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gliasini

Il Congo non si salverà

di Franco Bordignon e Giacomo D'Alessandro

Franco Bordignon è un padre saveriano di origine veneta che ha passato gli 80 anni e da 50 opera in Congo, dove ha scelto di restare anche sotto i regimi e le violente guerre che hanno attraversato questa zona dell’Africa. Nel Kivu è un’istituzione, avendo contribuito a progetti politici, di sviluppo sociale, idrico e rurale, a cooperative e a canali di controinformazione. L’ho incontrato a Bukavu nel corso di tre viaggi nel 2018, 2021 e 2022 (G.D.).

Gli uccelli interno asini 10 1536x1128Lo scenario del Kivu, l’Est della Repubblica Democratica del Congo, in questi anni non è cambiato di molto. Cambiano i colori politici e poco altro. Ad ogni elezione si spera in una rinascita del paese, ma negli anni abbiamo capito che un presidente nominato non è un presidente scelto dal popolo. L’ex presidente Kabila ha ancora un forte margine di manovra, mentre l’attuale Tshisekedi passa il tempo a girare il mondo per “diffondere apparenze”. La compravendita dei deputati è all’ordine del giorno… In conclusione chi ha interesse ad occuparsi della gente? 

La gente del Congo è abbandonata a se stessa da decenni. Ma il Kivu, dove ci troviamo, è invaso da gruppi armati (163 secondo le Nazioni Unite), alcuni locali, altri dei paesi confinanti Rwanda, Burundi e Uganda. Non nascono così per caso, ma da una serie di fattori: il fatto che i giovani non abbiano nessun avvenire, il fatto che nell’esercito si creino fazioni dissidenti; in ogni caso, esistono al soldo di qualcuno, altrimenti non starebbero in piedi. Qualcuno che ha bisogno di loro per garantirsi lo sfruttamento delle miniere e i traffici di materie prime. Non è poi escluso che gli eserciti regolari li utilizzino per fare il “lavoro sporco”, cioè azioni di cui i governi non possono macchiarsi ufficialmente. 

Da un paio di anni le province del Nord Kivu e dell’Ituri sono governate dai militari (Etat de siège), ma vi sono forti dubbi sulla presenza di infiltrati legati al Rwanda o all’Uganda. E si vantano di eliminare ogni giorno che passa ribelli e gruppi armati. In realtà è molto complicato capire le diverse affiliazioni e fedeltà, si comincia a parlare perfino di accordi tra gruppi ribelli e gruppi jihadisti che entrano in questa zona dell’Africa dopo averne destabilizzate altre. Quel che è certo è che chi vive qui ha notizie di morti ammazzati tutti i giorni, di sevizie e razzie nei villaggi.

La corsa al Congo oggi è una corsa necessaria ma illegale, di completo sfruttamento. Noi occidentali abbiamo occupato l’Africa con le colonie e con le armi, dicendo “voi non siete in grado, vi portiamo la civiltà”, e oggi mutatis mutandis pur con apparenti paesi sovrani e indipendenti il sistema rimane di sfruttamento delle risorse. I mercati hanno estrema necessità di minerali e terre rare, di cui il Congo ha più della metà e a volte anche tre quarti del fabbisogno mondiale. Questo dà adito ad una corruzione spaventosa e ad una colonizzazione selvaggia. 

I nuovi media ci consentono di conoscere situazioni che prima erano solo immaginabili. Le multinazionali subappaltano accordi per lo sfruttamento delle miniere, a scapito dell’ambiente e della gente stessa, fuori da ogni controllo di filiera e di rispetto dei diritti umani. Senza nessuna misura di sicurezza, nelle miniere lavorano decine di migliaia di minori (si parla di 40mila). Tutto questo è possibile per la potenza delle multinazionali, ma anche per la connivenza dei governi locali, piccoli clan che si arricchiscono di tangenti. Il paese che potrebbe essere il più ricco del mondo è uno dei più poveri. I minerali, l’oro e i diamanti fanno gola, ma altrettanto impattante sta diventando lo sfruttamento del legname. Le imprese, specie cinesi, stanno disboscando la foresta equatoriale preparando di fatto un inevitabile genocidio ecologico, con ricadute devastanti sul tessuto rurale: scavi e lavorazioni avvelenano i corsi d’acqua di cui la gente vive. 

Risalendo la filiera, quasi niente viene lavorato qui in Congo, ma in gran parte esportato “legalmente” o clandestinamente. E il consumatore finale cerca l’ultimo modello di smartphone o il più economico sul mercato senza avere interesse né modo di capire con quali materiali è stato costruito e risulta competitivo sul mercato.

I nuovi arricchiti congolesi investono sull’edilizia senza piani regolatori o normative di sicurezza. In pochi anni Bukavu (che oggi conta quasi due milioni di abitanti) è cambiata completamente, sorgono palazzi su palazzi con la totale privatizzazione di ogni area verde e degli accessi al lago.

La politica impiantata qui con gli schemi mentali dell’occidente (formalmente una democrazia compiuta) si declina non in servizio alla nazione e al bene comune, ma in un assalto tribale al potere. Ieri toccava al tuo clan, oggi tocca al mio, occupo ogni spazio di potere e arraffo il più possibile. Prima era la tribù di Mobutu, i Bangala, poi quella di Kabila, gran parte katanghesi, e ora con Tshisekedi i Baluba. Idealmente tutti si rifanno al bene comune, ma sono promesse puntualmente evanescenti.

In uno Stato fantoccio resta un problema anche l’impunità nei ranghi dell’esercito. Militari condannati a morte ce ne sono tanti (la pena di morte è sospesa dal 2002), ma in genere sono soldati semplici. I pesci grossi nessuno li tocca. Chi invece alza la voce contro la corruzione deve scappare dal paese prima che lo prendano. Floribert Chebeya, originario di Kadutu (Bukavu) e autore del movimento “La voix des sans voix” è stato ammazzato perché ha svolto inchieste sull’uccisione da parte della polizia in piena piazza di una setta che contestava il regime del Presidente Kabila. Lo hanno trovato cadavere dopo molti giorni di scomparsa, fuori Kinshasa. La narrazione sui media lo ha subito associato a un giro di prostitute a causa del quale sarebbe finito male.

L’Occidente (incluso il nuovo Oriente in crescita) non può vivere senza le ricchezze del Congo, per questo ogni tanto dichiara la necessità di mettere ordine, ma sotto sotto favorisce il saccheggio selvaggio, con la compiacenza dei governanti nominati.

L’inizio della soluzione sarebbe avere un esercito nazionale, perché i paesi africani stanno in piedi non tanto per le leggi democratiche, quanto per la garanzia che un esercito tuteli le istituzioni. Noi non abbiamo un vero e proprio esercito repubblicano. Nei lunghi anni di disordini vari gruppi armati hanno trovato poi riconoscimento nell’essere integrati nell’esercito attuale. Ora è in corso una riforma per arruolare decine di migliaia di giovani così da rinnovare e “purificare” l’esercito, ma nel frattempo il disordine e il caos controllato sono stati il modo migliore per razziare un paese allo sbando. D’altronde una nave alla deriva basta che non vada a sfracellarsi contro gli scogli: finché il paese si mantiene sufficientemente calmo, può andare avanti lo sfruttamento. Fino a quando qualcuno non lo vorrà più, dall’estero, e aiuterà ad organizzare le forze interne per intraprendere un rovesciamento.

Quando Cina e Russia hanno tentato di “infiltrarsi” in Congo nel 1960-61, in piena Guerra Fredda, USA ed Belgio eliminarono subito il presidente Lumumba, che ritenevano avrebbe portato il Congo nelle mani del blocco sovietico. Venne dunque sostenuto il colpo di stato del generale Mobutu, che divenne lo storico longevo presidente-dittatore del rinominato Zaire. Alla fine della Guerra Fredda Mobutu non serviva più, e a dirigere il Congo è arrivato Laurent Desiré Kabila. Il quale dopo un po’ ha provato a rivoltarsi contro questa etero-direzione, mantenuta continuamente tramite destabilizzazione da parte dei paesi confinanti (Uganda, Rwanda, Burundi), veri cavalli di Troia delle potenze occidentali. La guerra che ne è seguita all’Est del Paese non si è mai veramente fermata: in 25 anni ha accumulato milioni di morti. Ma lo sfruttamento continua e nessuno ne deve parlare. 

È difficile oggi pensare che una predazione così vorace del Congo avvenga senza una complicità implicita di chi dirige il paese. È dal 2008 che si parla ad esempio di rivisitare i contratti minerari, ma chi solleva il tema viene presto messo da parte o comprato dall’élite di turno. Nel 2022 la situazione congolese non solo non si è risolta, ma è addirittura peggiorata, il che è ovvio: la popolazione aumenta, si parla di 100 milioni di congolesi, mentre le infrastrutture non migliorano, anzi si deteriorano: strade, ponti, scuole, ospedali… I salari sono una presa in giro per il ceto popolare. La società evolve, le esigenze evolvono, le spese aumentano. La ristrutturazione dell’esercito nazionale, per cui l’Europa ha speso milioni, si muove troppo lentamente. 

Quello che dà speranza e si vede è invece una maturazione, lenta ma costante, della società civile. La gente prende sempre più coscienza della propria forza e della propria insofferenza. Ma non si verifica una convergenza tra le regioni, dato che il Paese è immenso (otto volte l’Italia) e senza strade né collegamenti. I nuovi mezzi di comunicazione stanno facilitando una convergenza di idee, certo. Le nuove generazioni, gli intellettuali non corrotti, sono una minoranza che col tempo potrebbe acquisire un peso. Ma oggi un cambiamento radicale immediato è inimmaginabile. 

L’area del Kivu è troppo ricca, piena di gruppi armati e senza un vero esercito che affermi lo stato di diritto nazionale e controlli i confini. Il Ruanda vorrebbe operare un’annessione di fatto di parte della regione e gli abitanti del Kivu sanno di contare poco per la capitale Kinshasa, distante 2000 chilometri. Eppure, anche se il tema è spesso tirato in ballo, parlare ai congolesi di secessione del Kivu, quindi divisione del Congo, è inimmaginabile. Possono farsi la guerra, subire invasioni e derive, ma nessuno è d’accordo a balcanizzare il Congo. Quale sembra forse l’obiettivo velato della geopolitica americana, inglese e belga: spartire per meglio governare (e depredare). È pacifico il fatto che in nord Kivu si è ormai creata una presenza di cittadini ugandesi e ruandesi, mirata a poter rivendicare a un certo punto con un referendum l’annessione verso gli stati confinanti. Troppi esempi nella storia dei popoli ci fanno prospettare questo scenario.

Dopo cinquant’anni di vita in questo paese di cui mi sento parte, ritengo che la presenza missionaria non possa essere diversa da quella che incarna la Chiesa cattolica oggi. Se il Governo ha un potenziale nemico è la Chiesa, come confermano i molti omicidi di vescovi, preti e suore registrati in questi decenni. In occasione delle ultime elezioni hanno tentato di attaccare anche la residenza del cardinale; nella regione del Kasaie sono state bruciate delle chiese, come rappresaglia per aver denunciato la manipolazione della Commissione Nazionale Indipendente per le elezioni. 

La Chiesa nei suoi più alti vertici qui attacca la politica ogni volta che mortifica e raggira il volere del popolo. E ci sono sempre delle teste calde, stile “camicie nere”, che scatenano vendette spietate. 

La presenza missionaria è allineata a questo ruolo della Chiesa. Il punto debole è che ai fini pratici ha poca incidenza nella realtà quotidiana delle persone. Dalla teoria non arriva facilmente alla pratica. Nel popolo si sente spesso rimbeccare: voi parlate, noi viviamo. Abbiamo da sopravvivere. 

La Chiesa è un megafono che annuncia, denuncia, suscita, invoca; quando poi si spegne, la gente continua la propria vita. Tutti i documenti che la Conferenza Episcopale pubblica, e che da missionario trovo davvero forti, significativi, coraggiosi, non hanno sempre un seguito nella realtà. Speriamo comunque che lentamente lavorino nella coscienza di chi li legge, nei parroci sul territorio, nelle comunità popolari. Comunità che specie in città continuano ad aumentare a causa dell’insicurezza e delle razzie nei villaggi. La gente scappa in città senza alcun piano, senza infrastrutture, senza una gestione statale, e si accampa. Quindi dalla povertà rurale passa alla miseria urbana di massa. Potrebbe protestare, arrabbiarsi, insorgere, ma ha sulla pelle così tante ferite aperte (anche letteralmente), che prima di tutto vuole evitare qualsiasi cosa che metta in pericolo la vita. Chi alza la testa infatti guadagna parecchie noie. Eppure aumenta la consapevolezza, i giovani che fanno l’università e assumono una visione più ampia, la rabbia verso una situazione politica e geopolitica corrotta che tiene tutto fermo da decenni, senza risolvere nulla. Se questo fermento maturerà, fino a divenire movimento con personalità disposte anche a dare la vita per la causa, sicuramente il Congo, il Kivu, ha una speranza di risvegliarsi dal suo coma indotto, che distrugge la vita a milioni di persone per il bene dei mercati stranieri.

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