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“Il liberismo xenofobo di Trump non aiuterà i lavoratori americani”

Giacomo Russo Spena intervista Emiliano Brancaccio

trump brancaccio 510Per l’economista la sconfitta della Clinton segna la crisi di quel modello di consenso che metteva le macchine elettorali democratiche e socialiste al servizio degli interessi della grande finanza. Ma la Trumpnomics determinerà un imponente trasferimento di reddito a favore dei ceti più abbienti. E se Trump continuerà a pretendere dalla FED un rialzo dei tassi d’interesse, ci saranno pesanti ripercussioni per l’Eurozona e anche per la Russia dell’amico Putin.

Come interpretare la storica vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane? Per l’economista Emiliano Brancaccio siamo di fronte alla prima, vera incarnazione di quella nuova onda egemonica che egli ha più volte definito “liberismo xenofobo”, e sulla quale da tempo lancia l’allarme. Con Brancaccio discutiamo dell’esito delle elezioni statunitensi, della carta Sanders che i democratici non hanno voluto giocare, delle ricette economiche di Trump e dei loro possibili effetti sui rapporti tra gli Stati Uniti e il resto del mondo.

* * * *

Professor Brancaccio, Hillary Clinton esce duramente sconfitta dalle presidenziali americane. Il risultato viene interpretato come una disfatta per il partito democratico statunitense, ma anche le forze democratiche e socialiste europee sembrano accusare il colpo. Possiamo parlare della fine di quel “liberismo di sinistra” che era stato inaugurato da Bill Clinton nel 1992 e al quale molti in Europa hanno cercato di ispirarsi?

Di certo siamo di fronte a una crisi di quel regime di riproduzione del consenso che ha retto in Occidente per circa un quarto di secolo e che, per dirla in modo un po’ brutale, è consistito nel mettere le macchine elettorali dei partiti democratici e socialisti al servizio di programmi che si conformavano agli interessi dei gruppi capitalistici più grandi e con le maggiori ramificazioni internazionali. In questo modo si sono create le condizioni per sostenere politiche tese a comprimere la quota di reddito nazionale destinata ai lavoratori in cambio di qualche residua prebenda sociale e di poche concessioni sul versante delle libertà civili. Con la grande recessione del 2008 questa macchina del consenso è entrata in una crisi difficilmente reversibile. Gli interessi legati alla sua ripartenza sono ancora egemoni: proveranno a rimetterla in funzione ma lo scenario è profondamente cambiato, sarà un’impresa complicata.

 

Sotto la presidenza di Obama la disoccupazione è stata in gran parte assorbita e la crescita è tornata a livelli normali. Come si spiega lo scarto tra i risultati economici dell’amministrazione democratica e l’esito delle elezioni?

Il modo in cui l’amministrazione Obama ha gestito la grande recessione ha implicato mutamenti significativi nei rapporti tra apparati pubblici e capitale privato: la vecchia retorica liberista è stata scalzata da un massiccio interventismo statale, nel settore bancario e nell’industria. Ma la centralità economica e politica di Wall Street non è mai stata messa in discussione e le riforme sociali sono state limitate. La conseguenza è che per i lavoratori e per i soggetti sociali più deboli le cose non sono andate benissimo. Stando ai dati della FED e dell’OCSE, sotto l’amministrazione democratica la quota salari sul Pil è rimasta ben al di sotto dei livelli pre-crisi e non abbiamo assistito a una riduzione degli indici di povertà e disuguaglianza.       

 

I sondaggi delle scorse settimane dicevano che mentre la candidatura della Clinton era debole, quella di Bernie Sanders sarebbe stata più efficace contro Trump. In queste ore vari commentatori sostengono che Sanders avrebbe potuto conquistare la Casa Bianca. Lei che ne pensa?

Lasciamo stare i sondaggi. Il dato certo è che la vittoria della destra americana è stata netta. In termini assoluti Trump ha raccolto meno voti di Clinton e a guardar bene si è situato anche al di sotto del numero totale di consensi ottenuti da Romney nel 2012 e da McCain nel 2008. Ma il meccanismo di voto federale lo ha premiato in modo inequivocabile, e ha assegnato al partito repubblicano una quaterna di poteri impressionante: Presidenza, Camera, Senato e la possibilità di mantenere il controllo della Corte Suprema. Rispetto al 2008 il partito democratico ha perso circa dieci milioni di elettori, molti dei quali situati nei sobborghi più poveri, che avevano dato fiducia a Obama ma che delusi dalla sua amministrazione si sono poi allontanati nuovamente dalla partecipazione politica. A differenza di Hillary Clinton, Sanders aveva l’appeal per tentare di recuperare quei voti. Ma rimediare alle promesse mancate di Obama e alla disaffezione che ne è seguita sarebbe stato difficilissimo.

 

Però la leadership di Sanders sarebbe stata percepita come un corpo estraneo rispetto all’establishment. Almeno Trump non sarebbe stato l’unico rappresentante di quell’istinto di rivolta contro le élites che sembra avere ispirato le scelte di molti elettori.

E’ vero, ma in una democrazia sempre più plebiscitaria, con i partiti ridotti a comitati elettorali, i sindacati dei lavoratori in ginocchio da anni e le associazioni che cercano di aggregare gli interessi dei soggetti più deboli lasciate in uno stato di frammentazione, quell’istinto di “rivolta” si traduce nell’astensione al voto o al limite finisce per assecondare soluzioni di estrema destra. La candidatura di Sanders sarebbe stata in ogni caso benefica, ma l’onda schiacciante di Trump è frutto di un ulteriore regresso democratico nella struttura della società e delle istituzioni che la governano. Oggi più che mai, negli Stati Uniti come anche in Europa, una sinistra che ambisse ad esser vincente dovrebbe partire dai problemi di “struttura”, non dalla scelta della leadership.

 

In effetti l’onda di Trump sembra avere conquistato anche pezzi di società riconducibili al lavoro dipendente. Molti lavoratori hanno votato il candidato repubblicano per sostenere la sua politica di repressione dell’immigrazione. È stata una scelta razionale?

Non direi. Prendiamo George Borjas, l’economista di Harvard favorevole ai programmi anti-immigrazione, che è stato anche citato da Trump durante i suoi comizi. Stando a una delle più note ricerche di Borjas, un aumento decennale del dieci percento della quota di immigrati sul totale dei lavoratori nazionali è correlato a una riduzione decennale dei salari di appena il tre percento. Lo stesso Borjas oltretutto segnala che l’impatto negativo sui salari sembra annullarsi in archi di tempo più lunghi, e altri studi indicano che il nesso statistico tra immigrazione e retribuzioni è più instabile e meno significativo di quanto egli abbia suggerito. Né in genere si rileva un grande impatto dell’immigrazione sulla probabilità dei nativi di restare disoccupati. Che gli immigrati possano espandere quello che Marx definiva l’esercito industriale di riserva dei lavoratori è piuttosto ovvio, ma l’effetto finale sulle condizioni dei nativi è più debole e incerto di quanto l’opinione pubblica sia oggi indotta a credere. Non dovremmo mai smettere di ricordare che il peggioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice dipende molto più dalla libera circolazione dei capitali che dalla libera circolazione delle persone.

 

Ma allora, nel complesso, quali saranno gli effetti della Trumpnomics sui lavoratori?

Se anche dessimo per buone le discusse evidenze empiriche di Borjas, i presunti benefici del muro di Trump contro l’immigrazione saranno insignificanti rispetto ai danni che i lavoratori americani subiranno dalle altre ricette che lui ha annunciato, tra cui l’abolizione della riforma sanitaria. Per non parlare dell’aumento delle disuguaglianze: la riforma fiscale segnerà un imponente trasferimento di reddito a favore dei ceti più abbienti. A questo porta il “liberismo xenofobo” di Trump e dei suoi epigoni.

 

Che sia liberista sul versante fiscale e della spesa sociale è innegabile, però Trump vuole anche ridiscutere gli accordi internazionali sugli scambi. Lui dice che in questo modo le industrie e i posti di lavoro torneranno in patria e il deficit commerciale statunitense tornerà sotto controllo. La svolta protezionista di Trump è una novità positiva?

A ben guardare non si tratta di una novità. Stando ai dati della Commissione UE, già nel periodo del doppio mandato di Obama gli Stati Uniti hanno adottato oltre venti misure di restrizione degli scambi internazionali. Inoltre, il “Trade Facilitation and Trade Enforcement Act” approvato dal Congresso USA nel 2015 ha ammesso la possibilità di introdurre misure di controllo degli scambi verso quei paesi che accumulino surplus commerciali nei confronti degli Stati Uniti. Da diversi anni assistiamo, a livello mondiale, a un’accentuazione delle politiche protezioniste. Trump lo grida ai quattro venti mentre Obama magari preferiva sussurrarlo, ma la politica americana asseconda già da tempo questa tendenza.

 

Possiamo prevedere che Trump provocherà un’accelerazione del protezionismo americano?

E’ possibile. Io però su questo punto vedo contraddizioni, perché a volte Trump sembra volersi affidare ai controlli amministrativi sugli scambi, mentre altre volte sembra voler puntare sull’abbattimento della pressione fiscale per favorire le imprese nazionali e attirare capitali. Si tratta di linee d’azione diverse, la prima per così dire interventista e l’altra tipicamente liberista. Ho il sospetto che alla fine il nuovo presidente e il suo partito faranno più dumping fiscale che protezionismo.

 

Il nuovo inquilino della Casa Bianca si è anche distinto per avere attaccato più volte Janet Yellen, la presidente della Federal Reserve. Trump ritiene che la banca centrale americana stia tenendo i tassi d’interesse artificialmente bassi. Lei come giudica questa presa di posizione?

Questo sarà un aspetto decisivo della nuova presidenza. Se Trump continuerà ad attaccare la politica monetaria della FED, la banca centrale sarà costretta presto o tardi a inaugurare una nuova fase, fondata su un significativo rialzo dei tassi d’interesse rispetto alla crescita del Pil. Le ricadute sarebbero pesanti, a livello nazionale e internazionale.

 

Ma perché Trump dovrebbe desiderare un rialzo dei tassi d’interesse? Non corre il rischio di bloccare la ripresa americana?  

La politica monetaria della banca centrale non contribuisce solo a determinare l’andamento dell’economia. Manovrando la liquidità e i tassi d’interesse, il banchiere centrale fissa le condizioni di solvibilità del sistema e in questo modo funge da regolatore di un conflitto tra capitali forti in posizione di credito e capitali deboli che hanno accumulato debiti. Trump si è definito un paladino dei piccoli proprietari depauperati e delle imprese minori che versano in cattive acque, ma la verità è che lui e il suo partito rappresentano soprattutto gli interessi dei possessori di grandi capitali, che detengono crediti e rendite. Questi da tempo esercitano pressioni per cambiare gli indirizzi della FED: un aumento dei tassi d’interesse sposterebbe ingenti quote di reddito a loro favore.

 

Se Trump spingesse la FED verso il rialzo dei tassi, quali sarebbero le ripercussioni internazionali?

Per certi versi potremmo assistere a una riedizione dello sconvolgimento macroeconomico globale che si verificò durante i primi anni della presidenza Reagan. Allora il rialzo dei tassi d’interesse americani determinò fughe di capitali verso gli Stati Uniti, scatenando crisi finanziarie in America latina e in varie altre parti del mondo. Questa volta potrebbe essere il turno dell’Eurozona: se i tassi americani cresceranno troppo rispetto ai tassi europei, difficilmente Draghi riuscirà a convincere il direttorio BCE a proseguire la politica del denaro a buon mercato.

 

E con la Russia le cose come si metterebbero? Dopotutto Trump ha insistito su una politica di distensione con i russi, e sembra voler chiudere con l’interventismo militare americano.

Sul terreno strettamente militare per Trump non deve esser stato difficile dare più garanzie della Clinton, che si presentava con un curriculum alquanto bellicista. Se però la Trumpnomics sarà fondata sul tentativo di finanziare il deficit commerciale americano a colpi di aumenti dei tassi d’interesse e afflussi di capitale dall’estero, in condizioni di libera circolazione dei capitali l’economia russa potrebbe risentirne in modo significativo.

 

Se questo sarà l’orientamento della Trumpnomics, come evolveranno i rapporti con la Cina?

Il governo cinese non mancherà di sottolineare che se gli Stati Uniti pretenderanno ancora una volta di finanziare il loro deficit commerciale tramite ingenti prestiti dall’estero, difficilmente potranno mantenere un ruolo egemone nei rapporti monetari con il resto del mondo. Se Trump chiederà alla FED una politica aggressiva sui tassi d’interesse, in futuro la sua epoca politica potrebbe essere ricordata come uno degli ultimi fuochi del dollaro sullo scacchiere monetario globale.

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