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maggiofil

Disertare contro il perbenismo guerrafondaio*

di Valerio Romitelli

Imperialismo americanoTra i tanti significati che può avere il termine gergale “perbenista” ce ne è uno che lo rende particolarmente d’attualità. Diciamo dunque che perbenista è chiunque creda che il mondo così com’è andrebbe bene, anzi di bene in meglio, se non ci si mettessero di mezzo dei fenomeni maligni, diabolici, che ne ostacolano il normale progresso civile e naturale.

Alla luce di questa definizione possiamo distinguere almeno due tipologie di perbenisti. C’è quella più classica del perbenista conservatore e moderato, che crede anzitutto nelle virtù civilizzatrici dello sviluppo tecnologico e delle istituzioni statali garanti della libertà; qui i fenomeni contrari al bene del progresso deriverebbero quindi dai cattivi sentimenti serpeggianti tra gli individui, quali la disonestà, la corruzione, l’ignoranza o la prepotenza autoritaria, se non totalitaria, ai quali le istituzioni democratiche o le virtù concorrenziali connesse alla libertà di mercato sarebbero chiamate a porre limiti.

Accanto a questa tradizionalissima figura di perbenista liberale, moralista, conservatore e moderato, c’è però anche quella del perbenista di sinistra, non esclusa anche la più estrema. Anche qui non manca certo la fiducia nella potenza emancipatrice del progresso tecnologico, ma la figura collettiva portatrice del bene nel mondo da questo punto di vista non è tanto lo Stato o le istituzioni pubbliche quanto il sociale. Sarebbero infatti le lotte e la cooperazione solidale messe in campo dalla “moltitudine” più generica e sfruttata dell’umanità a creare il “bene comune”; quel “bene comune” in cui si condenserebbero gli avanzamenti sia dello sviluppo tecnologico sia del riconoscimento dei diritti sociali.

Fatto sta che queste due di figure del perbenismo convergono oggi nella volontà evidentemente promossa dalla massima potenza imperialista mondiale, gli Usa. Sarebbe a dire la volontà di reagire simmetricamente alla invasione dell’Ucraina con le stesse modalità belliche dell’invasione. Da quando quest’ultima è iniziata in ogni ambito culturale e mediatico dei paesi alleati degli Stati Uniti si è potuto infatti assistere ad uno spettacolo inusuale; quello di non pochi intellettuali più o meno avvezzi a ritenersi “di sinistra” che si sono uniti a opinon maker e politici notoriamente conservatori, moderati, ma fino anche decisamente reazionari, nell’intento condiviso di far dimenticare la pessima fama internazionale goduta dal governo Zeleneskj fin dai tempi della sua creazione e farlo apparire invece degno destinatario di un inaudito sostegno di aiuti da parte di tutti i paesi alleati degli americani. È così che l’Ucraina, senza altra qualità che quella di essere vittima dell’orso russo e paese più che mai prediletto dagli Stati Uniti, è risultata meritevole di una straordinariamente generosa valanga di finanziamenti, missili, armi, consiglieri, addestratori militari e così via.

Che conservatori e reazionari da sempre e comunque proni al “Washington consensus” lo siano anche in questo caso va da sé. Più problematico è capire come questo consenso abbia sfondato anche “a sinistra”. Ma molte nubi si diradano se si considera per l’appunto il perbenismo che da sempre cova anche da queste parti. È questa forma di buon senso che con l’invasione russa dell’Ucraina ha trovato il momento giusto per manifestarsi più apertamente. La sua logica non fa una grinza. Una volta supposto che il mondo così com’è grazie alle costanti e diversificate lotte di classe e alla connessa diffusione del “bene comune” potrebbe sempre migliorare, una volta supposto che se ciò non si realizza è a causa di guastafeste (cioè capitalisti peggiori degli altri) che si mettono di traverso, la conclusione non può che essere una e una sola. Che oggi la palma del cattivo tra i cattivi deve andare inevitabilmente a Putin!

Da questo angolo visuale la Russia non può infatti godere delle stesse attenuanti concesse all’imperialismo americano. Nonostante questo imperialismo da almeno settant’anni non abbia perso occasione per dimostrarsi tanto strapotente e aggressivo da non avere precedenti storici, né emuli contemporanei, esso ha saputo conquistarsi una sorta di impunità agli occhi non solo di tutti i suoi seguaci, ma anche di molti suoi critici. A fargliela meritare sono stati appunto, da un lato, l’essersi mantenuta all’avanguardia del progresso tecnologico tra il secondo e il terzo millennio; dall’altro, l’essersi da sempre potuta presentare – a differenza di tutti gli altri paesi occidentali sempre gravati da tradizioni monarchiche, se non dittatoriali o “totalitarie” – come patria della democrazia, come patria di quella democrazia che grazie alle sue vittorie militari nonché alla sua potenza finanziaria e comunicativa si è imposta come regime mondialmente egemone.

Certo a proposito dell’immagine degli Stati Uniti, i perbenisti di sinistra possono rivendicare una postura ben più critica di quelli di destra. Per chi non rinuncia completamente ad un punto di vista di classe è infatti irrinunciabile anche la critica al sistema capitalistico e quindi anche inevitabilmente agli Stati Uniti come centro principale di questo sistema. Tuttavia, questo primato, specie per una parte della sinistra ha implicato anche un incontestabile prestigio. Se si ritiene infatti che lo sviluppo dei diritti civili o la lotta di classe più avanzata possano aver luogo solo dove lo sviluppo tecnologico e democratico è più avanzato è chiaro che lo sguardo più rispettoso, più interessato, più affascinato, non può che andare tutt’oggi agli Stati Uniti. Il “Washington consensus” a livello di opinione mondiale può dunque contare non solo nei fans più evidentemente entusiasti per la sua potenza industriale, mediatica e militare, ma anche in ammiratori sì critici delle sue contraddizioni di classe, ma comunque da esse attratti in quanto supposte più avanzate che altrove.

Non c’è dunque invasione, efferatezza, repressione di libertà delle quale Washington sia stata o sia protagonista che secondo i perbenisti possa screditarla al livello in cui lo è stata la Russia dal momento in cui ha invaso militarmente un paese “occidentale”. Massime colpe di quest’ultima da questo punto di vista sarebbero quindi: da un lato, di pretendersi capace, senza esserlo veramente, di una sfida all’ordine imposto da quell’imperialismo americano che è (stato e in parte resta) il più tecnologicamente e democraticamente qualificato dei nostri tempi, dall’altro, di avere portato dentro quell’occidente europeo quella guerra che invece gli Stati Uniti hanno sempre condotto ovunque ma non dove dopo la seconda mondiale la pace ha mantenuto (o quasi – e ad eccezione della sempre dimenticata guerra nell’ex Jugoslavia) il suo trionfo. In effetti, agli occhi dei perbenisti siano essi di destra o di sinistra l’Europa appare sempre avvolta in un’aurea quasi sacra conseguente dal suo essere da più di settanta anni spazio dove le armi tacciono; e ciò nel presupposto che ad avere favorito questo miracolo sia stata soprattutto la benevola tutela yankee esercitata tramite la Nato. Massima aggravante delle colpe dell’imperialismo russo verrebbe dunque proprio da qui secondo il buon senso occidentale: dall‘avere osato oltraggiare lo spazio europeo come spazio privilegiato della pace mondiale. Ed è alla luce di questo privilegio che tutte le altre numerosissime ed efferate guerre in corso nel mondo (in Palestina, Libia, Siria, Yemen, Mali e così via) parrebbero trascurabili di fronte al caso ucraino. Caso dove i benpensanti si sperticano invece per riconoscere e legittimare l’esistenza di una resistenza così spontanea, popolare, autentica e condivisa da meritare appunto la fiumana di soldi, armi, consiglieri e quant’altro. Il tutto per di più senza minimamente tener conto dei più che legittimi dubbi sulla reale destinazione di questi aiuti, né del fatto storicamente incontestabile che, a differenza di quella supposta esistere in Ucraina, i casi più classici della “resistenza” (ad esempio quella francese e quella italiana tra il 1940 e il 1945) erano espressamente contro i loro stessi governi in carica [1].

Il colmo dei paradossi è poi raggiunto dal buon senso perbenista quando sostiene malcelatamente che l’essere l’Ucraina divenuta vittima dell’aggressione russa ha reso più moralmente credibile la maggioranza degli ucraini. Tutto della sua più recente fama, infatti, faceva ritenere questa maggioranza eticamente inaffidabile, preda di corruzione, mafie, incapace di scegliere un qualsiasi destino di riscatto, fino al punto che la stessa Ue e la finanza internazionale evitavano di darle fiducia. Niente è parso far cambiare questa situazione dal crollo dell’Urss in avanti: nonostante la reiterata “rivoluzione arancione” iniziata nel 2004, nonostante l’elezione del filorusso Janucovich, nonostante il confuso periodo tra i governi Jacenjuk e Porosenko da cui è uscito per l’appunto il comico Zelenskj alla guida del paese. Ora, parrebbe certo invece che da quando l’aggressione russa ha preso avvio tra la maggioranza delle popolazioni che la stanno subendo sarebbe accaduto qualcosa di nuovo. Si sarebbe manifestato un tale desiderio di combattere gli invasori che marcherebbe una discontinuità rispetto alle poco edificanti tradizioni precedenti. Fatto sta comunque che la portata politica di questa supposta metamorfosi della maggioranza degli ucraini non può non restare altamente dubbia dal momento in cui il governo Zelenskj, senza nulla rinnegare del suo passato, anzi più che mai fiero di sé, per di più inorgoglito dagli entusiasmi riscossi tra le diplomazie occidentali, resta del tutto saldamente in sella alla supposta “resistenza” al suo seguito. Dove starebbe dunque tutta questa grande metamorfosi intervenuta nella maggioranza degli ucraini? L’essenza ultima di questa straordinaria novità starebbe nel loro essere divenuti più che mai coscienti del loro odio antirusso? Ma lo stesso perbenismo in altri tempi e per altri casi non stigmatizza forse l’esaltazione dell’odio come atteggiamento pernicioso, divisivo, addirittura da censurare nei social media?

La giustificazione speciale che si dà di questo tipo di odio, addirittura amplificato in deliranti fenomeni russofobici circolanti in tutto l’occidente, viene ovviamente dalla constatazione dell’orrore incarnato dal regime di Putin. Che anticomunisti da sempre viscerali siano così storditi da continuare a vederlo come una prosecuzione dell’Urss non fa problema. La stessa Nato ragiona così. Ma che pure gente che si vuole anticapitalista ragioni in questo modo non può non lasciare perplessi. Se l’obiettivo fosse davvero adoperarsi per andare oltre il capitalismo, non si dovrebbe quanto meno moderare l’apprezzamento per certi regimi capitalisti piuttosto che altri? Non ci si dovrebbe trattenere cioè dal fare della distinzione tra democrazie e non democrazie il criterio di tutti i criteri politicamente discriminanti?

A dimostrazione della superiorità della democrazia si sa l’opinione perbenista evoca sempre la libertà di espressione rivendicata dalle democrazie come linfa e custode del loro pluralismo, mentre invece sistematicamente censurata e repressa dai regimi non democratici. Ma se vogliamo attenerci ad un punto di vista propriamente politico occorre chiedersi quanto incida veramente questa libertà nel funzionamento dello stesso regime democratico. Ora, specie in questi ultimi tempi di reiterate emergenze, prima pandemiche, poi belliche, lo si è visto chiaramente. Il dissenso “da noi” è sì tollerato, persino giustificato ed esibito, ma la sua incidenza sulla gestione del potere è assolutamente nulla. Ciò significa che qui su questo punto che dovrebbe essere cruciale per distinguere democrazie e non democrazie è un punto poco o niente affatto dirimente. Quindi? Quindi, detto lapidariamente, fare del tipo di regime il criterio di giudizio della politica non funziona, è dogmatico, fuorviante.

Dunque tanto vale ammetterlo, ossia accettare l’accusa perbenista di essere putinisti? Niente affatto, la Russia di Putin è certo un’avanguardia di quella tendenza epocale sovranista [2] che oramai ha conquistato il mondo, pure gli stessi Stati Uniti e con essi tutto l’occidente, e che porta a governare ovunque secondo una logica di guerra, come denunciano giustamente Mezzadra e Negri [3]. Ma per combattere il sovranismo ovunque si impone non si può farlo sul suo stesso terreno. Non si può farlo schierandosi per l’Ucrania, quindi per la Nato, contro Putin, né viceversa. Occorre sapersene tirare fuori. Ci vuole la diserzione, una diserzione militante col pensiero e con l’azione.

Contro di essa a nulla vale l’insulsa obiezione perbenista secondo cui non schierandosi con nessuno dei due contendenti, né con la Russia, né con l’Ucraina ci si rifugerebbe in un “né…né..”, in una doppia negazione completamente sterile. Il fatto è che ad essere solo e ciecamente negativa è proprio la guerra, cosicché rifuggirla, quando la si vede dominare completamente la scena, è l’unica operazione intellettualmente e esistenzialmente degna. La solidarietà qui va dunque a chiunque in Russia e in Ucraina come nel resto del mondo ripudia come soluzione dei problemi sociali o diplomatici quella condizione bellica in cui la normalità quotidiana sta nel cercare di dar morte e nel rischiare di subirla. Hanno ragione Mezzadra e Negri a denunciare che l’ordine mondiale sta divenendo sempre più scandito e gestito in termini bellici: la guerra come regime di governo.

Per evitare di acconsentire più o meno inconsciamente a questo ordine mortifero una cosa è comunque obbligatoria: rompere con ogni perbenismo e tutti i suoi paradossi perversi. Come si fa? Anzitutto smettendola di credere che il mondo così com’è, di suo, andrebbe bene, se non ci fossero i guastafeste. Si tratta dunque di smetterla di pensare che se le cose vanno male è perché ci sono dei disonesti, dei criminali, dei pazzi o dei capitalisti ritardati e autoritari come appunto Putin. Ma soprattutto si tratta di constatare che le cose, almeno dalla fine dei “trent’anni gloriosi” seguiti al secondo dopoguerra (1945-75), da un punto di vista della giustizia sociale e dell’emancipazione umana sono andate progressivamente all’indietro, di male in peggio. E che dunque gli sviluppi tecnologici non sono affatto serviti per contrastare questa tendenza la quale non è stata contrastata neanche dall’espansione della democrazia che effettivamente c’è stata, ma da cui non ne è venuto nulla di definitivamente buono per l’intera umanità. Nonostante l’emergere dei “Brics” abbia riequilibrato i divari globali tra paesi, nonostante il brulicare di movimenti sociali per i diritti civili a livello planetario, la forbice tra lo strapotere degli oligarchi (che non sono solo russi!) e la disgregazione dei lavoratori in ogni angolo del mondo continua infatti a divaricarsi! Che siano le macchine, i dispositivi tecnici e/o lo Stato, le sue leggi, le codificazioni dei diritti a registrare l’incivilimento dell’umano: questo il pregiudizio perbenista più duro da combattere.

Da abbandonare è l’idea stessa che nell’umanità ci sia sempre più o meno contrastato uno sviluppo cumulativo del bene, del bene comune. Più veridico è ammettere che l’andamento del mondo, col suo eterno mix di male e di bene, è destinato solitamente a ripetersi: ripetersi ma non sempre eguale a se stesso, bensì degradando per entropia. Così si incrocia quel noto “pessimismo della ragione” di cui Gramsci è maestro, lasciando aperta la questione del cosa può giustificare allora il connesso “ottimismo della volontà”. La bussola qui è chiaramente data dalla rottura rivoluzionaria o comunque radicalmente innovatrice, sempre a venire, sempre da preparare alla luce dei precedenti più illustri. In effetti, pur con tutte le obiezioni che le si possono rivolgere, la filosofia di Badiou offre una chiave preziosa a questo proposito. Utilizzandola si può pensare che se il mondo e l’umanità ancora esistono è perché non sono andati sempre di male in peggio, né tanto meno di bene in meglio (come credono i perbenisti), ma perché la loro esistenza (solitamente ripetitiva e tendenzialmente degradante) è stata punteggiata e rilanciata da novità eccezionali e sorprendenti, da eventi universali, portatori in tutti i maggiori campi dell’esperienza umana (arte, scienza, amore e politica) di ciò che le ha permesso e le permette appunto di distaccarsi da quel sottofondo disumano che sempre la abita [4].

Ma che ne è allora da questa angolatura dello sviluppo tecnologico, delle pratiche sociali e delle istituzioni statali che costituiscono l’aspetto materiale della realtà collettiva? A forza di considerare la discontinuità degli eventi non si dimentica forse la continuità materiale progressiva di questa realtà? Questa la più tipica obiezione alla filosofia di Badiou. La quale invece dà il suo meglio proprio in quanto istruisce a sbarazzarsi di ogni illusione sul valore sempre civilizzatore della tecnica, della conflittualità sociale, nonché delle istituzioni giuridiche e statali quali supposti custodi e guardiani delle conquiste politiche del progresso. E invita ad assumere che la materialità fondamentale di ogni esperienza politica, ciò che le permettere di imparare dal passato e proiettarsi nell’avvenire, sta nei corpi organizzati che la sperimentano. Ad esergo qui si potrebbe citare la massima “Senza organizzazione il proletariato non è nulla”, di quel padre fondatore dell’Urss che Putin esecra.

Se quindi ci si chiedesse quale potrebbe essere l’evento politico per cui mobilitare attualmente il proprio ottimismo, la risposta non potrebbe che tirare in ballo la volontà di pensare come rendere possibile una riunificazione organizzativa di quello che un tempo si chiamava proletariato mondiale e che dalla fine dell’Ottocento non è mai stato così diviso e disperso come oggi.

Un importante passo in questo senso lo si compie optando ora per la diserzione rispetto alle guerre in corso (prima di tutto quella ucraina). Solo con simile passo si potrebbe infatti rinverdire la tradizione di quell’internazionalismo proletario che nel corso della prima guerra mondiale ebbe in Zimmerwald e Kienthal i suoi luoghi simbolo [5]. Ora come allora il ripudio della guerra non significa puro e semplice pacifismo, non significa pura e semplice non violenza, ma significa il ripudio della dimensione bellica come mezzo principale, come succedaneo della politica. Nessun rinnegamento dunque della grande storia delle guerre rivoluzionarie, ma una loro rivendicazione anzitutto non in quanto guerre, ma in quanto guidate da un pensiero e da organizzazioni rivoluzionarie.

Da questo punto di vista non pare comunque giovare la convinzione assai diffusa e ripresa anche dagli stessi Mezzadra e Negri che insiste nel confermare quanto annunciava con enfasi lo stesso presidente e nobel per la pace (!) Obama al Cairo nel 2009: che il mondo si sia già trasformato da uni a multipolare.

Certo è che la tendenza principale è questa, data la crisi dell’egemonismo statunitense. Certo è pure che questa tendenza sia la più auspicabile per l’internazionalismo a venire. Che ognuno, ovunque possa decidere il proprio destino senza cozzare coi muri delle frontiere o essere inibito da penurie, sfruttamento o autorità repressive: questa immagine di un’umanità come molteplice puro che si dispiega all’infinito è certo l’orizzonte per cui lottare e sperimentare in ogni modo. Ma allo stato delle cose c’è sempre da registrare il persistere del dominio americano. E ciò non solo per lo strapotere militare fatto di più di trecento basi sparse nel mondo e un budget bellico pari quasi a quello del resto del mondo, ma soprattutto sul piano culturale: tant’è che il perbenismo di cui qui si è detto, non è da intendersi come un dato trascendentale, proveniente da non si sa quale propensione umana innata, ma è da capo a piedi da riconoscere come un portato a livello di opinione del dominio mondiale dell’egemonia ideologica americana, ancora tutta da smontare. Senza smontare la quale la stessa fine di questa egemonia rischia di divenire interminabile e quindi degenerare in orrori crescenti. 


* Questo articolo è anche su www.storiastoriepn.it

Note
[1] Vedi in proposito https://sinistrainrete.info/politica/22852-valerio-romitelli-resistenza-ucraina.html.
[2] Mi permetto in proposito di rinviare al mio L’emancipazione a venire. Dopo la fine della storia. DeriveApprodi, Roma, 2022.
[3] Lottare contro il regime di guerra a livello globale http://www.euronomade.info/?p=15117.
[4] Della sua immensa opera basti qui ricordare Manifesto per la filosofia ( trad.F. Elefante), Cronopio, Napoli, 2008.
[5] In un senso evidentemente del tutto contrario a quello sostenuto da Bruno Cava, L’eredità di Zimmerwald capovolta.

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