Print
Hits: 1729
Print Friendly, PDF & Email

rottacomunista

Libia, flussi di guerra

I militari italiani, i migranti, gli “interessi nazionali”

di Valeria Poletti

brigata sassariIn Libia l’esercito italiano è presente con forze speciali, addestra i militari legati ad una delle parti in conflitto, invia 300 parà della Folgore a protezione dell’ospedale militare allestito per assistere i feriti della milizia di Misurata, mantiene la copertura aerea attraverso la portaerei Garibaldi e i caccia dell'Aeronautica schierati nelle basi di Trapani, Gioia del Colle e Sigonella oltre ai droni dell'Aeronautica militare, monitora i confini sud dove intende impiantare una propria base militare, è presente con le sue navi dal 2015 per presidiare le installazioni ENI al largo di Mellitah.

Senza clamore, cioè senza che ne sia data informazione, la Brigata Sassari (precedentemente e attualmente operativa in Afghanistan e in Iraq) è ora sbarcata in Libia con il 3° Bersaglieri(1).

L’Italia ha codiretto, insieme a Francia ed Etiopia, la missione in appoggio alle forze del G5 Sahel( 2) (Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania and Niger) che ha iniziato le operazioni “anti-terrorismo” alla fine di ottobre 2017(3) ed è finanziata dagli Stati Uniti con 60 milioni di dollari(4), ha firmato un accordo di cooperazione militare con il Niger (accordo del quale, come riporta Analisi Difesa il 27 settembre, non sono stati resi noti i dettagli)(5).

 

Un'altra missione umanitaria?

Contro i migranti l’Italia schiera la propria forza militare nelle retrovie, dietro la prima linea degli ausiliari autoctoni dell’impero. Che siano loro a sbarrare le vie di terra e di mare verso la costa nord del Mediterraneo! Noi ci mettiamo i finanziamenti, gli istruttori e i mezzi militari, i servizi di intelligence, la direzione strategica. Per contrastare i flussi migratori verso le nostre coste, alla fine del luglio scorso il Consiglio dei ministri ha approvato la missione che prevede l’invio di altre navi, aerei, di un sottomarino e alcuni droni, ma ... i militari italiani non combattono, dunque non fanno la guerra! E allora cosa stanno facendo?

 

Una missione diplomatica?

Dopo essersi sbarazzato dei testimoni scomodi – impedendo di fatto alle ONG (che per mesi hanno praticato il salvataggio in mare dei migranti) di navigare nelle acque internazionali di fronte alla Libia – il governo italiano sottoscrive intese con una delle parti in causa in un Paese di fatto senza Stato, stringe accordi e remunera le milizie islamiste che ieri imbarcavano i migranti e oggi li sequestrano in campi di detenzione inumani sul territorio libico. Tutto ciò per gestire i rimpatri forzati e impedire gli sbarchi sul territorio nazionale. Diplomazia, non guerra!

 

Aiutiamoli a casa loro

Truppe speciali europee e italiane si posizionano alle frontiere meridionali della Libia in attesa che questo governo fantoccio o il prossimo chiedano loro di intervenire per cacciare l’ISIS dalle fasce di territorio che avranno conquistato grazie al mercato degli africani trasformati in migranti dagli investimenti dei Paesi capitalisti occidentali e dai programmi dell’FMI e della Banca Mondiale. Grazie, cioè, a quel processo di “globalizzazione”, cioè di ristrutturazione economica a favore degli interessi degli investitori occidentali, che scarica sulle popolazioni africane i costi dell’estrattivismo e del danno ambientale. Quel processo che Pride Mkono, coordinatore nazionale di FES Southern Region Alumni Association Zimbabwe, definisce “una sorta di genocidio socioeconomico”.

 

Casa loro, cioè casa dei nostri "interessi nazionali”

«Sappiamo benissimo che l’apertura di canali legali [di immigrazione, ndr] è una battaglia politica in Europa, in ogni Paese. Personalmente credo che l’Europa abbia bisogno di immigrazione regolare. Per vari motivi: perché ci siamo presi un impegno, perché è un modo per combattere quella illegale, ma anche perché ci serve dal punto di vista economico e demografico»(6).

Le parole della Mogherini, riportate da la Stampa del 29 novembre 2017, inquadrano la questione del controllo dei flussi migratori verso le nostre coste nel contesto di quanto la nostra classe dirigente intende per “interesse nazionale”. Non soltanto la competizione con gli altri Stati per aggiudicarsi le fonti energetiche o, in generale, le materie prime, non soltanto la promozione delle attività d’impresa oltre-confine e dei profitti che ne derivano oltre a quelli provenienti dall’interesse sui prestiti, ma un modello di sviluppo che proietta all’esterno il conflitto sociale.

Trattando l’essere umano come materia prima – con gli inevitabili scarti – elimina semplicemente il soggetto detentore di diritti (diritti conquistati in secoli di lotta di classe) e fa della contrapposizione “inclusione-esclusione” l’unico fattore negoziabile. La chiamano politica di integrazione: ciò che è integrabile è quella parte di manodopera che trova spazio nel ciclo produttivo contribuendo alla tendenziale compressione dei salari e alla deregolamentazione, allo sgravio dei costi pubblici per il sistema assistenziale (servizi alla persona e agli anziani) scaricati ai privati, alla selettività dell’offerta a bassa qualificazione che supporta le mini-imprese parassitarie del sistema economico. Il surplus deve restare a morire nelle miniere d’oro (Ciad), di coltan e cobalto (Congo), di uranio (Mali) nei Paesi di origine per sostenere lo sviluppo tecnologico in Occidente.

Come spiega bene la Mogherini,

«A quel punto potremmo mettere in campo un vero modello virtuoso: noi finanziamo Iom (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni(7), ndr) e Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) per organizzare i rimpatri volontari e sosteniamo i progetti per permettere a queste persone di iniziare a ricostruirsi una vita nei loro Paesi di origine. Che però devono essere pronti a riaccoglierli».

Cioè piegarsi ad angolo retto alle direttive del Fondo Monetario Internazionale e dei suoi piani di aggiustamento strutturale

“Noi” (cioè i nostri governi con le risorse economiche sottratte ai contribuenti) forniremo in prestiti quella parte di ricchezze che abbiamo loro sottratto attraverso gli interessi pregressi sul debito estero e che avrebbero potuto essere impiegati in costruzione di infrastrutture e sviluppo sociale, in istruzione, sanità, previdenza. Aggravando il debito e la dipendenza economica e politica delle nazioni africane che ci si appresta a spartire attraverso guerre inter-europee combattute per procura da milizie locali, quelle islamiste incluse.

Quanti morti costerà l’operazione “aiutiamoli a casa loro” non è preventivabile e non è previsto essere questione di pubblico interesse.

 

E a casa nostra?

All’interno delle “democrazie” europee, ciò che viene integrato è un nuovo modo di condurre l’attacco ai diritti sociali e dei lavoratori: le politiche securitarie, la negazione degli spazi di mediazione politica e sindacale, l’avanzare delle destre populiste che aggregano interessi e soggetti sociali tra loro confliggenti in nome del prioritario “interesse nazionale”. L’essere esentati dal lavoro sporco, pericoloso, dequalificato, domestico-assistenziale (demandato ai migranti) sarà, per i giovani autoctoni, la compensazione al loro lavoro precario, de-contrattualizzato, differito.

Una nuova frontiera interna separa i giovani europei da quegli altri giovani immigrati che ne condividono il disagio sociale e pagano insieme a loro il prezzo della “crisi” di ristrutturazione capitalistica e delle politiche di guerra. Quei giovani immigrati che avrebbero potuto condividere con loro un movimento per il riscatto e l’emancipazione sociale e che, invece, sempre più spesso trovano nella rivolta identitaria l’unica alternativa al ghetto senza muri che l’organizzazione della produzione riflette nella convivenza sul territorio. È una frontiera che chiude l’orizzonte ad una prospettiva di progresso sociale e apre la strada ad una civile “guerra tra poveri”.

A questo fallimento, di cui le organizzazioni della ex-sinistra istituzionale e quelle dei movimenti sono corresponsabili, è già stata preparata una risposta. Le tecniche di contro-insurrezione sperimentate nei teatri di guerra (Somalia, Libano, Afghanistan, Iraq, Libia, per quanto riguarda gli interventi italiani) trovano applicazione sul territorio nazionale: alla limitazione dei diritti e degli spazi di confronto politico si associano la sorveglianza sempre più invasiva delle aree urbane, l’interferenza nelle comunicazioni via web, l’impiego crescente delle forze armate in funzione di tutela dell’ordine pubblico, la riorganizzazione ed estensione delle parti di territorio occupate da installazioni e basi militari. In due parole, le politiche securitarie avviate già nel 2008 con l’operazione “Strade sicure”.

A casa nostra comincia a delinearsi la realtà della guerra. Dal sito web della commissione europea apprendiamo che «La comunicazione congiunta adottata oggi identifica i passi da compiere per superare gli ostacoli che frenano la circolazione del personale e delle attrezzature militari nell'UE al fine di agevolarne e accelerarne la mobilità per reagire in modo rapido ed efficace alle crisi interne ed esterne. (…) C'è una crescente richiesta di coordinamento e collaborazione tra gli Stati membri nel campo della difesa. Per questo motivo, contestualmente ai progressi in atto nella cooperazione strutturata permanente allo scopo di rendere la nostra difesa più efficace, abbiamo deciso di rafforzare ulteriormente la mobilità militare tra gli Stati membri e in collaborazione con la NATO"»(8).

 

Di chi è il nostro interesse nazionale?

«Eni è il motore degli interessi strategici dell’Italia nel mondo: un modello di sviluppo economico, energetico e geopolitico coniugato con la responsabilità sociale», parole di Gentiloni(9).

Attualmente la Libia rappresenta circa il 20 per cento della produzione d’idrocarburi complessiva di Eni e ENI è l’unica multinazionale attiva tanto nell’Est quanto nell’Ovest del Paese. Il greggio libico, pregiato perché leggero e a basso contenuto di zolfo, rappresentava nel 2010 il 25% delle nostre importazioni; il gas è, per la quasi totalità, esportato in Italia attraverso la conduttura sottomarina Greenstream; ENI, che ha partecipazioni in varie concessioni per l’estrazione, ha ripreso nel 2012 le attività di esplorazione offshore al largo della costa della Tripolitania. Finmeccanica si era aggiudicata contratti di grande importanza per la fornitura di velivoli, Ansaldo nel settore delle telecomunicazioni e Selex in quello dei sistemi radar. Piccole e medie imprese italiane hanno tuttora rilevanti collocamenti in Libia, ma altrettanto importanti sono gli investimenti libici in essere attualmente in Italia, primo fra tutti quello in UniCredit, ma anche in Fiat, Eni e Finmeccanica.

Ma l’”interesse nazionale” dell’ENI e del suo commesso viaggiatore Gentiloni non si ferma ai confini della Libia: «Il premier, infatti, con al fianco i vertici di Eni, ha svolto diversi giorni di “safari del gas” in vari Paesi africani. «Oltre ad aver ribadito la poderosa presenza di Eni in Tunisia – dove passa il gasdotto Transmed che vi trasporta il gas dell’Algeria (secondo fornitore italiano dopo la Russia), in Angola, l’entourage italiano ha firmato accordi che porteranno all’Eni quasi il 50% dei diritti su Cabinda North, una sorta di Eldorado energetico. In Costa d’Avorio, Eni ha acquisito il 30% del blocco esplorativo offshore CI-100, e in Ghana ha messo in produzione l’Offshore Cape Three Points Block (Octp). In questi progetti, considerati prioritari dalla stessa Banca Mondiale, si trovano giacimenti per 41 miliardi di metri cubi di gas e 500 milioni di barili di petrolio»( 10). Ed ENI, attraverso la sua controllata LEOC, detiene una quota del 60% delle concessioni per lo sfruttamento del campo di Zohr nelle acque egiziane, in compartecipazione con la russa ROSNEFT e la britannica BP.

L’Italia, insomma, con il suo apparato diplomatico e militare, è in corsa per la spartizione dell’Africa e delle sue risorse. La guerra per i pozzi, iniziata nel 2011 con l’attacco aereo francese, non è conclusa. Il governo Macron, seguendo la tradizione di tempestivo protagonismo interventista francese, ha già spostato centinaia di militari ancora stanziati nella regione del Sahel come parte di Opération Barkhane , cui fornisce supporto logistico e aereo, all’inizio di novembre(11).

Gli interessi francesi in Libia sono oggettivamente in competizione con quelli italiani: non soltanto TOTAL ambisce a sottrarre all’ENI la supremazia sui contratti petroliferi, ma la Francia si trovava a competere con l’Italia sul mercato delle armi. Mentre il Regno Unito prevedeva nel 2009 di investire 20 miliardi di dollari nella produzione petrolifera libica nei successivi 20 anni.

 

Interesse nazionale o guerra per l'egemonia?

Ma il modo migliore per fare la guerra è farla combattere dagli altri. Così il presidente francese ha impegnato a collaborare la forza congiunta del G5 Sahel, 5000 militari da Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Burkina Faso che dovranno contrastare l’azione dei gruppi terroristici nell’area a partire dalla fine di settembre del 2017(12). Mentre gli Stati Uniti hanno schierato droni e soldati in Niger fino dal 2013 per “combattere il terrorismo”(13).

Uno scontro di interessi nazionali che rimette sul mercato le risorse e le ricchezze della Libia (che includono le riserve della Banca Centrale e del Fondo Sovrano libico posteggiato a Londra). Per il controllo di questo mercato le potenze interessate si fanno e si faranno la guerra attraverso le milizie subordinate africane fino a che non dovranno impiegare mercenari e contractors e, non è escluso, i propri eserciti. Per approdare ad una possibile spartizione delle zone di influenza: alla Francia il Sahel e il Fezzan, alla Gran Bretagna la Cirenaica, all’Italia la Tripolitania. Gli Stati Uniti giocano una partita strategica perché l’Europa resti divisa e sia eventualmente coinvolta nella più generale guerra per il frazionamento dell’Africa intera contro l’avanzata dell’imperialismo cinese nel continente e contro le ambizioni di Russia, Qatar, Turchia anch’esse impegnate nella competizione.

 

Il prezzo dell'interesse nazionale

Anche senza stare a fare i conti in miliardi di euro sottratti alla previdenza, alla sanità, alla scuola pubblica dalle spese militari e a parte l’ovvia considerazione che un “interesse nazionale” che confligge con l’interesse generale degli esseri umani e del pianeta non può rappresentare che l’interesse parziale di oligarchie che detengono il potere economico e politico, possiamo domandare quanto la difesa degli approvvigionamenti petroliferi dell’ENI risponda almeno all’interesse immediato dei cittadini italiani. Esiste un interesse collettivo nel quale trovino conseguimento o punto di equilibrio gli interessi delle diverse componenti sociali? O, piuttosto, esiste una gerarchia di interessi che coinvolge in diverso modo le classi sociali dall’alto al basso?

Apparentemente la maggiore ricchezza delle multinazionali nel mondo occidentale ha una ricaduta sul benessere dei suoi cittadini. L’esproprio sistematico delle risorse del cosiddetto Terzo Mondo ha permesso lo sviluppo industriale delle nazioni imperialiste tanto quanto lo sviluppo diseguale che ne è conseguito ha privato le popolazioni della periferia del mondo di una loro propria possibilità di sviluppo.

I dividendi di questa rapina, inegualmente ridistribuiti, hanno avuto ed hanno un prezzo anche per le società del centro. La guerra per l’egemonia all’interno del mondo capitalista, la guerra alla quale stiamo partecipando, ha portato nelle nostre metropoli disoccupazione e povertà diffusa grazie alla delocalizzazione del lavoro produttivo nelle aree a bassa retribuzione, ha annullato la potenzialità della contrattazione sindacale e ha spostato il conflitto sociale dal piano della lotta di classe a quello della concorrenza tra lavoratori e tra inclusi ed esclusi, tra proletari italiani e proletari immigrati. La guerra alla quale stiamo partecipando in nome della difesa dell’interesse nazionale delle nostre multinazionali produce sistemi politici sempre più antidemocratici perché la mediazione politica, viene sospesa in favore della repressione grazie alla campagna securitaria. La guerra nella quale tutta la società è arruolata vede le nostre università affiancarsi all’industria bellica verso la quale sempre più viene direzionata la ricerca.

La distribuzione e la vendita di energia arricchisce certamente una classe dirigente collusa e assunta al servizio delle multinazionali, arricchisce in misura minore quella catena di imprese di servizio che, non producendo beni, non impiega manodopera ma sfrutta il proletariato del terziario, contrarrà i guadagni della borghesia tradizionale, lascerà ai nostri giovani la scelta tra precarietà perpetua ed emigrazione.

La nostra guerra contro le aspirazioni all’autodeterminazione politica e alla sovranità sulle risorse dei popoli usciti dalla colonizzazione, e che ora subiscono un attacco militare e terroristico senza precedenti, ha già prodotto quell’arretramento civile che favorisce le destre islamiche che, opponendo etnicismo e settarismo ai movimenti progressisti del passato e alle rivendicazioni delle Primavere arabe, hanno fatto del terrorismo un’arma per la soppressione dei diritti nei Paesi arabi e per combattere una loro guerra per l’egemonia dentro e sul mondo arabo, all’interno del sistema capitalista attuale con il quale sono perfettamente compatibili.

All’orizzonte c’è la devastazione dell’ambiente e la proliferazione atomica: è questo il nostro interesse?


Note
1 vedi: https://www.facebook.com/ConlaBrigataSassari/videos/1576638079071613/.
2 «La G5 Sahel Joint Force è formata da Burkina Faso, Mali, Mauritania, Niger e Ciad, con il supporto dell’Unione Africana, delle Nazioni Unite e di alcuni paesi come Francia e Usa. È nata a febbraio del 2014 e ha come obiettivo migliorare il coordinamento dei paesi a livello regionale per lo sviluppo di politiche e di attività di difesa» ( Washington finanzia la G5 Sahel Joint Force – 31 ottobre 2017 – http://www.analisidifesa.it/2017/10/washington-finanzia-la-lotta-al- terrorismo-islamico-nel-sahel/)
3 Cfr.: Security Council Ambassadors brief on Sahel mission, lend support to G5 Sahel Force – 26 ottobre 2017 – http://www.onuitalia.com/2017/10/27/g5-sahel-council-ambassadors-brief-sahel-mission-lend-support-g5-sahel- force/http://www.onuitalia.com/2017/10/27/g5-sahel-council-ambassadors-brief-sahel-mission-lend-support-g5-sahel- force/; e Esclusivo: la forza "G5 Sahel" a cinque nazioni avvia le operazioni in Mali – 4 novembre 2017 - http://www.france24.com/en/20171104-exclusive-five-nation-g5-sahel-force-launches-operations-mali; http://www.onuitalia.com/2017/12/09/migrants-iom-niger-welcome-first-charter-tripoli-new-italy-libya-joint-operation- room/.
4 Cfr.: Washington finanzia la G5 Sahel Joint Force – 31 ottobre 2017 – http://www.analisidifesa.it/2017/10/washington- finanzia-la-lotta-al-terrorismo-islamico-nel-sahel/.
5 Cfr.: Firmato l’accordo di cooperazione militare tra Italia e Niger – 27 settembre 2017 – http://www.analisidifesa.it/2017/09/firmato-laccordo-di-cooperazione-militare-tra-italia-e-niger
6(http://www.lastampa.it/2017/11/29/esteri/summit-ueafrica-mogherini-i-paesi-africani-facciano-la-loro-parte-
riprendendosi-i-migranti-QFifnZX3DQzQcR64Fu5daL/pagina.html)
7 «L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM/IOM) è stata fondata nel 1951 a Ginevra. È la principale Organizzazione Intergovernativa in ambito migratorio e conta 166 Stati Membri. Da settembre 2016 è diventata Agenzia Collegata alle Nazioni Unite. Roma è la sede dell'Ufficio di Coordinamento per il Mediterraneo». «L’OIM sta intensificando il programma di Ritorni Umanitari Volontari dalla Libia, che dall’inizio del 2017 ha permesso a più di
14.007 migranti di poter tornare nel proprio paese di origine. E’ già in corso un piano su larga scala di ritorni per via aerea attraverso il quale l’Organizzazione conta di aiutare 15.000 migranti a ritornare a casa dalla Libia entro la fine dell’anno. Swing: "E' nostro dovere, come priorità assoluta, portare i migranti fuori dai centri di detenzione"». (http://www.italy.iom.int/)
8 Nuove iniziative dell'UE per migliorare la mobilità militare – 10 novembre 2017 – https://ec.europa.eu/italy/news/20171110_nuove_iniziative_UE_mobilita_militare_it
9 le riporta il Giorno dell’11 maggio 2017 (http://www.ilgiorno.it/sud-milano/economia/gentiloni-eni-1.3105981)
10 Francesco Luise, Gentiloni viaggia ENI. Neocolonialismo in agguato, ma il Piano Marshall per l’Africa può essere un’opportunità – 1 dicembre 2017 – http://www.farodiroma.it/gentiloni-viaggia-eni-neocolonialismo-agguato-piano- marshall-continente-africano-puo-unopportunita-f-luise/.
11 Cfr.: Esclusivo: la forza "G5 Sahel" a cinque nazioni avvia le operazioni in Mali – 4 novembre 2017 – http://www.france24.com/en/20171104-exclusive-five-nation-g5-sahel-force-launches-operations-mali
12 cfr.: Difesa: Mali, inaugurato quartier generale forza congiunta del G5 Sahel – 11 settembre 2017 – https://www.agenzianova.com/primopiano/428/difesa-mali-inaugurato-quartier-generale-forza-congiunta-del-g5-sahel
13 Cfr.: Faith Karimi (CNN), US has drones and hundreds of troops in Niger. Here's why – 18 ottobre 2017 – http://edition.cnn.com/2017/10/18/politics/niger-american-troops-drones/index.html
Web Analytics