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Il Sudan sarà ricolonizzato?

di Stephen Gowan

Gli Stati Uniti stanno facendo manovre per introdurre nel Sudan una forza di peacekeeping delle Nazioni Unite, come primo passo per assicurarsi il controllo dei vasti giacimenti di petrolio della regione. Il controllo degli USA sulle risorse petrolifere del Darfur offrirebbe opportunità di investimenti altamente redditizi alle aziende americane e danneggerebbe gli investimenti cinesi nella regione, rallentando così l’ascesa di un avversario strategico la cui crescita dipende dalla possibilità di accedere in modo sicuro al petrolio estero. Washington si sta servendo di accuse di genocidio, abbondantemente esagerate, per giustificare un intervento delle Nazioni Unite di cui otterrebbe il comando; allo stesso tempo sta ostacolando la pianificazione di un processo di pace che risulti accettabile per il governo sudanese, il quale vorrebbe allargare l’attuale missione dell’Unione Africana in Darfur.

Il presidente del Sudan Omar Hassan al-Bashir viene presentato spesso come ostinato oppositore dell’introduzione di forze di pace in Darfur; in realtà il Sudan ha già accettato l’intervento di forze dell’UA, sollecita il potenziamento dell’attuale missione dell’UA, ma si oppone al suo rimpiazzo con truppe occidentali. Il timore di Bashir è che la presenza di una forza militare occidentale possa diventare permanente e che il Sudan – primo paese a sud del Sahara a conquistare l’indipendenza – rischi di diventare il primo paese ad essere ricolonizzato.

I suoi timori non sono infondati.

Il Darfur non è certo privo di disordini che gli agitatori occidentali possano abilmente sfruttare. I conflitti per l’acqua e per i terreni di pascolo infuriano da decenni tra i contadini stanziali e le tribù nomadi. E ora sorge un nuovo interrogativo: chi sfrutterà i benefici delle risorse petrolifere della regione, da poco scoperte?

Altrove, la tecnica degli Stati Uniti, dell’Inghilterra, della Germania e di altre potenze occidentali è stata quella di infiammare le tensioni all’interno di paesi che per ricchezze e opportunità di reperire manodopera a basso costo costituivano attraenti obiettivi di controllo economico o le cui politiche ostacolavano o ponevano condizioni agli investimenti e al commercio straniero. I disordini vengono utilizzati spesso come pretesto per un intervento militare. Se le vere ragioni dell’intervento sono un groviglio di opportunità di profitto, le ragioni dichiarate vengono presentate immancabilmente come animate da disinteressato umanitarismo. Ciò era vero per i nazisti, che dicevano di intervenire militarmente nei paesi d’Europa per proteggere le minoranze tedesche oppresse, come lo è per gli Stati Uniti di oggi, secondo i quali noi dovremmo credere che un paese che non può permettersi neppure di garantire l’assistenza medica a tutti i suoi cittadini voglia spendere innumerevoli miliardi di dollari in guerre per recapitare libertà e democrazia a non-cittadini sparsi per tutto il globo.

Si prenda ad esempio la Jugoslavia. Qui gli Stati Uniti e la Germania fomentarono il secessionismo e poi sfruttarono i conflitti che ne nacquero come pretesto per stabilirvi una forza militare NATO permanente, seguita dalla svendita di tutti i beni della federazione che rivestivano interesse pubblico e sociale. Se i conflitti secessionisti erano reali, le loro conseguenze venivano spesso fortemente esagerate per giustificare un intervento di natura umanitaria. Le decine di migliaia di cadaveri che, secondo i portavoce della NATO, avrebbero dovuto essere scoperti in Kosovo nel 1999, dopo una campagna di bombardamenti terroristici della NATO durata 78 giorni, non vennero mai trovati, proprio come le armi di distruzione di massa utilizzate come pretesto di un’altra guerra. I mucchi di cadaveri gettati nelle miniere di Trepca, proprio come le armi di distruzione di massa dell’Iraq, erano invenzioni.

Fedele alla forma, Washington definisce il conflitto in corso in Darfur come un “genocidio” (un’altra invenzione), definizione che incita all’intervento internazionale; ma, allo stesso tempo, Washington rivela senza far troppo rumore le proprie vere motivazioni in un ordine esecutivo che rafforza le sanzioni contro il Sudan, citando “il ruolo invasivo che il governo sudanese riveste nel controllo delle industrie petrolifere e petrolchimiche del Sudan”. Washington afferma anche che il controllo del Sudan sulle proprie risorse petrolifere rappresenta “una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti e ai suoi interessi di politica estera”.

Due considerazioni suggeriscono che siano gli interessi di politica estera statunitensi (vale a dire gli interessi delle banche, delle corporazioni e del capitalismo ereditario che controlla le politiche di Washington) e non il genocidio a forgiare la politica degli USA verso il Sudan.

Primo: se è indiscutibile che in Darfur vi sia stato un ampio numero di morti violente, tuttavia non vi è mai stato un genocidio. Ciò non significa che Khartoum non sia colpevole di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità. Khartoum potrebbe tranquillamente essere ammessa nel club dei paesi responsabili di crimini di guerra, insieme a Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele. Ma riguardo al genocidio, la Commissione delle Nazioni Unite sul Darfur è stata piuttosto chiara: non è in corso nessun genocidio in Darfur, checché ne dicano le denunce di Washington. Quel che sta accadendo è una reazione sproporzionata da parte di Khartoum contro alcuni attacchi di gruppi ribelli aventi per obiettivo stazioni di polizia ed edifici governativi; ma se la reazione prende di mira interi gruppi etnici, il suo fine non è quello di eliminarli.

La reazione del pubblico occidentale – fondata sull’accettazione acritica degli allarmi di genocidio lanciati da un’amministrazione Bush notoriamente inattendibile – la dice lunga sul potere che i governi occidentali, i media, le fondazioni e i think-tank delle classi dominanti possiedono nel galvanizzare, in modo selettivo, il sostegno agli interventi militari in alcuni paesi, mettendo a tacere, allo stesso tempo, ogni consapevolezza su altri conflitti ed evitabili tragedie che per livello di violenza sarebbero paragonabili a quelle sudanesi, se non maggiori. Il numero di morti violente in Darfur (nell’ordine delle centinaia di migliaia) è modesto se paragonato agli standard di altri conflitti africani. In Congo, i combattimenti in corso dal 1998 hanno provocato quattro milioni di vittime. Si sono mai viste tante manifestazioni per “Salvare il Congo” quante ve ne sono state per “Salvare il Darfur” nel settembre scorso? Almeno 600.000 irakeni sono morti a causa dell’invasione anglo-statunitense dell’Iraq. L’Alta Commissione ONU per i Rifugiati afferma che i profughi irakeni sono 3,7 milioni, la più grave crisi mai registrata dall’epoca della pulizia etnica di 800.000 palestinesi perpetrata nel 1948 dalle forze sioniste, ex collaboratrici nel mandato britannico sulla Palestina. Nessuna campagna per salvare l’Iraq o al-Awda è mai stata sponsorizzata da Stati Uniti e Inghilterra.

Secondo: Washington ha sistematicamente boicottato gli sforzi di pace dell’Unione Africana in Darfur. La forza militare dell’UA è stata creata con finanziamenti provenienti dagli USA e dall’Unione Europea. Washington e l’UE hanno stipulato dieci anni fa un accordo con l’Unione Africana per decidere di comune accordo gli interventi delle truppe africane nei punti caldi del continente, ma le loro promesse non sono mai state completamente mantenute. A metà del 2006 Washington annunciò che i finanziamenti alle forze dell’UA sarebbero stati ritirati e che occorreva che essa fosse sostituita da una più forte milizia dell’ONU. Le forze dell’UA, si lamentava, avevano truppe troppo scarse per poter essere efficaci. Era necessaria una più efficace forza ONU. Ma se questo era il problema, perché USA ed UE non hanno fornito, fin dall’inizio, i fondi necessari per rendere efficaci le truppe dell’UA? Ciò sarebbe stato considerato accettabile dal governo sudanese. Il quale sarebbe felice di sostenere una milizia africana rafforzata, ma è terrorizzato da una forza dell’ONU, composta di elementi occidentali, che potrebbe essere sfruttata per imporre un cambio di regime e riportare il Sudan sotto il tacco del colonialismo occidentale.

E’ attualmente in corso una partita a scacchi tra i membri del Consiglio di Sicurezza favorevoli all’intervento (GB e USA), quelli che si oppongono (Cina) e Khartoum, la cui approvazione è richiesta prima del dispiegamento di forze ONU. Dal punto di vista di Khartoum e della Cina, un completo rifiuto della missione ONU sarebbe imprudente, perché potrebbe offrire a Washington e Londra il pretesto per riunire una “coalizione di volonterosi” e invadere il Sudan. Entrambi i paesi hanno dunque interesse a raggiungere un compromesso su una missione di peacekeeping dell’ONU a cui contribuisca un sostanzioso contingente dell’Unione Africana. Dall’altro lato, Stati Uniti e Inghilterra vorrebbero offrire alle autorità dell’ONU la massima influenza possibile. Sulla base di queste considerazioni, il 12 giugno si è tentato di raggiungere un accordo per la creazione di una nuova forza di peacekeeping composta per la maggior parte di truppe africane, con un comandante dell’UA dotato di autorità operativa, mentre la supervisione spetterebbe all’ONU. Al comandante dell’UA spetterebbero le decisioni sul campo, ma le autorità ONU potrebbero scavalcare le sue decisioni in caso di disaccordo. Considerati i molti tentativi compiuti dagli USA per cambiare il governo in Sudan, la loro definizione del controllo esercitato dal governo sudanese sull’industria petrolifera come minaccia agli interessi di politica estera degli USA, il loro interesse strategico a sabotare l’accesso della Cina al petrolio del Darfur, potrebbe non volerci molto tempo prima che l’ONU trovi motivi di disaccordo con le decisioni del comandante dell’UA e assuma il pieno controllo della missione.

Vi è il rischio concreto che il Sudan venga riportato sotto una dominazione coloniale occidentale, con la forza di peacekeeping dell’ONU incaricata di preparare il terreno. L’ideologia dell’intervento umanitario, come sempre avviene quando poteri imperialisti utilizzano la forza per sostenere gli interessi delle loro elite economiche, non servirà che da pretesto.

tratto dal sito What’s Left
traduzione di Gianluca Freda

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