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Elezioni in Turchia, tamam o devam?

di Fabio Salomoni

erdogan elezioni“Sfregiare il carisma” è un’espressione dello slang della lingua turca per indicare un episodio, un inciampo imprevisto che all’improvviso incrina l’aura di una persona rivelandone la fragilità. Lo scorso 8 maggio Twitter ha annunciato che il trend più popolare della giornata rilanciato da più di un milione di utenti era una parola turca, TAMAM. Una parola comunissima, una di quelle che anche il turista mordi e fuggi impara velocemente, che serve generalmente ad esprimere accordo oppure in alcuni casi per dichiarare di averne abbastanza – Basta così. Proprio Il giorno prima il presidente Erdoǧan in un discorso pubblico aveva pronunciato questa parola apparentemente per rassicurare gli avversari che lo sospettavano di non avere nessuna intenzione di lasciare il suo posto: “Se il popolo dovesse dire basta così, tamam, noi ci faremo da parte”. Immediatamente questa parola dal suono così innocente si è velocemente trasformata in un boomerang diventando la parola d’ordine dei suoi oppositori nella campagna elettorale in vista delle elezioni presidenziali del prossimo 24 giugno. A nulla sono valsi i tentativi di rimediare all’incidente accusando i twittatori di essere simpatizzanti del terrorismo, che fosse quello del golpista Fethullah Gülen oppure quello dell’immancabile PKK. Goffo anche il tentativo di rilanciare un’altra parola d’ordine, devam – si continua. Tutto inutile, il danno ormai era fatto e appunto il carisma personale del Presidente sfregiato. Il carisma, secondo Max Weber, è costituito dal (presunto) possesso da parte di una persona di qualità eccezionali. E queste qualità per diventare carisma devono essere poi riconosciute come tali da un pubblico che finisce così per riconoscere in quella persona un leader. È indubbio che il carisma personale di Erdoǧan rappresenti una delle chiavi di lettura principali per leggere la sua straordinaria parabola politica, fin dalla sua ormai lontana elezione a sindaco di Istanbul nel 1994.

Tamam non è stata però la prima occasione in cui il carisma di Erdoǧan si è appannato. Per rimanere al passato recente, il primo duro colpo all’aura personale e alla carriera politica del presidente era arrivato alle elezioni del 2015 quando la sua esponenziale cavalcata trionfale, cominciata nel 2002, aveva subito un rallentamento e il Partito della Giustizia e dello Sviluppo – AKP – aveva perso quasi il 10% dei consensi e rischiato di dover accettare l’onta di un governo di coalizione. In quel caso grazie al generoso sostegno del PKK che aveva contribuito a riaccendere la violenza nel sud-est, nuove elezioni avevano restituito a Erdoǧan e al suo partito il maltolto. Nell’estate successiva il tentativo di colpo di stato attribuito al suo ex sodale Fethüllah Gülen aveva offerto un’occasione per rivitalizzare una delle dimensioni principali del carisma di Erdoǧan: quella della vittima che subisce l’ingiustizia di attacchi proditori, prima dell’establishment kemalista poi di un ex compagno di viaggio, ma che tuttavia riesce a rialzarsi. Lo scampato pericolo ha scatenato la rappresaglia indiscriminata di Erdoǧan ma anche la volontà di accelerare il passaggio da una democrazia plebiscitaria a una democrazia dai caratteri marcatamente autoritari. Il referendum dell’aprile 2017 avrebbe dovuto sancire questo passaggio trasformando il paese da una repubblica parlamentare a una repubblica presidenziale molto sui generis. Nonostante l’enorme e ineguale spiegamento di mezzi messo in campo dalla propaganda presidenziale, il nuovo assetto istituzionale venne tuttavia approvato da una maggioranza risicata, 51,4%, con il corollario di sospetti sulla regolarità nello spoglio dei voti. Lo scatto che all’epoca colse il presidente Erdoǧan, pochi minuti prima dell’annuncio dei risultati del referendum, il suo volto corrucciato, quasi impaurito, rappresenta un’immagine iconica del suo carisma sfregiato. Anche in questo caso lo scampato pericolo ha incoraggiato un ennesimo giro di vite sulla società, rinvigorendo un clima da caccia alle streghe, alimentando una paranoia generalizzata, trasformando il sistema giudiziario in un’arbitraria clava nella mani del potere politico con il ben noto corollario di purghe e arresti.

La consacrazione del nuovo assetto istituzionale sarebbe dovuta essere sancita da elezioni presidenziali previste per il 2019. Sebbene più volta smentita la possibilità di tenere elezioni anticipate, dall’inizio dell’anno numerosi segnali mostravano come si stessero accelerando i preparativi elettorali. In primo luogo, la vendita da parte del gruppo Doǧan di quello che restava del suo impero mediatico a un imprenditore molto vicino a Erdoǧan. Tra i gioielli di famiglia ceduti vi erano la più importante agenzia di stampa privata e il quotidiano “Hürriyet”. Per decenni considerato “la nave ammiraglia della stampa turca”, portavoce dell’estabishment kemalista, il quotidiano era stato negli anni ’90 uno degli strumenti principali nella guerra all’Islam politico che aveva portato al cosiddetto golpe postmoderno del 1997. Una guerra anche personale nei confronti dello stesso Erdoǧan. “Quest’uomo non diventerà nemmeno un impiegatuccio dell’anagrafe” uno dei tanti titoli dedicati dal giornale e che Erdoǧan ha mostrato più volte di non aver dimenticato. La vendita di “Hürriyet”, “la fine di un’epoca” come ha commentato un giornalista di lungo corso, è stata per il presidente da un lato l’occasione per saldare vecchi conti, ma anche per garantirsi il pressoché totale allineamento dei principali media del paese alle sue posiziono. Il secondo segnale di preparativi elettorali in corso è stata una riforma che consentiva la creazione di coalizioni elettorali. La riforma ha sancito di fatto l’istituzionalizzazione dell’alleanza tra l’AKP e il partito nazionalista MHP esistente fin dal dopo golpe del 2015. È difficile non leggere in questo ricorso a uno strumento, la coalizione, da sempre demonizzato da Erdoǧan, il segno di una preoccupazione per l’esito del voto. Anche la campagna militare nella Siria del nord contro le milizie curde di Afrin, accompagnata da una straordinaria mobilitazione mediatica che aggiornava in tempo reale il pubblico turco sul numero delle perdite inflitte “ai terroristi”, al di là dei suoi obiettivi politici e strategici, appariva soprattutto come una gigantesca macchina di propaganda che titillando l’orgoglio militar-nazionale del paese, anche di parte dell’opposizione, mirava smaccatamente a ricompattare la nazione, e soprattutto l’elettorato, intorno alla figura del leader.

Sebbene nell’aria da tempo, l’annuncio della data delle elezioni, “molto anticipate” per usare un’espressione felice coniata dall’ironia turca, ha preso tutti in controtempo. Le ipotesi e le dietrologie per spiegare questa decisione abbondano ma sono l’andamento dell’economia del paese e le sue prospettive incerte ad apparire l’elemento decisivo. Nonostante i proclami su tassi di crescita “cinesi” e gli immancabili riferimenti alle realizzazioni infrastrutturali dell’era Erdoǧan, l’economia arranca. Crescono inflazione e disoccupazione, la lira turca si svaluta progressivamente e immancabilmente crescono anche i segnali di preoccupazione di mercati, investitori esteri e agenzie di rating ed emergono le debolezze congenite del modello di sviluppo scelto da Erdoǧan e dai suoi. Paradossalmente poi l’annuncio delle elezioni anticipate ha avuto l’effetto di accelerare il processo di svalutazione della lira tanto da costringere Erdoǧan a un viaggio lampo a Londra per rassicurare gli ambienti finanziari.

Sul piano politico invece l’annuncio delle elezioni anticipate ha avuto l’effetto di produrre un piccolo miracolo. La profonda frammentazione e conflittualità della società turca, organizzata intorno a linee etniche, religiose, e ideologiche, che si riflette e si amplifica nel comportamento dei partiti politici, è uno degli elementi che ha contribuito al consolidamento del potere del presidente. Questa volta l’avvicinarsi di un’altra scadenza decisiva e la prospettiva di vedere istituzionalizzato il regime del presidente hanno spinto quattro partiti di opposizione, il Partito Repubblicano del Popolo – CHP – il neonato Buon Partito – Iyi Parti – il Partito della Felicità Saadet Partisi – e il Partito Democratico, a formare una coalizione, l’Alleanza del Popolo. L’eccezionalità della situazione non potrebbe essere meglio rappresentata dalla presenza nella stessa coalizione del partito laico-repubblicano CHP e di quello che almeno per la sua storia si presenta come il custode dell’eredità dell’islamismo politico non corrotto dalla deriva erdoǧaniana, il partito della Felicità. Miracolo tuttavia imperfetto, quello della coalizione, visto che ne rimane escluso, soprattutto per l’opposizione del Buon Partito, il partito filo-curdo HDP. I quattro partiti si presenteranno come coalizione nelle elezioni per il rinnovo del parlamento che si svolgeranno in contemporanea con quelle presidenziali. Grazie alla riforma elettorale voluta da Erdoǧan, anche i partiti della coalizione che non dovessero superare lo sbarramento del 10% potranno comunque mandare dei deputati in parlamento.

Inizialmente la coalizione ha accarezzato anche l’idea di presentare un candidato unico per le elezioni presidenziali. Il nome più gettonato, quello di Abdullah Gül. Co-fondatore dell’AKP con lo stesso Erdoǧan, presidente della repubblica tra il 2007 e il 2014, Gül da tempo è in rotta di collisione con il presidente. Dopo settimane di trattative e illazioni Gül ha infine annunciato pubblicamente la rinuncia alla candidatura, ufficialmente per non aver trovato un appoggio abbastanza ampio. Tuttavia non irrilevante nella decisione di Gül è probabilmente stata la visita che ha ricevuto pochi giorni prima di annunciare la sua decisione, quando il capo di stato maggiore delle forze armate – dopo essere atterrato con il suo elicottero nel giardino della casa dell’ex presidente – si è poi intrattenuto con lui in un lungo e, come riportato dalle agenzie, "amichevole" colloquio.

Tramontata l’ipotesi di un candidato unico dell’opposizione, il 24 giugno prossimo il presidente Erdoǧan si troverà di fronte quattro sfidanti principali.

Muharrem Ince è il candidato scelto dal CHP. Principale oppositore interno del segretario Kiliçdaroǧlu, considerato un rappresentante della sinistra del partito, Ince ha un profilo che si discosta significativamente da quello elitario con il quale larga parte dell’elettorato ha identificato il partito. Di origini contadine, una carriera nella scuola pubblica come insegnante di fisica, Ince ha scalato tutti gradi della gerarchia interna del partito. Dotato di uno stile retorico diretto e tagliente, molto simile a quello di Erdoǧan, nel giorno dell’annuncio della sua candidatura Ince si è enfaticamente tolto il simbolo del partito dalla giacca dichiarandosi pronto a essere il presidente di tutti e andando poi a trovare in carcere il leader del partito filocurdo Selahattin Demirtaş. Accompagnato dalla inevitabile dose di ricette demagogiche soprattutto in economia, Ince si propone tuttavia come un presidente inclusivo, intenzionato a ricucire le profonde spaccature sociali, ideologiche, etniche prodotte da 16 anni di monopolio AKP. Il silenzio con cui per giorni il presidente Erdoǧan e il suo partito hanno accompagnato l’annuncio della candidatura di Ince ben riflettono la sorpresa nel ritrovarsi di fronte un candidato che per stile retorico e contenuti si discosta marcatamente dall’opposizione blanda e inefficace fino ad ora mostrata dal CHP.

La candidatura di Meral Akşener, fondatrice del Buon Partito, rappresenta prima di ogni altra cosa il ritorno sulla ribalta politica del paese di una donna, dopo la disastrosa esperienza del primo ministro Tansu Ciller negli anni ’90. Anche Akşener ha cominciato la sua carriera politica nei primi anni ’90 nello stesso partito della Ciller, arrivando a ricoprire la carica di ministra dell’interno. Dopo la polverizzazione del partito a seguito della crisi del 2001, Akşener è passata al partito nazionalista MHP. Dopo aver speso gli ultimi due anni nell’inutile tentativo di scalzare l’immarcescibile presidente Bahçeli, pochi mesi fa la Akşener con un gruppo di dirigenti dissidenti ha fondato il Buon Partito – Iyi Parti. Molto esplicita nei suoi attacchi a Erdoǧan e decisamente convinta di poter battere il presidente, Akşener con il suo mix di riferimenti nazionalisti, difesa della laicità e avversione viscerale per le rivendicazioni curde, mira non solo ad attirare gli elettori scontenti del MHP ma anche a ricostituire quell’area di centro destra da anni fagocitata dall’AKP.

Selahattin Demirtaş è il candidato del partito filo-curdo HDP. Avvocato, co-presidente del partito, è l’esempio di un carisma fondato su elementi agli antipodi non solo rispetto a quello del presidente Erdoǧan ma anche alla vecchia generazione del suo partito. Un passato da militante per i diritti umani a Diyarbakır, dotato di una forza gentile e persuasiva, è stato capace di attenuare i riferimenti nazionalisti, curdi, e proporre un modello di partito capace di parlare alle forze democratiche dell’intero paese con una particolare attenzione per le altre minoranze, etniche, religiose e di genere. Una rivoluzione che ha prodotto lo storico successo elettorale del giugno 2015 quando per la prima volta un partito filocurdo non solo si è presentato al voto con il proprio simbolo ma è riuscito a diventare la terza forza politica del paese. Demirtaş però sarà anche il primo caso nella storia turca di un candidato costretto ad fare la sua campagna elettorale da un carcere, visto che pochi giorni fa il tribunale ha respinto la richiesta di scarcerazione presentata dai suoi avvocati. Dietro le sbarre dal novembre 2016 con le immancabili accuse di collusione con il terrorismo, Demirtaş paga l’aver trasformato il suo partito in una forza politica capace di minacciare l’egemonia dell’AKP, la sua sfrontata opposizione a Erdoǧan ma anche l’ambiguo atteggiamento che lui e il suo partito hanno avuto nei confronti della campagna militare che il PKK ha lanciato nelle strade delle città curde all’indomani della vittoria elettorale del 2015.

Infine l’ultimo candidato è il presidente del Partito della Felicità, Temel Karamollaoǧlu. Rappresentante dell’ala pura dell’islamismo politico che non volle seguire Erdoǧan e i suoi sodali nell’avventura dell’AKP, Karamollaoǧlu ha rappresentato la vera sorpresa di questo inizio di campagna elettorale. Gli attacchi sferzanti che quotidianamente porta a Erdoǧan non si fondano infatti su riferimenti religiosi quanto piuttosto su argomenti concreti quali l’uso politico della magistratura, il deterioramento della democrazia e gli insuccessi in campo economico. Karamollaoǧlu non ha nessuna possibilità di essere un avversario serio nella corsa presidenziale. Tuttavia la sua biografia e il suo carisma potrebbero costituire un riferimento alternativo alle elezioni politiche per quella quota di elettori dell’AKP a disagio per l'involuzione del partito.

Max Weber individua almeno due elementi necessari affinché le caratteristiche eccezionali di una personalità si trasformino in carisma, perché inneschino un processo carismatico. In primo luogo l’esistenza di una situazione eccezionale, politica o economica. Al momento dell’ascesa politica di Erdoǧan, nel 2001, la Turchia era travolta da una spaventosa crisi economica, accompagnata dal crollo di un sistema politico minato da corruzione, ingiustizie e da riferimenti sostanzialmente autoritari ed elitari, che legittimavano l’esclusione di interi settori sociali. Il secondo elemento del processo carismatico è l’affinità tra contesto culturale e caratteristiche del leader. Indubbiamente la biografia di Erdoǧan, i suoi riferimenti culturali e anche il suo linguaggio trovavano una corrispondenza in quella parte di elettorato popolare che reclamava rappresentanza e riscatto. La combinazione di questi due fattori ha contribuito largamente ai trionfi elettorali di Erdoǧan negli anni a seguire. All’ora attuale è possibile percepire i segnali di una nuova situazione di eccezionale. In primo luogo i morsi di una crisi economica che da semplice prospettiva si sta progressivamente trasformando in una realtà quotidiana. Evidenti i segni di una trasformazione del contesto culturale non più definito dalla contrapposizione tra un elite, laica, e una massa popolare, religiosa quanto piuttosto dall’alternativa tra tendenze autoritarie e domande di libertà, e di benessere economico, che sono maturate in una società che negli ultimi 16 anni si è trasformata profondamente. Il nuovo contesto culturale che si sta delineando insieme alla crisi incombente non sembrerebbe essere in sintonia con il carisma di Erdoǧan. Contestualmente è indubbio che all’interno di questo quadro, la comparsa di candidati credibili e la percezione che l’avversario stia mostrando segni di debolezza hanno trasmesso all’opposizione una sferzata di energia e di ottimismo simboleggiata efficacemente dai tweet di tamam. Sondaggi e commenti insistono poi nel segnalare, come già accaduto del resto per il referendum del 2017, l’esistenza di una quota importante di elettorato AKP sfiduciato e preoccupato. Tuttavia al netto di queste considerazioni, a un mese dal voto, Erdoǧan deve essere necessariamente considerato il favorito nella corsa alla presidenza della repubblica, anche in considerazione del fatto che le elezioni prevedono la possibilità di un secondo turno, l’8 luglio.

In primo luogo per la forza della logica del voto di appartenenza, con il quale una fetta consistente dell’elettorato esprime prima di tutto un’appartenenza identitaria a uno schieramento oltreché la riconoscenza nei confronti di un leader che gli ha garantito una legittimità pubblica, simboleggiata dalla fine dell’ostracismo per le donne velate, e, almeno per alcuni gruppi sociali, benessere economico Secondariamente il delicato contesto attuale non solamente interno ma anche su scala regionale potrebbe far considerare la sconfitta di Erdoǧan un pericoloso salto nel buio. Infine una variabile psicologica non trascurabile è rappresentata dal timore di una parte dell’elettorato, conservatore, che alla caduta di Erdoǧan faccia seguito la rappresaglia dei vincitori, i laici. Un timore fantasmatico che ha poche conferme nella realtà attuale, ma che trova alimento nelle memorie di quanto è accaduto nel 1997.

Infine esistono una serie di ragioni più prosaiche che rendono Erdoǧan il favorito. Il presidente della repubblica ha il controllo totale dell’apparato elettorale e la recente riforma lo ha, se possibile accentuato. L’esperienza del referendum del 2017 che ha visto la modifica delle regole per lo spoglio dei voti dopo l’apertura delle urne ha mostrato quanto delicata sia questa fase. Le numerose iniziative che si stanno organizzando per garantire un controllo delle operazioni di voto e scrutinio testimoniano dei timori dell’opposizione. La sovraesposizione mediatica di Erdoǧan, poi, rende quasi invisibile la presenza degli altri candidati nelle televisioni e giornali mainstream. Infine giova ricordare che il paese si accinge ad andare al voto avvolto dalla soffocante cappa dello stato d'eccezione in vigore dall'estate 2015.

Il 24 giugno i 57 milioni di elettori, tra i quali 1.585.000 saranno quelli che voteranno per la prima volta, non saranno chiamati a scegliere solamente il nuovo presidente della repubblica ma anche a rinnovare la composizione del parlamento. Mentre Erdoǧan rimane il favorito per la corsa presidenziale appare più probabile che i risultati delle urne modificaranno gli equilibri parlamentari. Se è pur vero che nel nuovo sistema presidenziale il parlamento perde molte delle sue prerogative, un parlamento dove l’AKP non avesse più la maggioranza assoluta – attualmente 316 deputati su 537, ai quali vanno aggiunti i 35 del partito MHP – anche nel caso delle rielezione di Erdoǧan, introdurrebbe comunque un elemento di disturbo nel sistema.

Decisivo nel determinare i nuovi equilibri parlamentari sarà la performance del partito di Demirtas, che non potrà godere dei vantaggi della coalizione e dovrà guadagnarsi da solo il 10% dei voti necessari per superare la soglia di sbarramento. Dopo lo straordinario risultato del giugno 2015, 13,12%, nelle successive di novembre pur marcando una flessione era riuscito ad avere il 10,76%. Le previsioni come sempre sono contraddittorie, Demirtas, dal canto suo, dalla sua cella del carcere di Edirne, si dice certo che il partito anche questa volta “riuscirà a sfondare lo sbarramento”.

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