragici contenuti reali.

Le querimonie naturistiche e moralistiche intorno alla nequizia dei tempi non servono. La conoscenza della natura, delle cause e dei fatti del capitalismo ci impone di attendere il meglio dal peggio, e di non basire di fronte al prezzo da pagare per uscire dal sistema dei prezzi.

 

II

Da tempo abbondano pubblicazioni di vario livello sullo stato attuale e sugli sviluppi prossimi della crisi «ambientale». Non pretendiamo certo con queste poche note di inquadrare motivazioni, spiegazioni, ipotesi espresse dagli addetti ai lavori; e neppure di riassumere complessivamente le profonde controindicazioni del marxismo. Puntiamo per ora a qualche rilievo di massima.

Le registrazioni e le estrapolazioni di Rattray Taylor e di Nicholson, della scuola di Boston (M.I.T.) – D. Meadows e J. Forrester12 – e di Pasquelot sono indubbiamente significative: inquinamento organico delle fonti di vita, degradazione degli esseri viventi, sovrappopolazione, etc., sono fatti incontrovertibili del processo riproduttivo generale. Gli uni da angolazioni neomalthusiane, gli altri con accenti filoromantici ammoniscono che bisogna «disinnescare la bomba demografica» e contenere i livelli di vita, «che la produzione industriale non è che elaborazione e distruzione delle materie prime: cioè distruzione senza ritorno del patrimonio fisico originario: acqua, aria, suolo, sottosuolo, flora, fauna». Tutti sostanzialmente convergono verso una soluzione in termini di «razionalizzazione massima», di «progresso senza crescita». Il male, dicono, è la società industriale squilibrata. Tendono pertanto ad evadere nel generico, ad individuare nell'insostituibilità del sistema industriale, considerato in sé e per sé, colpe aclassiste.

L'inquinamento è un prodotto della società industriale, il comunismo equivale a società industriale, quindi il comunismo produce inquinamento. Con questo sillogismo a prova di Marx tutto è in regola. Il

«comunismo» russo è posto come verifica della fatale comunanza dei mali del mondo moderno. Marx si illudeva. Ciò che è stato è, ciò che è sarà. Nessuno è esente dal peccato originale. Bisogna che i popoli, tramite responsabili delegati, facciano fronte comune nell'umanitario campo dell'ecologia per tentare di modificare le conseguenze di un processo che rischia, dopo tanto bene prodotto, di volgersi tragicamente. Per cui vengano stanziati capitali onde le industrie possano produrre il disinquinamento!

Non stiamo facendo un resoconto facilone e burlesco. Stiamo registrando la logica degli affari che nascono dalle conseguenze degli affari.

 

III

La scientificità del marxismo impedisce che si possa ritenere il futuro rivoluzionario e post- rivoluzionario un semplice dispiegamento di rotoli di carte profetiche. Chiaramente, Marx e Bordiga dimostrano che il ricettario «dell'osteria dell'avvenire» a cui molti attendono è un'astrazione del presente, non certo una reale anticipazione della guida al sollazzo degli stomachi futuri.

Possiamo intravvedere, poggiando i piedi sul «Dreck» della civiltà, una sola faccia del comunismo13.

Ed è la faccia della distruzione, dell'annichilazione delle miserie e delle ricchezze, delle tradizioni e dei progressi, degli sprechi e dei risparmi del mondo borghese14. Non si tratta di cavare da un riservatissimo sacco critiche e rivendicazioni esoteriche iniettando ai nostri classici postulati dosi di apocalittica barbarie. Insistere, però, sulla necessità di un «superamento» nel quale per tutto un periodo la combinazione «negazione-conservazione» risulti monomica, non è frutto di una improvvisa e disperata propensione catartica.

Di critiche costruttive è lastricata la via della conservazione capitalistica. Di «ipotesi di sviluppo» ridonda la falsa linea alternativa degli «umanisti». Lo pseudo-Marx che coltivano coloro che pretendono conciliare ragione e rivoluzione, esigenze illuministiche e sovvertimento sociale, è una virgola ottocentesca totalmente fuori posto nella punteggiatura del discorso comunista che è «sul filo del tempo». Il vero nucleo della dottrina va evidenziato onde evitare partitariamente15 con le carte in regola in fatto di principi, programma e tattica. E vi è un solo modo di rapportarlo vittoriosamente alle condizioni della «megamacchina» (Mumford) capitalistica: quello di rendere esplicita la dimensione delle tesi offensive di Marx.

 

IV

Considerare il capitalismo in termini di mero rapporto sociale da raddrizzare o da riformare con misure politiche più giuste o rispondenti ai bisogni delle masse; o anche credere di rimpiazzarlo con un sistema che prenda le mosse dal livello raggiunto da esso in fatto di forze produttive, tecnica, scienza, beni sociali, vuole dire fare arretrare di gran lunga i problemi del trapasso rivoluzionario. La «partita di giro» dovrà essere ridotta al minimo!

Anteporre l'uomo alla macchina, ovvero invertire le posizioni proprie della realtà attuale, prospettare l'assetto futuro in termini di riconciliazione dell'«autoproduzione umana» significa eludere alla Feuerbach i dati storici; significa non considerare che, come scrive Marx, «l'uomo debole del capitalismo diviene una macchina della macchina», e che quest'ultima, non è il semplice «medium» del ricambio sociale, ma l'agente dello specifico «consumo produttivo» capitalistico. A meno che non si intenda il capitalismo come una semplice sovrastruttura della eterna natura umana in progressione. Al che la formula del comunismo potrebbe diventare: macchinismo + Gemeinwesen. Inoculare ai mezzi di produzione l'«essenza» comunitaria: ecco la candida speranza delle «anime belle»!

La democrazia, come «giusto» meccanismo politico deliberativo e operativo fondato su di una maggioranza conquistata, idonea a superare la «legalità» borghese, può essere sempre, con Marx, definita «l'alienazione che riproduce se stessa semplicemente in senso contrario». Le concezioni correnti del movimento operaio, la cui prassi comprende gli omogenei costituzionalismo e «illegalismo bastardo», sono, nei confronti del «patrimonio» borghese, debitrici di valori non redimibili.

Ma, ora, non ci interessa tornare a misurare le differenze di qualità tra il democomunismo e il comunismo rivoluzionario. Ci interessa sottolineare ancora il problema del «rovesciamento», che è il problema della «Zerstörung» non metaforica.

 

V

Da questo punto di vista il fine estremistico, se lo depenniamo dei fronzoli scarlatti che lo avvolgono, è assai vicino a quello democratico. Per i suoi seguaci il proletariato deve strappare l'intero «furto borghese», deve appropriarsi in toto dei beni della produzione. La rivoluzione, insomma, deve cambiare i beneficiari.

La Vera Vita nasce dalla iniziazione a livello di gruppo, cresce nutrita di immediatismo rodomontesco, vince con l'affermarsi del feticismo benesseristico quale prassi sociale. Ciò che è oggi il vertice borghese, domani sarà l'intera base sociale.

Per l'estremismo, il significato degli oggetti è posto dal fruitore, dal soggetto a molte teste (la classe) ad essi relazionato con moto «attivo», libero, sovrano16. Siamo all'opposto del marxismo, per il quale «come essi [gli oggetti] diventino suoi [dell'uomo], ciò dipende dalla natura dello oggetto e data natura della corrispondente forza essenziale, ché precisamente la determinatezza di questo rapporto costituisce il particolare, reale, modo d'affermazione».

L'univocità materialistica dell'oggetto è negata dalla presa in possesso da parte del soggetto-massa, la cui conquista17 crea una nuova totalità di cose. Incombono spietate le pagine di Marx sul sensorio dell'uomo del capitalismo: «La luce, l'aria etc., la più elementare pulizia animale cessano di essere un bisogno per l'uomo. Il sudiciume, questa depravazione e corruzione dell'uomo, la fogna della civiltà gli diventa l'elemento in cui vive. L'incuria totale, innaturale, la natura corrotta, gli diventa suo elemento vitale. Nessuno dei suoi sensi c'è più, non solo nella sua guisa umana, ma nemmeno in una guisa disumana, cioè bestiale... Non solo l'uomo non ha più bisogni umani, anche i bisogni animali cessano in lui».

Non solo «l'oggetto umano» del godere è stato stravolto e distrutto, ma è la stessa «umana capacità di godere» che è scomparsa.

L'esistenza dell'«oggetto-capitale» diviene la condizione dell'inumano «agire e patire». «La proprietà privata ci ha fatto talmente ottusi e unilaterali che un oggetto è nostro solo quando lo abbiamo, quando, dunque, esiste per noi come capitale, o è immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo, abitato, etc., in breve utilizzato... Tutti i sensi, fisici e spirituali, sono stati sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti, dal senso dell'avere [...] l'espansione dei prodotti e dei bisogni diventa schiava ingegnosa e sempre calcolatrice di appetiti disumani, raffinati, innaturali e immaginari; la proprietà privata non sa fare del rozzo bisogno un bisogno umano; il suo idealismo è presunzione, arbitrio, capriccio. E un eunuco non onora più bassamente il suo despota, e non cerca con dei mezzi più infami di eccitarne la ottusa facoltà di godimento, per carpirgli un favore, di come l'eunuco dell'industria, il produttore, per carpire la moneta d'argento o cavar fuori l'uccellino d'oro dalle tasche del prossimo cristianamente amato (ogni prodotto è un'esca con cui si vuole attirare la sostanza dell'altro, il suo denaro, ogni reale o possibile bisogno è una debolezza che condurrà la mosca nella colla: generale sfruttamento dell'essere umano comune, ché, come ogni imperfezione dell'uomo è un legame col cielo, un lato per cui il suo cuore diventa accessibile al prete, ogni suo bisogno è un'occasione per abbordare, con la più amabile apparenza, il proprio prossimo e dirgli: amico caro, io ti do quanto di cui abbisogni, ma tu conosci la conditio sine qua non, tu sai con quale inchiostro hai da impegnarti con me, io ti scortico quando ti procuro godimento), si piega ai capricci più bassi dell'altro, fa da mezzano fra questi e il suo bisogno, eccita i suoi desideri morbosi, spia ogni sua debolezza, per poi chiedere il compenso per questo affettuoso servizio».

Così scriveva Marx, senza che gli si spezzasse il cuore, senza emettere condanne morali, dinanzi a quel processo da lui inteso come marcia della necessità, e non già come avanzata di forze votate a conculcare le belle virtù e qualità dell'uomo e a fare sfiorire la rosa-umanità. Qualcuno a sentir parlare di necessità storcerà il naso la presenza di convinzioni sovrastoriche. Fiuti pure e si trinceri tranquillamente dietro la barriera del possibilismo. Per noi, necessità – che è il «müssen» tanto di Marx come della calunniata Luxemburg – vale come legge che regola non con l'«astuzia», ma con la massima forza materiale, i comportamenti sociali; non sovrastandoli (la legge come strumento esterno e prescrittivo), ma fondandosi proprio sulla natura dei luoghi e dei bisogni al cui contatto troviamo costretto l'uomo.

 

VI

D'altra parte, partire lancia in resta contro macchine, scienza e tecnica è puerile e sterile. Quanti l'hanno fatto hanno finito con il sostituire idoli con altri idoli, affidando a ragione, sentimento e coscienza il basso compito di dare un «altro» significato alla vita. «Sia fatta luce», e splenderà la lampada della coscienza ad illuminare il già fatto e il da fare nella società umanizzata di liberi ed eguali: ecco il comunismo ad alto voltaggio proposto da questi Enciclopedisti «ritardati»! Per noi il mito del buon selvaggio si appaia a quello dell'uomo onnilaterale, reso tale dalle mirabolanti prestazioni controllabili di una scienza a pieno servizio.

Non si tratta di auspicare il ritorno ad una rozza vita18 rurale dopo avere incenerito le «cattive cose» della «ratio» borghese. Neppure di vagheggiare la «soluzione finale» della specie puntando sull'ascesa di una leva di superuomini.

Domandarsi se sulle rovine del capitalismo la forza sociale vittoriosa userà per campare i fosfati Montedison19 o il puro letame ha senso a patto di non esigere una risposta sorretta dalla radicata regola produttivistica.

La folle produzione del capitalismo distrugge inesorabilmente riserve ed equilibri vitali. Il depauperamento del grande arsenale naturale prosegue senza posa. Al punto in cui siamo giunti si può ben dire che la sovrapproduzione «aritmetica» di capitale è la svalutazione «geometrica» della natura; e la proporzione di questo movimento a sensi inversi non può essere commisurata sul piano del valore economico. L'entità di questo deficit si misura con parametri alternativi anche rispetto a quelli adottati da quanti vogliono mettere in luce la banale antiesteticità del mondo superindustriale e salvaguardare porzioni del patrimonio educativo e ricreativo della «comune» civiltà (musei, centri storici, grandi riserve naturali, etc.).

Il piano comunista potrà rigenerare l'ambiente fisico-sociale, colpendo le dotazioni e le installazioni funzionali al meccanismo di accumulazione di cose e di uomini, con interventi tecnicamente anche rudimentali.

«Di queste città non resterà che il vento che le attraversa»20, e con esse scompariranno i «grandi numeri» demografici, senza persecuzioni. Si partirà da quantità limitate per raggiungere nuove qualità.

«Ossigeno comunista contro fogna capitalista. Spazio contro cemento».

 

VII

È certamente facile fraintendere questo indirizzo deflazionistico concernente uomini e cose. È pressoché inevitabile. La logica è una moneta «negativa», non ha «corso legale», non può essere scambiata alla «pari». Se fosse altrimenti, crederemmo nello apostolato educativo nutrito di chiacchiera. Ferme restando le carenze del «codice» logico, possiamo affermare che le eventuali accuse di filonazismo finalizzato in senso comunista e di darwinismo sociale rimangono frecce democratiche prive di reali bersagli.

In breve: non crediamo nella «attualizzazione» della schiatta ariana, o di chi per essa, depositaria di valori extraborghesi, e non accettiamo il sistema concentrazionario, il cui carattere fu di vera e propria impresa economica ellittica e a ciclo integrale. Questo rifiuto, però, si situa su posizioni diametralmente opposte a quelle dell'antifascismo, dal quale siamo divisi non solo in quanto a prassi politica; vanno aggiunti: origini, metodo, visione del mondo, programma. Contro la guerra di Marx si sono schierati tanto gli eserciti del «sangue puro» quanto quelli dell'interesse composto; ma va detto che le armi antiproletarie più efficaci e demolitrici sono state usate dai secondi. I maestri della distruzione ad alta remunerazione (il «libero» capitalismo che ha sottolineato, contro i «totalitari», la sua Costituzione democratica con le atomiche e il napalm), hanno con l'abilità derivantegli da una forza secolare, appiccicato per «mille anni» ai fautori del «socialismo di razza» quello che era il micromodello dei livelli, dei rapporti, dei ruoli, degli attributi della società di classe – la cui sede non è mai stata Berlino: il Konzentrationslager-system, facendo di quest'emblema l'assoluto di un male particolare rappresentato dal Reich dell'antitutto. Evitiamo, qui, di inoltrarci in questo campo già altre volte sondato.

In un'altra occasione ritorneremo sull'argomento; non certo per recuperare svastiche bensì per raddrizzare utilmente le oblique spiegazioni dei vincitori.

Riprendiamo il filo precisando che lo «sfoltimento» di nostra competenza riguarderà, a quell'epoca, le generazioni vecchie e di mezzo, i renitenti e i resistenti alla rivoluzione e ai suoi problemi. La classificazione sociale conterà poco, e non attenueranno la lotta i «distinguo» sulla natura «ideale» o pratica, congenita o indotta dei dissensi. Ma non si pensi ciò in chiavi di rappresaglia poliziesca. Tanto meno ad un orgiastico «repulisti» sanculotto.

Ben prima di Sartre, Lenin ha parlato delle «mani sporche» del rivoluzionario. Con ben altro significato. Quel che angustia la valutazione esistenzialistica è il concetto di «colpa necessaria», ovvero l'inevitabile compromesso politico dei principi che dà il via ad una cinica morale dei mezzi. Tutti i mezzi sono buoni per conseguire uno scopo, ma poi ci si accorge che sono quelli che si mantengono in vita sfruttando questo. È il principio dell'esistenza che precede l'essenza e del cumulo delle contingenze che fa la storia. Siamo sul piano di un idealismo a scartamento ridotto, modellato a misura del singolo, in cui l'empiria dell'«io sono» duella con l'ideale dell'«io devo». Il materialismo marxista ammette le «mani sporche», senza compromessi colpevoli!

Non è inutile ripetere che il problema del significato dell'uomo produttore di storia è affrontato dal marxismo scartando gli argomenti basati sull'individuo, sulla volontà, sulla coscienza. Affermare che si fa quello che si sa, va bene per il razionalista; affermare che si fa ciò che si vuole, va bene per il colui per il quale la realtà è il tavolo di lavoro della libera capacità creativa dell'uomo21.

La rivoluzione sarà la vittoria della selezione sociale organica imposta – e non scelta da supercervelli amanti il silenzio e la rarefazione – dallo scontro di opposte direzioni di forza. Sarebbe sciocca e delirante la pretesa di tracciare il quadro del «paesaggio» comunista. Là dove la ragione non può arrivare inciampando nei contenuti dell'oggi, là dove, pure protendendosi, la fede e l'istinto, date le grandi distanze pratiche e temporali, avvertono i propri limiti, incomincerà quel nuovo, del quale tutti i filistei dicono che abbia per nome «nulla».

Febbraio 1972.

* * * *

Il nostro indirizzo

Senza fare uso di quartine e di levigata prosa, ma con l'ausilio della nostra solita patologica sintassi, riassumiamo sinteticamente l'indirizzo che perseguiamo.

  1. Asserire di essere i depositari e gli interpreti della storica «Sinistra Comunista» è eccessivo e vago ad un tempo. Trattiamo, senza pretese professorali e senza preoccupazione di etichette, i temi di fondo del marxismo rivoluzionario sulla base delle posizioni sostenute e difese per oltre un quarantennio dalla «Sinistra Comunista».

  1. Non siamo un gruppo che fa politica, almeno nella misura in cui ciò significa disporre di una rete organizzativa di intervento pratico con cui sciorinare con lingua e braccio piccoli e grandi scopi.

  1. Siamo un gruppo politico nella misura in cui affrontiamo con nettezza classista le specifiche questioni del comunismo, nella misura in cui non prescindiamo da un bagaglio discriminante di nozioni e di lotte.

  1. Non siamo un gruppo che studia e progetta Direttorii, Partiti o Consigli per la massa operaia; né ci qualifichiamo come ricercatori intenti a scoprire e a documentare magagne e vuoti delle generazioni passate, onde poi rispondere con originalità e dovizia di dati alle domande di chi è all'oscuro e al quale solletica sapere.

  1. Siamo un gruppo che intende riproporre una trasmissione corretta e approfondita delle tesi di una grande formazione di classe che è il Partito Storico marxista, l'unico partito per il quale meriterà preparare, agire, colpire, guidare.

  1. La diatriba su «Partito storico» e «Partito formale» non ci sfiora neppure. È permanente il primo, nucleo intangibile di dottrina. In dati periodi la sua «sede» può anche essere una biblioteca. A dirimere le contraddizioni e gli scarti tra dottrina e classe sarà una prassi impersonale dettata da leggi necessitanti. È bene ancora precisare che per noi dottrina non è un complesso di costrutti logici elaborati da Maestri di sapienza, ma un «monoblocco» che riflette organicamente atti ed esperienze collettive raggruppati in un arco storico vasto; e classe non è un reperto sociologico e statistico, ma un antisistema, una forza incatenata ad un peculiare compito materiale.

  1. Oggi è la natura della critica marxista (critica dell'economia, della politica, della ideologia) che ci interessa riesporre sulla scorta di principi e di accadimenti vivi e univocamente significativi. Da questa critica risultano analisi, concezione, metodo e programma.

  1. Vogliamo fottere cultura e semplicismo, attivismo e fatalismo: questa è la nostra ambizione. Vogliamo togliere la polvere dalle pagine dei capitali testi di battaglia, non trascurando la disamina dei fatti attuali: questo è il nostro programma. Se è poco non fa nulla, il molto appartiene al futuro.

Gruppo della Sinistra Comunista (maggio 1971)


Note
1 «Poiché è storico, il materialismo di Marx esige di essere radicato in ciò che naturalmente ha preceduto e generato la storia, alla maniera di un terreno o di un sostrato naturale: nell'evoluzione biologica e, in particolare, in quella della specie umana.» (Patrick Tort, Introduzione a Anton Pannekoek, Darwinisme et marxisme, Éditions Arkhé, Parigi 2011, p. 9).
2 Le fonti energetiche non carboniche coprono oggi il 20% della produzione mondiale, ovvero la stessa percentuale che nel 1974.
3 Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers, William W. Behrens III, I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group, Massachussets Institute of Technology (MIT), per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell'umanità, Mondadori, Milano 1972.
4 Cfr. Ivi, p. 140.
5 «[…] le stime vengono continuamente riviste, non solo a causa della scoperta di nuove riserve, ma anche in ragione dei progressi nei metodi di stima. Per dare solo un esempio: le riserve intatte di carbone negli Stati Uniti venivano stimate, nel 1969, a 3.000 miliardi di tonnellate; nel 1975, questa quantità era aumentata del 23%, sulla base di migliori metodi di stima. Poiché tali errori di stima, per eccesso o per difetto, non alterano il fatto che le materie prime e i combustibili saranno alla fine utilizzati, non ha molto senso contrapporre le aspettative ottimistiche a quelle pessimistiche. Ma per come stanno le cose, c'è da aspettarsi che nel prossimo futuro gli orientamenti economici, e quindi politici, non saranno determinati da considerazioni ecologiche, ma – come prima – dall'esigenza immanente del capitale di produrre profitto.» (Paul Mattick, Kapitalismus und Ökologie. Vom Untergang des Kapitals zum Untergang der Welt, «Jahrbuch Arbeiterbewegung 4», Fischer Taschenbuch, Frankfurt am Main, 1976).
6 Una perla tra le tante: «Il periodo ultimativo che stiamo vivendo è il periodo in cui, completata l’opera di colonizzazione teleologica tanto del sistema termodinamico come del “sistema uomo”, colmato ogni spazio residuo possibile, esaurito il campo dei “salti di qualità” praticabili in direzione dello sviluppo produttivo espresso in termini di crescita esponenziale, il capitale viene ad urtare contro i suoi limiti insuperabili venendogli a mancare ogni dimensione ulteriore di trascrescenza a livelli d’organizzazione superiori. A questo punto, la forza d’inerzia del suo stesso processo di crescita è il limite critico contro il quale si trova a cozzare. Gli si impone un’inversione di tendenza: il passaggio pressoché repentino da un modo di sviluppo esprimibile in termini di crescite esponenziali a un modo d’equilibrio a sviluppo zero.» (Giorgio Cesarano & Gianni Collu, Apocalisse e rivoluzione, Dedalo, Bari 1973, p.15). Domanda da un milione di dollari: perché si è dato tanto credito a simili corbellerie? Perché sono scritte bene? Misteri della fede…
7 Nel Libro I del Capitale, nella sezione dedicata alla produzione del plusvalore relativo, Marx introduce la distinzione fra usura materiale e usura morale dei mezzi di produzione: «L'usura materiale della macchina è di duplice natura. C'è una usura che nasce dall'uso della macchina allo stesso modo che le monete si deteriorano con la circolazione; e un'altra che deriva dal rimanere la macchina inadoperata allo stesso modo che una spada inoperosa arrugginisce nella guaina. Questa è l'usura da parte degli elementi; quella della prima specie è più o meno in proporzione diretta dell'uso della macchina, la seconda è fino a un certo punto in proporzione inversa. Ma oltre all'usura materiale la macchina sottostà anche a un'usura per così dire morale. Essa perde valore di scambio nella misura in cui macchine della stessa costruzione possono essere riprodotte più a buon mercato oppure nella misura in cui le arrivano accanto, facendole concorrenza macchine migliori. In entrambi i casi il suo valore, per quanto giovane e vitale essa possa essere ancora per il resto, non è più determinato dal tempo di lavoro realmente oggettivato in essa, ma dal tempo di lavoro necessario alla sua propria riproduzione o alla riproduzione della macchina migliore. Essa quindi è più o meno svalutata.» (Marx, Il Capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 448).
8 Patrick Artus & Marie-Paul Virard, La dernière chance du capitalisme, Odile Jacob, Parigi, 2021, pp. 145-146.
9 «Se l'uomo si distingue da tutti gli altri animali per l'illimitatezza e l'estensibilità dei suoi bisogni, d'altro canto non esiste un animale capace di contrarre nello stesso incredibile grado i suoi bisogni e di limitarsi, come lui, al minimo delle condizioni di vita, in breve non esiste un animale che possieda lo stesso talento di irlandesizzarsi.» (Karl Marx, Frammento dai materiali preparatori del «Capitale», in Karl Marx, Il Capitale, Einaudi, Torino 1975, vol. II, p. 1334).
10 In merito al Gruppo della Sinistra Comunista, fornisce qualche informazione Sandro Saggioro, nel secondo dei suoi due volumi sulla Sinistra Comunista «italiana» nel Secondo dopoguerra, dedicato al Partito Comunista Internazionale («Il programma comunista»): «All'inizio del 1969 a Torino [...] c'è l'uscita di un altro valido e importante elemento: Giampiero Angeletti. Angeletti darà vita con pochi altri ad un “Gruppo della sinistra comunista” che arriverà tra il '70 e il '72 ad avere una trentina di elementi e una certa notorietà. [...] Il gruppo verrà poi sciolto dallo stesso Angeletti nel 1972 con una decisione improvvisa e non ben giustificata. Parte degli elementi che si erano raccolti intorno a lui continuò a vedersi e si legò al nucleo animato da Roger Dangeville. Saranno queste forze che daranno vita alle Edizioni 19/75 che pubblicheranno una serie di volumi a partire dal 1979 [...]. Giampiero Angeletti morirà suicida negli anni Ottanta». (Sandro Saggioro, In attesa della grande crisi. Storia del Partito Comunista Internazionale «Il programma comunista» (dal 1952 al 1982), Colibrì, Milano 2014, pp. 191-192).
11 I grandi disastri minerari, alluvionali, quelli dovuti a dissesti montani, crolli di dighe, etc. (per citarne alcuni: Marcinelle, Polesine '51, Vajont, Liguria e Toscana '66, Valle Mosso '68, il recente sotto il Lago Michigan U.S.A.), provocano distruzioni e conseguentemente investimenti produttivi colossali. Ad es., al I Congresso nazionale dei geologi (Roma EUR 1971) è stato affermato che il costo per le distruzioni alluvionali dal 1951 ad oggi nella sola Italia è valutabile a molte migliaia di miliardi [di lire, ndr]; il rapporto della commissione interministeriale preposta allo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo prevede una spesa iniziale di 9.000 miliardi (cfr. il resoconto sul «Corriere della Sera» del 17-01-1971). Fatalità o irresponsabilità? Né l'una né l'altra. La natura è sollecitata dal sistema di produzione ad intervenire catastroficamente ovvero beneficamente. Le vie della Provvidenza sono infinite, ma è bene propiziare quelle più congrue. Le catastrofi continuano ad essere alla portata di ogni giorno, non malgrado i capitali «risanatori» investiti, ma in forza di questi. Costruire, distruggere, ricostruire. La metamorfosi del lavoro vivo in lavoro morto e di questo in quello procede en souplesse. Gli stanziamenti non vengono occultati e ingoiati dalla torbida burocrazia statale, vengono invece ben trattati e profittevolmente trasformati dalla dinamica imprenditoriale. Contrariamente a quanto crede l'uomo di buon senso tutto preso nella sua abietta miseria ad inferocirsi per le «greppie» politiche e i languori dei «rond de cuir».
12 Jay Forrester, del M.I.T., ha recentemente elaborato su commissione del Club di Roma fondato da Aurelio Peccei, un modello matematico della «situazione del genere umano» che, partendo dal 1900 giunge per estrapolazione al 2100. I fattori considerati – investimenti, popolazione, risorse naturali, inquinamento, qualità della vita – sono collegati per mezzo di interrelazioni matematiche. La cuspide dell'«eco-catastrofe» viene individuata nel 2060; dopo di che una reazione «razionale» dell'umanità ribalterà la tendenza. 
13 Nei confronti del capitale non possiamo che essere «atei»; il fondamento della negazione non può essere il «nuovo positivo».
14 Queste antitesi non sono in realtà che lati complementari della stessa struttura. «Ricchezza e povertà si equivalgono», Manoscritti, III; «la scienza della ricchezza è ad un tempo la scienza della rinuncia, della penuria, del risparmio, e giunge in effetti a risparmiare all'uomo il bisogno d'aria pura o di movimento fisico», ibid. (Le altre citazioni, salvo indicazioni diverse, quelle del testo e quelle riportate nelle note, sono tratte dai Manoscritti, III).
15 Partito che, come in passato, attingerà cervelli dal campo borghese. Nel fare questo non si determinerà in esso una divisione dialettica di braccio e mente. Le menti transfughe funzioneranno come braccia; come strumenti organici preposti ad indirizzare e a controllare, senza complimenti e complessi di sorta, l'azione proletaria. Il bel pensare rimarrà appannaggio degli intellettuali; capaci solo di sentire, rimanendo tali, il fischio del padrone dalle mille incarnazioni.
16 La magia estremistica riesce solo sulla base di una concezione ottimistica dell'uomo (del proletariato in particolare), alla quale fa da contrappeso quella dell'«uomo nero». Ma se «l'uomo è buono», allora, non è vero, come scriveva Brecht, «che il vitello è saporito», bensì che le sorti della storia dipendono da una dialettica invero sentimentale, perché essa è soprattutto «love story».
17 È vero che la rivendicazione «più soldi e meno lavoro» può essere letta così: più lavoro necessario, meno sopralavoro; quindi obiettivo comunista. Ora, a parte che l'amputazione del discorso sulla merce, denaro, salario, trasforma la traduzione di cui sopra in una «libera» interpretazione della determinatezza dei principi e della spigolosa coerenza della dottrina, non ci si deve dimenticare che «all'operaio è concesso di avere solo tanto di che vivere, e di voler vivere solo per avere». Ciò vuol dire che le richieste operaie vanno viste come prolungamento dell'offerta capitalistica, anche se questo avviene con un gioco di rifrazioni.
18 Ma è importante che il discorso irrisorio di Marx (Grundrisse) nei confronti «della difesa degli sviluppi locali dell'umanità e dell'idolatria della natura» sia inteso correttamente. Occorre, cioè, tenere conto che egli, con quel discorso, segue e riepiloga il corso rivoluzionario del capitalismo. È innegabile che l'universalismo economico capitalistico ha accelerato grandemente l'elaborazione della natura da parte dell'uomo, la creazione di una piramidale «seconda natura». Si tratta di colpire la concezione secondo la quale «la socializzazione della natura» e la «naturalizzazione della società» sono possibili partendo dal e col prodotto lordo della «seconda natura».
19 Le benedizioni della chimica: solo in Italia, nel biennio 1964-'66, sono stati impiegati 61.520.000 kg di antiparassitari, il cui «semiperiodo medio di degradazione» è di circa 10 anni. Intanto l'irradiazione degli alimenti prosegue con celerità. I cibi trattati al Cobalto 60 manterranno a lunga «una micidiale freschezza», in grado di provocare a molti una sofferta pace eterna. L'alimentazione prepara generazioni alla «grosses starben» cancerogena.
20 Nella «patria del socialismo» la concentrazione urbana nell'arco 1959-'70, per le città da 100.000 a 500.000 abitanti e da 500.000 a 2.000.000, è stata in percentuale rispettivamente del 57 e del 78%. La popolazione urbana nel 1970 nelle grandi e grandissime città, rappresenta il 36% del totale (contro il 6% del 1926). Le cifre, riportate da «Mercurio», n.1/1972, provengono da «Voprosy Ekonomiki». Come si vede il capitalismo assolve il proprio compito con precisione.
21 La dottrina comunista non ha da percorrere il viottolo dell'assillo razionalistico che va nella illusoria direzione di una esaustiva decifrazione mentale dei «perché» cosmici. Non lo fa né per agnosticismo né perché provvede a «girare» le risposte ad una super-ragione futura.

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