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trad.marxiste

Intervista a John Smith, autore di Imperialism in the twenty-first century

di Daphna Whitmore

Il volume di John Smith sull’imperialismo è un lavoro innovativo che getta una luce inedita sul super-sfruttamento del sud globale. Daphna Whitmore di Redline lo ha intervistato a proposito del suo libro

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DW: Innnanzitutto, vorrei ringraziarti per aver scritto Imperialism in the twenty-first century. Si tratta di un argomento imponente e il tuo libro prende in considerazione un materiale amplissimo e di grande interesse – quanto tempo ha richiesto un simile lavoro?

JS: Alla fine degli anni Novanta, la globalizzazione della produzione e il suo spostamento, a livello globale, verso i paesi a basso reddito stavano prendendo piede su scala così vasta che era impossibile non notarlo; il che valeva anche per ciò che stava guidando tali processi, vale a dire gli elevati livelli di sfruttamento disponibili in paesi come il Messico, il Bangladesh e la Cina. Era indispensabile una teoria in grado di spiegare tutto questo, ma per rendersi conto di ciò che stava accadendo erano sufficienti un paio di buoni occhi. Era naturale studiare il comportamento delle multinazionali industriali, le TNC [Transnational corporation, n.d.t.] non finanziarie, considerato che si trattava dei principali agenti e beneficiari della globalizzazione – ed è appunto ciò che si stava facendo! Del resto, anche una formazione di base comprendente la teoria marxista del valore ci spingeva a prestare attenzione ai cambiamenti nella sfera della produzione… Per tutte queste ragioni, è stato uno shock scoprire che il marxismo, o meglio i marxisti, avevano ben poco da dire riguardo a questi fatti inediti.

Così, influenzato dalle teorie della dipendenza e dello scambio ineguale (o più esattamente, insoddisfatto da quelli che ho definito tentativi euro-marxisti di confutarle), ho iniziato, nel 1995, il lavoro che sarebbe sfociato nel libro, circa il periodo in cui ho abbandonato la Communist League, correlativo dello SWP [Socialist Workers Party, n.d.t.] degli Stati Uniti in Gran Bretagna (venne chiusa la sezione di Sheffield, io restai…). Nel 1997 ho scritto un primo abbozzo – un pamphlet/saggio intitolato, ‘Imperialism and the law of value’. Un ulteriore impegno in questo senso è stato interrotto, a partire dal 1998, dalla campagna contro le sanzioni e la guerra all’Iraq, fino a quando ho lasciato il mio lavoro nelle telecomunicazioni nel 2004, e dato il via alle ricerche per ‘Imperialism and the globalisation of production’, la mia tesi di dottorato portata a termine nel 2010. I contenuti del libro sono più ampi rispetto alla tesi, ma l’argomento di fondo si trova già tutto lì, e ha iniziato a circolare – è stata scaricata più di tremila volte, dunque più della prima tiratura del volume.

 

DW: A tuo modo di vedere, l’esternalizzazione imperialista dispone ancora di decenni per espandersi verso nuove frontiere, o i suoi limiti sono ormai percepibili?

JS: Penso che la crisi significhi, in termini generali, che i limiti sono già stati raggiunti – in altre parole, i maggiori guadagni sono stati ormai fatti, e le profonde contraddizioni nel sistema delle esternalizzazioni rispetto ai profitti si sono attivate. Per esempio, come argomento nell’ultimo capitolo del libro, gli “squilibri globali”, gli avanzi commerciali strutturali e i deficit derivanti dal trasferimento della produzione, hanno agevolato le condizioni – bassa inflazione, bassi tassi di interesse e bassa volatilità – per la frenesia finanziaria che ha preceduto la crisi. Sopratutto, non può essere sottovalutata la profondità e il carattere esplosivo della continua crisi globale. I tassi di interesse reali (tenendo conto dell’inflazione) in tutti i paesi imperialisti, compresi gli Stati Uniti, sono negativi, ma le risposte delle rispettive economie a questi stimoli estremi restano irrisorie. Così sempre più economisti iniziano a prendere in considerazione l’approccio del cosiddetto “helicopter money” (in base al quale, invece di prendere denaro in prestito per finanziare la spesa, i governi lo stampano e lo spendono, o addirittura lo concedono alle persone perché lo spendano)… Frattanto, solo ora la crisi globale sta arrivando nel cosiddetto mondo in via di sviluppo. Quello che Andrew Haldane ha definito consumo finanziato dal debito di beni frutto della produzione esternalizzata non può espandersi indefinitamente. La stagnazione della domanda finale nei paesi imperialisti (con la crisi del debito degli EM [emerging markets, n.d.t.] che preclude alle economie in stallo di quest’ultimi   di fare da rimpiazzo) significa che l’industrializzazione basata sulle esportazioni non è più una strategia di sviluppo sostenibile per le nazioni “in via di sviluppo”. Ciò implica un intensificarsi della “corsa al ribasso”. L’unica via di fuga capitalistica da una simile trappola, per di più a disposizione di pochi, consiste nell’orientarsi verso attività a più elevato valore aggiunto, come sta riuscendo a fare la Cina, con un certo successo, in alcuni settori chiave; ma ciò significa passare da una relazione simbiotica e complementare con le multinazionali con sede nei paesi imperialisti, fornendo mano d’opera a basso costo e ricevendo una piccola quota del valore finale, alla diretta competizione con queste aziende.

I tentativi di risolvere o contenere vecchie contraddizioni non hanno fatto altro che crearne una schiera di nuove. La produzione esternalizzata ha incrementato pesantemente la dipendenza delle aziende nelle economie imperialiste, nonché le economie imperialiste stesse, dal plusvalore estratto nelle nazioni a basso reddito, con le quali intrattengono un rapporto sempre più fondato sulla rendita e parassitario. Nella misura in cui l’esternalizzazione della produzione costituisce un alternativa all’investimento in nuove tecnologie, una tale forma di imperialismo rappresenta un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive, che si risolve in un enorme sperpero di forza lavoro, proprio in virtù del suo essere a basso costo.

 

DW: Non manchi di sottolineare quanto sia ancor’oggi valida l’analisi dell’imperialismo fornita da Lenin. Quali ritieni siano gli sviluppi nuovi e maggiormente significativi rispetto all’epoca in cui scriveva?

JS: Ai tempi di Lenin i rapporti capitalisti avevano appena iniziato a penetrare nelle nazioni assoggettate; la relazione tra nazioni dominanti e dominate era un rapporto tra società capitaliste e pre-capitaliste; la globalizzazione del rapporto capitale/lavoro era ancora incipiente, e si manifestava principalmente nell’agricoltura e nell’estrazione delle risorse, per invadere l’industria moderna solo sei decenni più tardi. Come sostengo nel libro (pp. 225-6): “Lenin non avrebbe potuto includere una concezione di come il valore venga creato nella produzione globalizzata, poiché tale fenomeno sarebbe emerso in una fase più tarda dello sviluppo capitalistico. Queste circostanze hanno dato origine a una inevitabile disconnessione, che persiste tutt’oggi, tra la teoria dell’imperialismo di Lenin e la teoria del valore di Marx”.

Come può essere colmata una simile lacuna? In proposito, vorrei citare un mio commento alla discussione svoltasi a margine della recensione di Michael Roberts [1] sul mio lavoro:

 Il mio punto di vista circa il rapporto tra oppressione nazionale e di classe, nel mondo contemporaneo, è basato su quello che considero un enorme passo avanti compiuto dall’amico e compagno Andy Higginbottom, il quale ha sostenuto, in due relazioni presentate alle  Historical Materialism conferences del 2008 e 2009, che mantenere “i salari (del sud)… al di sotto del valore della forza lavoro (del nord) costituisce una caratteristica strutturale centrale del capitalismo imperialista e globalizzato… L’imperialismo è un sistema finalizzato alla produzione di plusvalore che combina strutturalmente l’oppressione nazionale con lo sfruttamento di classe”. (The Third Form of Surplus Value Increase, conference paper, Historical Materialism Conference 2009). L’anno precedente aveva scritto, “L’oppressione nazionale si manifesta non solo nell’esproprio, ma si riproduce all’interno del rapporto capitale lavoro come super-sfruttamento, vale a dire intensi ritmi di lavoro, lunghi orari e salari al di sotto del valore della forza lavoro [ossia] gli standard sociali minimi raggiunti in quel momento nei paesi centrali del capitalismo”. (Rent, Mining and British Imperialism, conference paper, Historical Materialism ‘Conference, 2008). Tutto ciò, come argomentato nel libro, fornisce le fondamenta necessarie per una sintesi della teoria del valore di Marx e quella dell’imperialismo di Lenin, per un marxismo-leninismo degno di questo nome, a differenza delle sue precedenti iterazioni staliniste.

Sfortunatamente, la mia decisione di usare il primo capitolo per introdurre e strutturare il resto del libro, nonché di servirmi dell’ultimo capitolo per analizzare l’attuale crisi globale, è sfociata nella messa da parte di molto materiale riguardante questo tema di estrema importanza. Ora mi rammarico di non averne incluso almeno una parte nel mio volume, in particolare i passaggi seguenti:

La globalizzazione neoliberista rappresenta, tra le altre cose, una nuova fase nella globalizzazione del rapporto capitale lavoro. Un processo che pone i lavoratori delle nazioni dominanti e del sud globale insieme, in competizione gli uni con gli altri e tuttavia legati da una reciproca interdipendenza, connessi dal processo della produzione globalizzata, sfruttati con diversi gradi di intensità dagli stessi capitalisti. Ma questo qualitativamente nuovo stadio nell’evoluzione del rapporto capitale/lavoro possiede una caratteristica molto specifica: la divisione imperialista del mondo è stata ereditata dal capitalismo; adesso è inerente. In altri termini, la globalizzazione della relazione capitale/lavoro, nel contesto e sulla base di una preesistente divisione del mondo tra nazioni dominanti e dominate, comporta l’internazionalizzazione di tale divisione. la globalizzazione neoliberista è, tra l’altro, il dispiegarsi della forma imperialista del capitale.

Come risultato, quest’ultima fase dello sviluppo capitalistico non ha condotto alla convergenza delle nazioni oppresse con quelle “avanzate”, né al superamento del divario nord-sud, bensì a qualcosa che non è errato definire apartheid globale, nel quale le nazioni del sud sono divenute riserve di manodopera per il super-sfruttamento da parte dei capitalisti del nord, producendo fattori industriali e beni di consumo, sostenendo la “società dei consumi” occidentale. Questo è imperialismo su basi integralmente capitalistiche, in un avanzato stadio del suo sviluppo, in cui la globalizzazione del rapporto capitale/lavoro è avvenuta sulle fondamenta di una divisione imperialista del mondo ereditata. In epoca neoliberista, il capitalismo ha pienamente assimilata la vecchia divisione coloniale del mondo; scartando tutto ciò che gli è ostile e preservando, appropriandosene, ciò che promuove la sua continuazione ed espansione.

Lo smantellamento degli imperi coloniali e il conseguimento della sovranità formale da parte delle nazioni assoggettate, avanzamento reso possibile dalle moltitudini unitesi alle dure lotte combattute per la liberazione nazionale; nonché dalla più grande paura degli imperialisti, la crescente propensione di questi movimenti a intraprendere un percorso rivoluzionario socialista, come esemplificato in numerose occasioni, dalla Corea all’Algeria sino al Nicaragua. I nuovi rapporti di forza hanno obbligato le potenze imperialiste a riorganizzare le relazioni con le élite capitaliste emergenti nelle nazioni assoggettate, permettendo ai loro protetti di tenere le redini senza tuttavia lasciargli mai condurre autonomamente. La fine del colonialismo e l’ottenuta sovranità formale possono aver emancipato le borghesie nazionali, ma la stragrande maggioranza – quelli lasciati con nient’altro che la propria forza lavoro da vendere, in una parola le persone proletarizzate di questi paesi – attendono ancora la loro emancipazione. Il mondo continua a essere divisi in “nazioni dominanti e dominate”, ma ora le borghesie nazionali agiscono come intermediari e complici nel saccheggio imperialista della natura e del lavoro vivo delle loro stesse nazioni.

 

DW: Ai parlato di era neoliberista. La Nuova Zelanda ha avuto un governo decisamente neoliberista (laburista) negli anni Ottanta – il quale è stato uno dei primi ad adottare la deindustrializzazione e la tendenza alla delocalizzazione. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni Novanta i governi hanno intrapreso un corso più moderato. Per esempio, l’attuale governo si è indebitato e ha speso a fronte dell’austerità imposta in seguito alla crisi finanziaria globale del 2008. A tuo modo di vedere, il neoliberismo è un aspetto transitorio o permanente del capitalismo?

JS: La risposta iniziale di tutti i governi imperialisti alla crisi del 2008 è consistita nell’indebitarsi e spendere piuttosto che imporre l’austerità; la crisi del debito sovrano nell’euro zona iniziata nel 2010 ha scatenato la corsa precipitosa all’austerità. La Nuova Zelanda si è distinta, grazie ai prezzi elevati delle matterie prime e alla rapida crescita della Cina, ed è vulnerabile ora che questo venti favorevoli sono divenuti contrari. Non ho seguito da vicino le politiche del governo neozelandese, ma suppongo che “i mercati”, ossia i grandi investitori capitalisti, abbiano concesso al governo neozelandese un certo margine di manovra considerati tali venti favorevoli. La questione sembra essere se vi sia spazio, in Nuova Zelanda come altrove, perché i governi perseguano politiche non improntate all’austerità, non neoliberiste. Le finanze del governo neozelandese sembrerebbero essere in condizioni migliori rispetto alla Gran Bretagna, dove a dispetto dell’austerità, il governo continua a gestire un deficit di bilancio di oltre il 5% del PIL, prendendo in prestito 1,3 miliardi di sterline per settimana. La sinistra laburista afferma che le politiche di austerità dei conservatori sono guidate dall’ideologia, che Cameron e soci stanno servendosi della crisi come pretesto per perseguire la loro vendetta contro la spesa pubblica, e immaginano i tassi di interesse bassissimi non come segni di estrema debolezza economica, bensì come opportunità per ottenere prestiti, così da finanziare infrastrutture e investimenti, cosa che i capitali privati, nonostante i bassi tassi di interesse, non sono disposti a fare. In realtà, Jeremy Corbyn è andato oltre, discutendo l’ipotesi di un “quantitative easing popolare”, vale a dire stampare moneta allo scopo di finanziare la spesa per infrastrutture ecc., anziché prenderla in prestito. Una simile politica anti-austerità, incontrerebbe una dura resistenza da parte degli investitori, dagli Stati Uniti e dai governi europei, del FMI ecc.; sarebbe l’inizio di una grande battaglia.

Il neoliberismo non è un insieme di politiche, quanto la completa sottomissione della politica ai mercati, ovvero alle decisioni private dei capitalisti. È stato lanciato come parte di una controrivoluzione, un attacco su larga scala al lavoro organizzato, alle lotte di liberazione nazionale, alle rivoluzioni socialiste come nel centro america, e conserva pienamente un tale carattere controrivoluzionario. Tutto è transitorio, anche il capitalismo stesso. In quanto sistema, il neoliberismo è in crisi; come ideologia o insieme di politiche è allo sbando. Ma non vi è un’alternativa capitalistica valida e sicura per la de-globalizzazione, il protezionismo, l’autarchia, il controllo dei capitali ecc., non è altro che una via differente per la crisi.

 

DW: Come definiresti la Cina odierna – nazione oppressa o candidata allo status di paese imperialista? O nessuno dei due?

JS: O entrambe le cose? La Cina è quantomeno un’economia capitalistica? Ci sono sicuramente molti capitalisti ed è in corso una vasta accumulazione di capitale, anche da parte di multinazionali statunitensi e europee, ciò nonostante ritengo che la Cina stia tentando una transizione al capitalismo, e che abbia ancora parecchia strada da fare, una strada estremamente irta di ostacoli. La Cina ha risposto allo scoppio della crisi globale con un’enorme iniezione di credito nell’economia, stimata al 34% del PIL tra il novembre del 2008 e quello del 2009, ed è ampiamente riconosciuto che ciò ha risparmiato non solo la Cina ma il mondo intero da un crollo ancor più profondo. In ogni caso, ha certamente restaurato la crescita cinese al 10% per alcuni anni. Eppure, tra il febbraio 2015 e quello del 2016, il governo cinese ha deciso un pacchetto di stimoli ancor più grande – 40% del PIL, o in termini assoluti  2½ tanto le dimensioni dello stimolo del 2008-9 – e tuttavia la crescita economica è rallentata. Come sottolineato da George Magnus (‘China’s credit binge is the real concern’, Financial Times, 11 gennaio, 2016), “Il debito non finanziario cinese è…passato da circa il 100 per cento [nel 2008-9] a circa il 250 per cento del PIL, ma lontano dal rallentare insieme all’economia, il ritmo di accumulazione del debito è cresciuto negli ultimi uno o due anni… la creazione mensile di credito sta crescendo a un tasso quasi tre volte superiore a quello ufficiale del PIL, o anche maggiore se non si crede ai dati ufficiali del PIL”.

Il tentativo di transizione al capitalismo della Cina sta portando a un disastro economico (oltreché ecologico)? Così parrebbe, solo la tempistica è incerta. Ad ogni modo, come possiamo categorizzare un’economia che ha riversato più cemento nel 2010 e 2011 di quanto non abbiano fatto gli Stati Uniti nell’intero XX secolo? Che rappresenta oggi più della metà della domanda per la maggior parte delle matterie prime scambiate sui mercati globali? E che sta installando robot industriali più velocemente di chiunque altro al mondo, ponendo enormi risorse nello sviluppo di una propria industria robotica? [2] In un articolo del 2012,  ‘Outsourcing, financialisation and the crisis’ (http://www.mediafire.com/view/?hesj1vceutyyomc) , ho scritto

“L’ascesa della Cina costituisce un a minaccia per il dominio imperialista dell’Asia e del mondo? Sì, ritengo che lo sia. Quale genere di minaccia? Che i governanti cinesi – li si consideri una classe capitalista o una burocrazia stalinista – rifiuteranno di accettare lo status subordinato, oppresso e sottomesso riservato alle cosiddette nazioni emergenti, sfideranno l’egemonia USA sull’Asia sviluppando un contrappeso all’alleanza militare statunitense-giapponese che controlla le acque costiere cinesi, eserciteranno il potenziale poter economico riflesso nel loro possesso di miliardi di dollari in buoni del tesoro USA e altri asset finanziari, le loro multinazionali emergenti si faranno largo nel settore delle risorse minerarie e in mercati sinora appannaggio esclusivo delle nazioni imperialiste. Stanno già marciando su questa strada, una strada che conduce alla guerra, e gli Stati Uniti stanno rispondendo nella maniera che ci si aspetterebbe da una potenza imperiale egemone: l’invasione dell’Iraq era finalizzata a intimidire la Cina tanto quanto a garantire il controllo USA/UK sulle forniture di petrolio del Medio Oriente”.

 

DW: Hai puntualizzato che oltre l’ottanta per cento dei lavoratori industriali vivono e lavorano nel sud globale, il che è significativo in termini d’importanza economica e peso sociale. Vedi materializzarsi tutto ciò in nuovi movimenti rivoluzionari e antimperialisti?

JS: Sì, nei prossimi anni e decenni mi aspetto l’emergere di nuovi movimenti rivoluzionari e antimperialisti, che saranno più proletari, più femminili ed etnicamente più diversificati che mai. Scorci di futuro sono stati forniti di recente dallo sciopero generale nel settore tessile e in altre industrie in Egitto, il quale ha contribuito a rovesciare Hosni Mubarak, dai minatori in Sudafrica, dai lavoratori dell’elettronica in Cina, dai lavoratori tessili in Bangladesh e Cambogia. Dunque, ritengo che la crisi globale stia creando le condizioni per la rinascita di un movimento internazionale della classe lavoratrice. Ciò che dobbiamo tenere a mente è che, indipendentemente da quello che vi è nella testa dei lavoratori, la più profonda crisi mai affrontata dal capitalismo, combinata alla distruzione capitalistica della natura, significano che la barbarie e la guerra o la rivoluzione sociale rappresentano i due soli futuri possibili.

 

DW: Tracciando la produzione dell’iPhone, della t-shirt e della tazza di caffè hai restituito l’aspetto umano dell’economia del super-sfruttamento. Tu fai notare che l’opposizione in occidente è stata lasciata agli enti di beneficenza anziché ai sindacati. Ti sembra ci sia un cambiamento in proposito?

JS: Il protezionismo è la risposta di riflesso dei lavoratori di fronte alla competizione, è un’opzione più semplice rispetto alla lotta di classe, ma i lavoratori sono in grado di comprendere che il protezionismo conduce al disastro. Negli Stati Uniti si è sviluppato un movimento impressionante tra i lavoratori della Wallmart per i 15$ orari e il sindacato. Sono fiducioso possano maturare un senso di solidarietà per i lavoratori che producono i beni da loro disposti sugli scaffali di Wallmart. I 39.000 lavoratori della Verizon in sciopero, inclusi i 13.000 operatori di call-center, hanno recentemente scoperto che i lavoratori dei call-center nelle Filippine, ai cui servizi si è ricorso per piegare lo sciopero, sono stati pagati 1,78$ all’ora. Tuttavia, l’internazionalismo non è stata la risposta di questo funzionario sindacale citato nel sito web del sindacato (http://www.cwa-union.org/news/releases/cwa-uncovers-massive-verizon-offshoring-operation-in-philippines):

“Verizon è terrorizzata che l’opinione pubblica possa scoprire ciò che è accaduto ai buoni posti di lavoro della classe media che l’azienda ha spedito nelle Filippine. La verità è che Verizon sta distruggendo posti di lavoro della classe media americana, così da poter pagare i lavoratori 1,78$ all’ora e costringerli a lavorare tutto il giorno, anziché preservare buoni posti di lavoro nelle nostre comunità. Questo è il motivo per cui siamo in sciopero. Invece di trarre profitto dalla povertà all’estero, Verizon dovrebbe ritornare al tavolo e negoziare un contratto giusto che protegga i posti di lavoro della classe media”, questo quanto affermato da Dennis Trainor, presidente della CWA District One.

 

DW: Tu sostieni che i lavoratori sono intrappolati nel sud globale, come venga loro impedito violentemente l’ingresso nel nord globale, e come questo costituisca un aspetto importante dello sfruttamento cui sono sottoposti. Hai qualche idea riguardo ciò che si potrebbe fare in occidente?

JS: Solidarietà  è una parola vuota se non viene estesa a coloro che ne hanno più necessità, il che nel mondo odierno significa i lavoratori migranti. Un punto di partenza potrebbe consistere nel porre gli interessi e i bisogni dei lavoratori migranti al centro del Primo maggio in tutto il mondo. I controlli sula libera circolazione dei lavoratori sono un pilastro del sistema capitalistico globale esattamente come lo erano del sistema dell’apartheid in Sudafrica; la loro rimozione potrebbe destabilizzare l’intero sistema, e può essere realizzata solo come parte di un processo di superamento delle divisioni mutilanti imposte dal capitalismo e dall’imperialismo ai lavoratori. Superare queste divisioni imperialiste non è solo compito del socialismo, ne è bensì l’essenza stessa, il nome del periodo di transizione durante il quale tutto ciò che viola l’unità e l’uguaglianza dei lavoratori viene superato. Quando il capo della missione medica cubana,  inviata in Africa dell’ovest a combattere l’ebola, si è sentito domandare perché Cuba abbia mandato più medici del resto del mondo, la sua risposta è stata “a Cuba condividiamo ciò che abbiamo, non ciò che rimane”. Si tratta della più sintetica dichiarazione di internazionalismo proletario che mi sia capitato di sentire.


Note
[1] Una traduzione in italiano della recensione di Michael Roberts è disponibile sul sito di CortocircuitO, http://www.inventati.org/.
[2] Il Financial Times ((China’s robot revolution, Ben Bland, 28 aprile, 2016) ha recentemente riferito, “Attraverso tutta la cintura di produzione che abbraccia la costa meridionale della Cina, migliaia di fabbriche come la Chen si stanno convertendo all’automazione, una rivoluzione industriale, sostenuta dal governo e orientata alla robotizzazione, di dimensioni inedite per il mondo intero… , la trasformazione tecnologica della Cina ha ancora molta strada da compiere – il paese ha solo 36 robot per 10.000 lavoratori manifatturieri, rispetto ai 292 della Germania, 314 dl Giappone e 478 della Corea del sud”. Tuttavia vi sono molti più lavoratori manifatturieri in Cina che negli altri paesi; la  International Federation of Robotics, con sede in Germania, riconosce che la Cina potrebbe disporre di più robot industriali di ogni altro paese entro il 2017.

Link all’articolo originale in inglese Redline
La traduzione di un saggio di John Smith pubblicato sul sito della Monthly Review, nel quale sono sintetizzate le tesi del libro, è disponibile su questo stesso blog, Traduzioni marxiste, L’imperialismo nel XXI secolo
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