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Marx e la decrescita. Il caso Saito

di Jacopo Nicola Bergamo

saitoCambridge University Press ha finalmente pubblicato Marx in the Anthropocene. Toward the Idea of Degrowth Communism, dell’ormai noto professore Kohei Saito dell’Università di Tokyo. La curiosità della comunità accademica occidentale per il best seller giapponese dal titolo Hitoshinsei no Shihonron [Capital in the Anthropocene] potrà essere dunque soddisfatta? Sì, ma il libro che cercate è un altro ed è stato pubblicato solo in spagnolo, per ora, con il titolo El capital en la era del antropoceno. Datemi modo di chiarire l’equivoco partendo da una piccola digressione sull’autore e l’interesse per questo volume.

Kohei Saito godeva già di fama negli ambienti accademici marxisti grazie alla sua tesi di dottorato conseguita all’università Humboldt a Berlino, nella quale dimostra l’attenzione di Marx per i problemi ecologici, in particolare per la riduzione della fertilità dei terreni agricoli seguita all’avvento dell’agricoltura capitalistica; il tutto grazie a uno studio rigoroso dei manoscritti marxiani degli anni Sessanta e Settanta dell’800, pubblicati nella Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA²), ovvero la nuova edizione critica delle opere complete di Marx ed Engels. Questa tesi è stata poi pubblicata originariamente in tedesco e tradotta in altre sei lingue, sfortunatamente non in italiano, tra le quali l’inglese con il titolo Karl Marx’s Ecosocialism: Capital, Nature and the unfinished critique of political economy. Il volume è stato insignito del prestigioso premio Deutscher Memorial consacrando Kohei Saito come un riferimento per gli studi marxiani ed eco-socialisti, vicino alla tradizione della storica rivista statunitense Monthly Review e in continuità con l’interpretazione di John Bellamy Foster e Paul Burkett.

Quando si è scoperto che il suo secondo libro, pubblicato in giapponese nel 2020, aveva venduto la cifra record di mezzo milione di copie, la curiosità è esplosa. Una cifra difficile da raggiungere per un saggio di teoria politica, per quanto di natura divulgativa, soprattutto perché l’autore si definisce apertamente marxista e indica il comunismo come orizzonte politico adeguato alla sfida della crisi ecologica planetaria. Di questo libro sono filtrate poche informazioni in inglese, lingua canonica del mondo scientifico e accademico: giusto un paio di seminari, recensioni e poco altro. L’autore, il cui rigore scientifico era noto dal volume precedente, anticipava la scoperta di un Marx prossimo alla decrescita, eccitando sempre più gli animi sia degli scettici sia degli entusiasti di questa svolta.

Il testo appena uscito per Cambridge, Marx in the Anthropocene, ha un titolo molto simile alla traduzione letterale del best seller giapponese – Capital in the Anthropocene – ma si tratta di un altro libro, sempre di Saito, scritto direttamente in inglese. Riprende alcuni testi pubblicati altrove ed espande la sua interpretazione secondo la quale per l’ultimo Marx il comunismo sarebbe stato orientato alla decrescita. Dunque, il best seller giapponese non è ancora uscito in inglese, ma è stato pubblicato in spagnolo nell’ottobre 2022 con il titolo El capital en la era del Anthropoceno, per Penguin.

Questo libro ha sicuramente il merito di aver posto l’accento su alcune questioni fondamentali riguardo l’Antropocene e la crisi ecologica. Inoltre, critica brillantemente ed espone i limiti di alcune delle paventate soluzioni mainstream, come la crescita verde (p. 50), gli obiettivi ONU di sviluppo sostenibile (p.51) definiti polemicamente “oppio del popolo”, il disaccoppiamento tra crescita economica e crescita dell’impatto ambientale (p.60), e l’ottimismo tecnologico che posticipa gli urgenti interventi sociali necessari a risolvere il riscaldamento globale a un futuro indeterminato nel quale “l’onnipotenza della scienza avrà fabbricato su misura una soluzione tecnica al problema” (p. 75).

L’autore schematizza anche alcuni argomenti chiave dell’ambito dell’economia ecologica nella disputa con l’economia mainstream, per esempio il paradosso di Jevons – come, cioè, un migliorato rendimento produttivo tenda nel tempo ad aumentare il carico ambientale complessivo (p. 64); oppure il paradosso di Lauderdale, ossia che la ricchezza privata si fonda sulla rapina di quella pubblica (p. 205) e dunque pone come centrale la questione dell’esternalizzazione dei costi sociali ed ambientali nel capitalismo (p. 69).

Saito chiarisce inoltre il campo e il punto di vista dal quale lancia la sua proposta per un comunismo della decrescita, criticando alcune posizioni che godono, chi più chi meno, di un significativo consenso nella sinistra attuale, come l’accelerazionismo (p. 173), l’elettoralismo (p. 180), e il Green New Deal (p. 49), oltre non lasciare zone d’ombra sull’incompatibilità tra decrescita e capitalismo chiarendo dunque che la decrescita ambisce a un cambiamento di tipo qualitativo e non meramente quantitativo (p.85).

I riferimenti teorici riconoscibili nell’opera di Saito sono differenti, non solo provenienti dalla decrescita come Jason Hickel, ma anche simpatetici come Ulrich Brand – suo il concetto di modo di vita imperiale – oltre che l’economia della ciambella di Kate Raworth e persino l’eccentrico filosofo sloveno Slavoj Žižek. Tornano alcuni riferimenti oramai classici dell’eco-socialismo: John Bellamy Foster e Brett Clark per il concetto d’imperialismo ecologico, Andreas Malm per la teoria del capitale fossile, ma soprattutto André Gorz per la critica riservata alla tecnologia. Parrebbe anche implicitamente celarsi una parziale riconsiderazione di Jason W. Moore per i riferimenti alla natura a buon mercato e il riferimento al Capitalocene in chiusura di libro.

A mio parere, le maggiori problematiche di questo libro risiedono altrove, particolarmente in due aspetti: l’interpretazione del Marx decrescista e il livello politico del ‘che fare?’, che comprende l’individuazione del soggetto o dei soggetti politici della trasformazione.

Comincio da quest’ultimo. Per quanto riguarda i soggetti trasformativi individuati da Saito per l’instaurazione del futuro comunismo della decrescita, si ripresenta un certo cliché della sinistra movimentista. Saito individua tra questi le cooperative (tra le quali il modello basco di Mondragone), i gilet gialli francesi, i giovani per il clima e le varie associazioni di attivisti ecologisti nate negli ultimi anni, il municipalismo con Ada Colau in testa, oltre ai classici Zapatisti, Kurdi del Rojava e Via Campesina.

I riferimenti al mondo del lavoro sono pochi se non attraverso il cooperativismo e i gilet gialli, c’è una critica alle vie riformiste ed elettoraliste, ma nessuna menzione ai paesi del socialismo reale, nemmeno Cuba che forse sulla sostenibilità ecologica avrebbe da dire e da insegnare da dire. Il malessere per ciò che è stato e resta dei paesi del socialismo reale è esemplificato in quello che Saito analizza come uno dei quattro possibili scenari futuri, chiamato maoismo climatico in cui una maggior uguaglianza viene ottenuta attraverso una maggior concentrazione del potere statale. Altrove la condanna al socialismo che non rinuncia alla crescita è esplicita, e in tal mondo sembra coinvolgere ogni esperienza storica concreta in cui si è dato il socialismo.

Il concetto di comunismo della decrescita diviene dunque un concetto-ombrello, che riunisce i classici del movimentismo e del terzomondismo, anche quando questi soggetti non si definiscano in tal senso, né comunisti, né decrescisti, il tutto con una considerevole maggior enfasi sull’elemento generazionale (a cui Saito dedica una breve analisi attraverso la cosiddetta generazione Z, p. 103) piuttosto che su quello di classe. Come poi questi soggetti si debbano unire non è chiaro, sembra implicito un convergere spontaneo, tutto da dimostrare, verso un progetto comune di redistribuzione, tempo libero e difesa/affermazione dei beni comuni, buen vivir, giustizia climatica, reddito di base e autogestione.

Chiariamo: essendo un libro divulgativo, dunque di scienza popolare, è ovvio che fosse impossibile trattare tutte le questioni, ma il sospetto che il progetto politico che Saito ha in mente necessiti di ulteriori elaborazione viene confermato quando, in chiusura, prende in prestito il piano per la trasformazione della politologa di Harvard Erica Chenoweth, di riferimento per Extinction Rebellion e Ultima Generazione: perché il 99% riesca a imporre il comunismo della decrescita all’1% pare che la mobilitazione, nelle forme sopra menzionate, debba raggiungere il numero fatidico del 3,5% della popolazione, il tutto ovviamente in un orizzonte segnato dal pacifismo strategico. Tuttavia, sono numerosi i casi storici in cui in cui i numeri delle mobilitazioni hanno raggiunto tali cifre senza provocare cambiamenti sistemici, né riforme sostanziali, come avvenuto negli anni Sessanta nel Giappone di Saito, in cui le proteste contro il rinnovo del trattato di sicurezza Giappone-USA videro la mobilitazione di milioni di persone, pari al 7% della popolazione, senza che questo avesse particolari effetti. Per non parlare dei numeri oceanici delle mobilitazioni contro l’austerità in alcuni paesi europei (Spagna e Grecia in testa) durante la crisi del debito sovrano. Questo perché i numeri sono poco o nulla senza un piano strategico, e a volte nemmeno quello basta senza il maturare di alcune condizioni oggettive.

L’assenza di un piano è testimoniata anche nelle parti del libro in cui l’autore immagina una svolta verso il comunismo della decrescita che per attuarsi necessita di alcuni divieti nell’ambito dei consumi e della produzione, ma in assenza di Stato, partiti, classe organizzata e qualsiasi forma di costrizione fisica organizzata non si capisce chi e come dovrebbe attuare tali limitazioni.

Questo finora il piano politico del ‘che fare?’, al quale tuttavia l’autore potrebbe mettere mano in opere successive, cercando di meglio elaborare le sue proposte. Il piano fondazionale teorico di un Marx a favore della decrescita mi pare invece ancor più problematico, e in definitiva non proponibile su queste basi. Marx viene tripartito: un giovane Marx del Manifesto proponente il materialismo storico come determinismo, in cui il concetto di forze produttive è associato al determinismo tecnologico e condannato dunque al produttivismo (p. 125). Una seconda fase della maturità che culmina con la pubblicazione della prima edizione tedesca del primo libro del capitale, nel 1867, nel quale la teoria del metabolismo di Liibig gioca un ruolo fondamentale nella presa di coscienza della sostenibilità ecologica (p. 130). Dopo di che, secondo Saito, è possibile scorgere una rottura epistemologica di althusseriana memoria (p. 164), questa volta però posposta al 1868, anno in cui Marx rifiuterebbe il materialismo storico della gioventù e maturerebbe definitivamente la critica della crescita. La fondatezza di questo ragionamento si basa sugli scambi epistolari con la rivoluzionaria russa Vera Zasulič, che interrogava Marx allo scopo di mettere ordine rispetto al dibattito fra i rivoluzionari russi dell’epoca chiedendogli su che basi andasse fondato il socialismo in un paese ancora sostanzialmente segnato dai rapporti feudali. Saito sostiene che in quello scambio di lettere, in particolar modo nella prima di quattro bozze della lettera di risposta di Marx, si renda palese il suo ripensamento del comunismo in chiave decrescista. L’idea che l’antica comunità agricola russa del Mir possa rappresentare un germe della futura società sarebbe poi rafforzato da una sua ripresa per l’edizione russa del Manifesto, nonché da alcuni passaggi nella critica al programma di Gotha. L’amico Engels, con cui Marx ha condiviso opere, vita e politica, pare non aver tenuto conto di questa maturazione teorico intellettuale o non essersene stato al corrente, cosa che ha influito nell’edizione postuma del Capitale.

Leggere questa fondazione dell’interpretazione di un Marx decrescista, mi ha riportato alla mente quanto scritto da Timpanaro nel suo libro Sul Materialismo. Timpanaro sostiene che l’operazione per adeguare Marx all’ultima moda accademica sia quella di separare Marx da Engels ed eventualmente scindere Marx stesso, fra uno giovane e uno maturo, dopodiché scaricare tutte le accuse di positivismo, meccanicismo, determinismo, idealismo, umanismo o anti-umanismo sull’altro e salvare il Marx giovane o maturo come il vero Marx, o comunque quello che conta o interessa. Diciamo che è complesso non cogliere somiglianze in questa operazione – che può ovviamente essere fatta in perfetta buona fede.

Una delle inconsistenze storiche di questa interpretazione è la difficoltà di credere che l’amico Engels non potesse sapere di questa svolta determinante del pensiero di Marx, considerando la costanza con la quale i due si confrontarono per i quindici anni successivi al 1868 e fino alla morte di Marx nel 1883 e che nel 1870 Engels, dopo aver venduto la fabbrica ereditata dal padre, si trasferisce a Londra a poche centinaia di metri da Marx proprio per intensificare il lavoro politico nell’Internazionale.

Inoltre, il presupposto per cui il materialismo storico sarebbe puro determinismo, perché la tendenza allo sviluppo delle forze produttive è equivalente allo sviluppo tecnologico, mi pare una dichiarazione di resa incondizionata a quelle argomentazioni che dalla decrescita attaccano il marxismo. Leggendo lo stesso Manifesto, nonché passaggi dell’Ideologia tedesca, ma anche di Salario prezzo profitto e del Capitale, mi pare che la tendenza allo sviluppo delle forze produttive sia una faccenda molto più complessa, dialettica e sicuramente non circoscritta unicamente alla tecnologia. Un argomento ampiamente discusso anche nelle pagine della Monthly Review a cui Saito in precedenza esprimeva un maggior grado di vicinanza.

Il punto è che se il tentativo di Saito è quello di mostrare come Marx è tuttora un pensatore centrale, anche nell’epoca dell’Antropocene, non credo che questo libro non credo renda un buon servizio allo scopo. È infatti possibile accettare tutta la pars destruens su Marx di Saito, senza poi accettare quella costruens basata su frammenti e lettere. In questo modo Saito sottrae Marx al suo tempo storico e al suo contesto, per renderlo appetibile ai soggetti della trasformazione da lui individuati, ma gioca le opere maggiori dell’autore contro quelle minori e il risultato di tale processo non può che essere quello di una sostanziale squalifica con diritto d’appello su questioni minori. Saito si sforza di trovare una rottura epistemologica in Marx, ma molto probabilmente questa rottura è avvenuta all’interno del suo percorso di ricerca, tanto che in parte Saito sembra sconfessare sé stesso quando sostiene che la sua prima opera si conformava nell’accettazione dello status quo della comunità marxista, che può accettare un Marx ecologista, perché politicamente corretto, ma non un Marx decrescista (p. 166). Altri famosi autori della decrescita hanno utilizzato Marx, come Jason Hickel nel suo Less is More, senza la pretesa di rifondare un marxismo decrescista. Saito si è spinto oltre, ma su una fondazione tutto sommato debole (a meno che il libro di Cambridge non solo porti ulteriori argomenti, ma ne cambi radicalmente l’impostazione). Personalmente credo poi che, nel panorama italiano, il libro di Emanuele Leonardi Lavoro, Natura, Valore fondi su ben più solide basi l’incontro tra marxismo e decrescita.

Forse un percorso differente e più fruttuoso si sarebbe potuto ottenere nella direzione opposta: ovvero leggendo Marx nella continuità della discontinuità dell’evoluzione del suo pensiero, ristabilendo il materialismo storico sulla base di una concezione allargata del concetto di forze produttive, magari qualificando la decrescita come un obiettivo dei comunisti nell’Antropocene, sulla base del superamento dell’alienazione della produzione dalla natura, così da essere in grado di decidere quanto produrre, come produrre, perché e per chi. Questo possibile percorso, scomoda meno Marx dal suo tempo storico, ma sviluppa il pensiero marxista e la ricerca su alcune importanti questioni quale quella della pianificazione, troppo spesso solo evocata ma poco qualificata, andando più a fondo nella questione del soggetto della trasformazione e della strategia da attuare.

Nonostante tutto questo, bisogna fare un plauso al libro di Kohei Saito, che è riuscito a portare al grande pubblico e soprattutto alle generazioni più giovani una critica al capitalismo come causa della crisi ecologica, a partire da Marx e dall’idea di comunismo come risposta. Finalmente un libro che esce dagli oramai sempre più ristretti spazi degli addetti ai lavori. Qualcuno potrebbe sostenere che la confusione generata fa più male che bene; io credo invece che l’astuzia della ragione stia già operando, tanto che in seguito alla pubblicazione del libro di Saito le vendite del Capitale di Marx in Giappone hanno registrato un forte incremento.

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