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I Discorsi di Marte

Aspetti ideologici della guerra imperialista permanente

di Mario Lupoli

otto dix la guerra durante un attacco di gasDalla rivista D-M-D' n °10

Il capitalismo contemporaneo propone e ripropone delle categorie che apparentemente esprimono una contraddizione: pacifismo e interventismo, democrazia e dittatura, barbarie e civiltà. Categorie che sembrano aprire a un’alternativa e quindi a una possibilità di partire da esse per rovesciare in un senso o nell’altro la società. Dietro questa parvenza tuttavia si staglia l’unitarietà del pensiero dominante, e la convergenza delle sue sfaccettature nella conservazione dell’ordine sociale vigente, che la guerra necessariamente produce e che ha proprio la guerra quale modalità di esistenza. La produzione di un complesso ideologico imperialista fortemente caratterizzato dal fondamento costitutivo della guerra permanente è pertanto una specificità dell'epoca attuale, che potrà essere sovvertita unicamente su una base non capitalistica: a partire cioè dalla rivoluzione comunista.

Propaganda, mito e immaginario operano storicamente quanto le mitragliatrici

(T. di Carpegna Falconieri)

Capitalismo e verità

Il processo storico della vita degli uomini, nelle loro reciproche relazioni e interazioni, produce l'”intera ideologia”, un complesso variegato e mutevole di “impressioni, illusioni, particolari modi di pensare e particolari concezioni della vita”[1].

Gli uomini non possono esistere come atomi; essi sono nella misura in cui sono esseri relazionali, essenti - e non solo risultanti o parti di - relazioni e rapporti con altri uomini, con l'ambiente, con la società nel suo complesso. E' evidente quindi che comprendere ciò che è essenziale della dimensione umana rimanda al cogliere i rapporti essenziali su cui si costituiscono la società e gli stessi individui. I rapporti economico-sociali, pur non essendo evidentemente gli unici rapporti intercorrenti tra esseri umani, sono quelli che il nuovo materialismo marxiano ha riconosciuto, e dimostrato, essere questi essenziali: e a differenza delle sue volgarizzazioni postume, non lo ha fatto in maniera riduzionistica.

Le ideologie hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nelle società di classe, e il rapporto tra guerra, società di classe e ideologie è dalle origini fittissimo e fondante. Nella società borghese, la sua forma è particolarmente estrema. Per le caratteristiche specifiche del capitalismo, la realtà si manifesta necessariamente in una forma dissimulata alla coscienza spontanea. E non a caso sono proprio le relazioni tra uomini ad apparire come qualcosa di essenzialmente altro: rapporti tra cose.

Si produce spontaneamente una pletora di spettri, che gli ideologi mettono variamente in scena sul piano teorico della lotta di classe.[2]

Con queste caratteristiche, il capitalismo implica l'effettiva, compiuta forma del nichilismo, quale radicale nascondimento della verità, e dal quale si può fuoriuscire non con il pensiero ma passando per il rivoluzionamento dell'ordine sociale che lo genera.

 

Ideologia e imperialismo

L'imperialismo è lo stadio più elevato del capitalismo. Nelle sue forme contemporanee, esprime le configurazioni attuali e necessarie in cui si concreta ed esercita oggi il dominio del capitale. Se la guerra è sempre stata una caratteristica tipica delle società basate sulla dittatura di una classe, nell'epoca dell'imperialismo acquisisce una connotazione specifica in quanto appunto “guerra imperialista”, un potenziale di distruttività storicamente inedito, in tempi recenti un carattere “permanente”.

“Permanente” non solo per registrare il dato di fatto della ininterrotta trama bellica che accompagna interamente la vita attuale del capitalismo, ma anche per mettere in luce che la guerra imperialistica permanente è “il modo di essere del capitalismo”[3] decadente nello stadio attuale.

Abbiamo evidenziato che il capitalismo comporta necessariamente una manifestazione della realtà falsificata, e la lotta di classe spinge alla continua elaborazione ideologica, a rafforzare tale dissimulazione e il potere di classe che le è dietro. Ma se il modo di essere del capitalismo nel suo stadio attuale è la guerra imperialistica permanente, comprendiamo come questo generi un'enorme nube ideologica, plasmata su questo modo di essere. Un'ideologia che, come ebbe a dire Lenin, “si fa strada anche nella classe operaia, che non è separata dalle altri classi da una muraglia cinese”[4].

Gli apparati statuali della società borghese potenziano questo processo secondo direttrici costanti. In prima battuta questo è avvenuto con un imponente processo di “nazionalizzazione delle masse”, secondo la celebre espressione con la quale George L. Mosse[5] descrive l'organizzazione totale delle masse all'interno di dati regimi (in particolare il nazionalsocialismo ma potremmo estendere il discorso a ogni forma di dominio politico borghese). Una nazionalizzazione nella quale hanno assunto un ruolo decisivo simbolismi, ritualità collettive, feste e liturgie[6], che hanno offerto quei materiali estetici con i quali costruire, conservare e rielaborare una visione del mondo compatibile con - e funzionale a - quegli stessi regimi.

Niente è lasciato al caso, non solo la vittoria viene celebrata come pietra miliare di un comune cammino sotto un Capo o un'Idea, ma anche la sconfitta viene elaborata e rielaborata[7] nell'ideologia per diventare comunque strumento di costruzione identitaria e di dominio, di conservazione.

In seguito il fenomeno ha teso progressivamente a produrre meno le sembianze di un enorme esercito con i suoi capi, miti e riti, per approdare a forme di omogeneizzazione nella più ampia diversità possibile. Declina il senso di un'ideologia unica, un partito unico, un'irreggimentazione marziale della popolazione. Si impone una molteplicità (che in quanto tale appare naturale esercizio di “libertà individuali”) di condotte, pratiche, ideologie, costumi e mode, inclinazioni e orientamenti, tutti però riconducibili alla loro comune matrice: quella borghese.

La produzione di un complesso ideologico imperialista fortemente caratterizzato dal fondamento costitutivo della guerra permanente è pertanto una specificità dell'epoca attuale, che potrà essere sovvertita unicamente su una base non capitalistica: a partire cioè dalla rivoluzione comunista.

 

Pensare con la guerra

Il legame dell'ideologia con la guerra è tipico di ogni società classista, come dicevamo in apertura. Non solo negli aspetti di giustificazione della guerra, o come interrogazione sulla guerra, ma per l'introduzione di caratteristiche, temi e simboli bellici nelle categorie per concettualizzare ogni aspetto della vita sociale. Analizzando le società greca e romana dal 750 a.C. al 650 d.C., lo storico Harry Sidebottom sottolinea come “all'interno delle culture classiche, la guerra era fondamentale per la costruzione dell'ideale virile e per ogni riflessione sulle differenze fra uomo e donna; anche a livello individuale concetti tratti dalla guerra venivano usati dai singoli per comprendere e strutturare la propria personalità. ... quasi tutto ciò che si leggeva, si ascoltava o si osservava poteva evocare la guerra”[8]. Continua: “nel mondo antico la guerra fu un utile strumento di pensiero. In altre parole, era frequente che sia i greci sia i Romani usassero concetti connessi alla guerra per dare un senso al mondo e al ruolo che in esso ricoprivano; ma la guerra era usata anche per organizzare le loro idee riguardo ad altri argomenti, come la cultura, il genere sessuale e l'individuo. Si può quindi dire la guerra abbia permeato tutti gli aspetti del pensiero classico”[9]. Come ha sintetizzato efficacemente, pensare la guerra[10], pensare con la guerra[11].

C'è un aspetto dell'analisi di Sidebottom su cui intendiamo brevemente soffermarci: parlando della cosiddetta “arte occidentale della guerra”, quella sua celebre continuità non sarebbe tanto una realtà oggettiva, “quanto piuttosto ... un'ideologia forte che, a partire dalla sua creazione nel mondo greco, è stata ed è ancora continuamente reinventata, cambiando a ogni sua reincarnazione”[12].

E' un punto tipico dei materiali ideologici: possono resistere nella forma o nel simbolismo, e possono rappresentare alcune linee di continuità dalle prime società classiste ad oggi, ma anche mutare completamente corpo nelle varie “reincarnazioni”. E' la forza del richiamo profondo, la suggestione archetipica, la presenza reale e incombente delle tradizioni del passato che pesa, come scrisse Marx, sulle generazioni successive[13].

 

Pensare la guerra

Nella Grecia antica non sorse, sostanzialmente, un pensiero compiuto sulla guerra che riflettesse della sua legittimità o giustezza, perché c'era un accordo di base sull'evidenza delle ragioni dei conflitti e sul fatto che fossero “connaturate alla condizione umana”[14]. Al contrario a Roma la riflessione sulla giustezza della guerra fu ampia e ricca, tutta tesa a “legittimare il proprio potere, e con esso le guerre attraverso le quali lo avevano ottenuto”[15]. Ecco un aspetto che ritroveremo nelle guerre a venire: quello della legittimazione, che implicherà a sua volta altre costruzioni ideologiche, come vedremo.

 

Tre categorie ricorrenti

Quando ci si muove nel mare delle ideologie evidentemente la prima difficoltà è quella di categorizzare i concetti che si presentano nelle forme più disparate.

Una qualche forma di continuità di alcune categorie è rintracciabile, anche se, come si diceva, i contenuti sono suscettibili anche di una completa revisione, e non ne resta che un involucro. Involucro tuttavia funzionale a creare dei forti rimandi emotivi, culturali, tradizionali, con cui agganciarsi alla coscienza comune. Lo storico Tommaso di Carpegna Falconieri, in uno studio su “Il medievalismo e la grande guerra”, individua tre parole chiave, tre tematiche proprie dell'immaginario medievalistico che furono reclutate nella prima guerra imperialista mondiale: Barbarie, Cavalleria, Crociata. Pur non potendo essere una categorizzazione esaustiva, ci sembra tuttavia utile per classificare alcuni temi ricorrenti nelle ideologie della guerra fino a quella imperialista permanente della contemporaneità. Si tratta di concetti che difatti derivano dalla stereotipizzazione che operò l'intelligenza borghese dell'Ottocento: “immediatamente intellegibili in quegli anni [della Grande Guerra], essi in realtà lo sono ancora adesso, senza che si possano cogliere differenze sostanziali rispetto a cento anni fa: ancora oggi, in molti paesi occidentali e soprattutto in alcune culture politiche, questi tre termini vengono impiegati comunemente per rappresentare metaforicamente situazioni di conflitto”.[16]

 

Barbarie

Per costruire un nemico, per inventarlo come direbbe Cardini[17], è necessario portare fino in fondo un processo di “definizione delle identità”, che passa anche e soprattutto attraverso il rafforzamento della “dimensione di alterità”[18].

Il concetto di barbarie è particolarmente efficace per definire, identificare, se stessi come la civiltà in contrapposizione agli altri, i nemici della civiltà, i barbari. A nostro avviso si presta anche particolarmente bene a spingere in secondo piano ogni altra forma di contrapposizione. Se la posta in gioco è difendere la civiltà dalla barbarie, il resto passa in secondo piano. Si crea, in aggiunta, una gerarchia di priorità, del tutto inconsistente ma in tutta evidenza utile. E quindi: difesa della civiltà europea contro i (rispettivi) barbari nella Prima guerra mondiale imperialista; difesa della democrazia contro il fascismo nella Seconda; difesa dell'Occidente contro l'islamismo oggi; con le mille varianti nel passato, nel presente e quelle che verranno.

Nella Prima guerra mondiale, secondo di Carpegna Falconieri, erano due gli argomenti a definizione della barbarie: la distruzione della civiltà e l'utilizzo, nel farlo, di mezzi inaccettabili.

E' un aspetto particolarmente interessante, anche per cogliere plasticamente come le ideologie possano essere manipolate e utilizzate in mille modi per dire tutto e il contrario di tutto.

Con la Seconda guerra mondiale la scomparsa del confine tra territorio di guerra e zone civili, tra soldati e popolazione, tra obiettivi militari e non militari, ha fatto sì che nella storiografia la Prima guerra venga in genere presentata come l'ultima guerra in cui questi caratteri esistessero ancora.

Ma, per quanto in buona misura è così, anche nella Prima gli sconfinamenti verso una guerra totale, che investe l'intera società, sono significativi. Con mezzi inauditi, come cannoneggiamenti e bombardamenti (“barbarie tecnologica” e “scientifica”, si disse[19]), si colpirono città, civili, “il patrimonio artistico delle nazioni avversarie per eliminare le tracce del loro glorioso passato”[20], come a vicenda si accusavano.

Precisamente quanto verrà ripetuto contro i nazisti, che ritirandosi progettavano la distruzione completa delle città da loro lasciate, o quello che si ritorna a dire contro la devastazione da parte degli islamisti dei retaggi di culture preislamiche. Salvo essere poi di fatto tutti egualmente responsabili dell'uso di armi “inaccettabili” contro gli altri, e di piangere solo le distruzioni procurate dal nemico. Insomma, motivazioni utilizzabili da tutti i fronti dello scontro, come l'etichetta di barbarie, senza particolari difficoltà.

 

Cavalleria

Quella del cavaliere è “una figura senza tempo”[21]. La simbologia della cavalleria accompagnò, nella Prima guerra mondiale, l'“euforia con cui la popolazione europea si riversò nelle strade nell'agosto 1914 inneggiando alla guerra”[22]. Affondando in miti, storia, fantasia, letteratura e canti popolari, il “modello del gentiluomo combattente”[23] potenziava e rispecchiava la dicotomia barbarie-civiltà. Anche in questo caso si tratta di un argomento utilizzato da tutti i fronti. I tedeschi si riscoprivano cavalieri teutonici, gli inglesi gentleman guerrieri, perfino i boy scout, ricorda di Carpegna Falconieri, sono fondati come Giovani Cavalieri dell'Impero, sotto l'immaginifica egida di San Giorgio in armi.

Col tempo però la Prima guerra mondiale vide lo sfaldamento di questa simbologia, dopo che i primi mesi di combattimento riveleranno ai soldati di non essere cavalieri, ma operai[24] calati nel fango a scavare e a vivere nel terrore. Un contrasto tra immaginario e realtà che sconcerta confrontando ad esempio le pagine di D'Annunzio su una guerra che il poeta immagina dar spazio “per le belle gesta individuali, per la guerra come avventura, record, spettacolo[25], e quelle dei diari di guerra che la raccontano nella sua anonima, polverosa, mortifera routine.

Matura un aspetto che a nostro avviso caratterizza, fino alle sue estreme forme attuali, la guerra imperialista: “il senso della morte è incombente e interiorizzato. E il nemico è invisibile. Non lo si può sfidare in un duello, faccia a faccia: a usare la baionetta arrivano in pochissimi. I soldati non affrontano un avversario umano, ma un mostro. Le macchine, la tecnologia, la strapotenza dei materiali trasformano la guerra in un leviatano dotato di una volontà malefica, contro cui le deboli azioni dei soldati perdono senso. Il contatto ideologico con la patria è perduto”[26]. Ma Thánatos non è mai separato da Eros: è il caso di Marinetti, in cui “il carattere sistematico – anzi, ossessivo – che vi assume la metafora erotica e sessuale nell'espressione della fortissima carica di violenza dell'autore-combattente”[27] involgarisce con decadente sacrilegio l'immagine del cavaliere, anch'esso, non a caso, sempre teso tra due aspetti, cavaliere d'armi e cavaliere d'amore.

Quella del cavaliere in ogni caso resta un'immagine che non muore: metatemporale ma mai atemporale[28]. Nelle vesti di cavaliere teutonico apparirà anche Adolf Hitler ne L'Alfiere, un quadro apologetico realizzato da Hubert Lanzinger: “solo la testa, di profilo, emerge libera dall'acciaio. Hitler sta ritto in arcione, un sella a un cavallo di cui si vede soltanto la groppa. Stringe nel pugno destro il vessillo uncinato e guarda fisso, aggrondato, davanti a sé.”[29] In buona parte della propaganda antisovietica verranno utilizzati i cavalieri contro i barbari e i nemici di dio.

La guerra vede così enfatizzare una narrazione che la vuole sacra, dietro i cavalieri c'è la divinità, il clero benedice i rispettivi eserciti, i nuovi cavalieri rappresentano il meglio che una nazione esprime in questa battaglia. Nel 2007 verrà pubblicato uno studio su Bush e la guerra in Iraq[30] dal quale risulta che tra gli spettatori della tv FOX, di noto orientamento repubblicano e conservatore, ben il 37% riteneva che Bush fosse “stato scelto da Dio per condurre la guerra globale al terrore”[31]. E' il tema della crociata.

 

Crociata

L'aspetto religioso compare con una certa regolarità nelle ideologie della guerra. Oggi ci appare un'ovvietà: una ampia parte del discorso di definizione della identità e dell'alterità viene svolto attorno a questo tema. I termini sono spinti fino al parossismo. Evidentemente ci sono settori di popolazione islamista che non trovano ridicolo che i tagliagole dello Stato Islamico sgozzino dei pensionati europei in vacanza in qualità di “crociati”. E ci sono ampi strati di popolazione “occidentale” che sostengono con fervore che la crociata contro il terrorismo islamista sia benedetta dal loro dio e che rappresenti la necessaria difesa della cristianità dalla barbarie.

Il medioevo naturalmente era particolarmente carico di questo aspetto nelle sue ideologie belliche.

Meno ovvio sembra in riferimento alla prima guerra mondiale imperialista, ma è la demonizzazione del nemico, la sua definizione come “male assoluto”[32], che, in questo caso e sempre, fa della guerra una guerra santa. Nella prima guerra mondiale il tema della crociata fu impiegato contro i turchi, ma anche tra diverse denominazioni cristiane. Gli eserciti di “crociati” sono protetti da santi in armi. Fioriscono le letture apocalittiche della guerra.

Nella seconda guerra imperialista mondiale la crociata era tema spendibile contro il nazismo, contro le plutocrazie, contro il comunismo... più il nemico viene demonizzato per caratteri propri, tanto più particolarmente versatile diventa la categoria.

E' interessante per esempio vedere l'atteggiamento della Chiesa Cattolica nella Seconda guerra mondiale. Il nazismo aveva diversi elementi ideologici anticristiani, che lo portarono a uno scontro soprattutto col Vaticano, mentre col mondo protestante l'accomodamento risultò meno complesso. Ma un punto di incontro tra nazismo e cattolicesimo romano c'era: l'anticomunismo. Quando la Germania nazista invase nel 1941 la capitalista Russia staliniana, una crescente parte della Chiesa interpretò in termini positivi quest'atto di guerra come una crociata contro il bolscevismo.

Con la moderna lotta contro il terrore islamista i termini ritrovano la loro immediatezza: il richiamo storico è consolidato, gli stereotipi sono forti e proposti in una incessante riproposizione.

 

Sfaccettature dell'“intera ideologia” imperialista

Dalla formazione economico-sociale emerge l'“intera ideologia” di un'epoca, ma al suo interno le variabili possono essere infinite e contraddittorie, senza che questo metta in discussione il carattere omogeneo, dal punto di vista di classe, che esprimono.

Affrontiamo brevemente tre apparenti dicotomie ideologiche: pacifismo-bellicismo, democrazia-fascismo, occidente-islamismo. Tutte queste coppie si propongono come composte da termini alternativi, ma rappresentano solo varianti di elaborazione ideologica dello stesso contenuto: la dissimulazione e la preservazione del dominio del capitale.

In tal senso è significativo come sia comune spostarsi facilmente e “con grande rapidità da una posizione all'altra”, potremmo dire riprendendo le parole con le quali Chomsky commentava i passaggi di così tanta gente “da un entusiastico fervore stalinista a un appoggio incondizionato alla potenza americana”. I motivi di fondo sono evidenti: “fondamentalmente, ... si tratta sempre della stessa posizione. In realtà non ti stai muovendo più di tanto.”[33]

Offre una rappresentazione molto grafica di questo quadro di movimento l'istruttivo Convertirsi alla guerra di Mario Isnenghi[34]. Lo storico veneziano analizza con dovizia di documenti come nei pochi mesi tra il giugno del 1914 e il maggio del 1915 l'Italia cambia completamente le sue alleanze internazionali, accompagnata da socialisti che diventano guerrafondai, democratici internazionalisti che sposano la bandiera tricolore, cattolici che scoprono un inedito amore per lo Stato patrio, intruppandosi con entusiasmo sulla scia degli effluvi incensati, sparsi dai preti benedicenti (ignorando forse che ogni schieramento pretende sempre per sé i favori degli dei).

 

Pacifismo vs bellicismo

Può rientrare senz'altro nella intuizione del senso comune che un ordine sociale che produce necessariamente guerra, come quello capitalistico, produce al tempo stesso un'ideologia bellicistica che la sostenga.

Più delicato il problema della produzione di ideologie pacifiste. Sono in contraddizione con quelle belliciste? Rappresentano, cioè, un'alternativa, capace di riprodurre un'alterità anche nella realtà (un sistema pacifico)?

Quando ci si muove sul terreno scivoloso delle ideologie, tutto può apparire in prima battuta legittimamente pensato. Risalendo verso il reale, possiamo tuttavia riconoscere che la contraddizione fondamentale della società è tra le classi sociali che ne caratterizzano il modo di produzione, ovvero la struttura essenziale delle società umane. Contraddizione tra classi che, su un piano storico, significa anche contraddizione tra un ordine sociale decadente (il capitalismo) e uno potenziale, futuro, da liberare dal seno di quello in decadenza (il comunismo).

La guerra, quale momento ordinario, necessario, non eccezionale del sistema capitalistico, non ha come termine di contraddizione la pace. In altre parole, non è contrapponendo alla guerra la pace che la prima troverà le condizioni per essere estirpata e la seconda per radicarsi nel terreno della storia umana, perché l'origine della guerra non è in scelte, condotte, politiche, culture che possono essere perturbate o sovvertite dalle ideologie e le pratiche della pace. Essendo la sua origine nella dinamica propria della struttura essenziale della società umana contemporanea, nel modo di produzione capitalistico, è solo e unicamente su questo piano che è possibile intervenire nei riguardi della guerra.

Ma non si tratta affatto di una semplice inutilità, quando parliamo di pacifismo. Anzi. Il pacifismo è un servo dell'imperialismo, come nella celebre definizione di Trotsky, uno degli strumenti nelle mani di quello stesso ordine che ha la guerra come un tratto distintivo. “Pacifismo come servo dell'imperialismo” è un articolo che il dirigente comunista scrisse nel 1917, e per molti versi è significativo. Nota in apertura Trotsky che in quel momento apicale della dimensione bellica della storia degli uomini fanno la comparsa i pacifisti in un numero mai visto prima. “Ogni epoca storica ha non solo la propria tecnica e la propria forma politica”, nota causticamente, “ma anche una forma di ipocrisia da essa peculiare.

Una volta i popoli si distruggevano l'un l'altro nel nome dell'insegnamento cristiano di amore per l'umanità. Oggi solo governi arretrati si richiamano a Cristo. Le nazioni progressiste si sgozzano a vicenda in nome del pacifismo. Wilson trascina l'America in guerra nel nome della Società delle Nazioni e della pace perpetua. Kerensky e Tsereteli richiamano all'offensiva nell'interesse di una pace imminente.” Il pacifismo si limita a restare alla “superficie dei fenomeni sociali”, ma resta lontano dalla base economica. Le dinamiche guerresche del capitalismo moderno, mentre lasciano campo libero a un militarismo trionfante, allo stesso tempo danno al pacifismo “una nuova vita che è differente dalla vecchia tanto quanto un tramonto rosso sangue è differente da una rosea alba.” Quando i conflitti sono proiettati al di fuori delle principali metropoli imperialiste, al comune sentire sembra che un remoto attivismo bellico e la pace in terra propria siano fratelli. “Per quanto riguarda i governi capitalisti e le grandi imprese, essi naturalmente non hanno avuto niente da obiettare a questa interpretazione 'pacifista' del militarismo.” Un qualcosa di simile agli anni a noi più vicini, nei quali le battaglie della guerra permanente negli angoli periferici del globo hanno seminato a lungo l'illusione di una “pace perpetua” nelle metropoli, almeno fino a quando con le Twin Towers non sono crollati anche i miti della pace e della sicurezza occidentale.

Intanto, prosegue Trotsky, “il conflitto mondiale era in preparazione e la catastrofe mondiale era lì in attesa d'esplodere”.

Molto precisa la sua sintesi: “Teoricamente e politicamente, il pacifismo ha esattamente le stesse basi della dottrina dell'armonia sociale tra i differenti interessi di classe. L'opposizione tra stati nazionali capitalisti ha esattamente le stesse basi economiche della lotta di classe. Se noi siamo pronti ad accettare la possibilità di una graduale attenuazione della lotta di classe, allora dobbiamo anche accettare la graduale attenuazione e regolazione dei conflitti nazionalistici.” Soggiogata economicamente e socialmente la piccola borghesia, il Capitale ha dovuto soggiogarla “anche politicamente”, acquisendo le sue tradizioni ideologiche, ”tutte le sue teorie ed i suoi pregiudizi e fornendo loro valore fittizio. Questa è la spiegazione del fenomeno che è stato osservato negli ultimi dieci anni precedenti la guerra, quando l'imperialismo reazionario stava crescendo a tassi terrificanti sotto un illusorio fiorire di democrazia borghese, riformismo e pacifismo. Le grandi imprese hanno assoggettato la piccola borghesia ai loro fini imperialistici per mezzo dei suoi propri pregiudizi.”

In campo “socialista” borghese, il pacifismo può essere declinato in termini differenti ma la sua sostanza resta identica. “Il pacifismo socialdemocratico e patriottico di Dan, come il quacchero pacifismo di Bryan, sono, quando si viene al sodo, egualmente al servizio dell'imperialismo.”[35]

Si potrà obiettare tuttavia che nei documenti ufficiali dell'Associazione Internazionale dei lavoratori fossero contenuti appelli alla pace e contro la guerra. Chiarisce magistralmente Bordiga (1951): “Marx nel 1864 fu costretto a mettere negli statuti e nell'indirizzo inaugurale dell'Internazionale, che correvano il grave pericolo di essere redatti da Mazzini, le parole di morale civiltà e diritto, e la frase che le stesse norme giuridiche ed etiche che regolano i rapporti tra gli individui dovevano essere applicate ai rapporti tra i popoli. Non era né la prima né l'ultima volta che i marxisti si vedevano costretti nell'azione politica al maneggio di termini e proposizioni teoricamente scorrette. Marx lo spiega nel suo epistolario e dice che mise quelle vuote parole dove meno potevano nuocere. Stupirsi di questo come di una doppiezza significa appunto credere che davvero le regolette etiche possano valere qualcosa a indirizzare i rapporti tra gli uomini, nell'insieme o soli...

La prima articolazione del marxismo basta a far mettere tra i ferri vecchi il principio della 'non violenza' attribuita da millenni a Cristo malgrado egli avesse detto: non son venuto a portare la pace ma la guerra! (ed era nel suo quadro storico una guerra contro oppressori sociali); e in tempo moderno rappresentato da Tolstoi e da Gandhi, le cui dottrine tuttavia confessano la certezza del sanguinoso scontro. I pacifismi astratti, tra individui, tra classi, tra Stati, si equivalgono per il marxista, che pone al loro posto l'analisi storica della 'teoria della forza'.” Continua il comunista di Resina: “l'orrore marxista per il pacifismo letterario e demagogico è tale, che è stato, come andiamo mostrando, troppe volte sfruttato con falsificazioni abili dai socialguerrafondai. In tutte le edizioni dell'Antidühring, fino al 1894, Engels nulla ha trovato da modificare alla sua confutazione della 'non violenza' scritta nel 1878, dunque nel periodo successivo alla Comune.” Allo stesso modo, come riporta ancora Bordiga in questo articolo, “Lenin non può introdurre la spiegazione marxista dei rapporti tra socialismo e guerra, senza liberarsi in partenza dell'equivoco pacifista”. Scriverà difatti Lenin: "I socialisti hanno sempre condannato le guerre tra i popoli come cosa barbara e bestiale. Ma il nostro atteggiamento di fronte alla guerra è fondamentalmente diverso da quello dei pacifisti borghesi (fautori e predicatori della guerra) e degli anarchici".[36]

Un commento di particolare rilievo di Bordiga: “Ma vi è di più. Non solo noi ci differenziamo dai pacifisti borghesi perché essi negano l'impiego di armi nella lotta tra le classi sociali, e per la loro incapacità all'apprezzamento storico delle guerre, ma per un altro punto, sul quale Lenin mostra di pensare che anche gli anarchici siano con noi, così come su quello della guerra civile. Ci divide dai pacifisti borghesi il nostro concetto dell' 'inevitabile legame delle guerre con la lotta delle classi nell'interno di ogni paese', e della 'impossibilità di distruggere le guerre senza distruggere le classi ed edificare il socialismo'. Questo passo, che noi per motivo di propedeutica abbiamo citato per ultimo, è il primo della tesi sul pacifismo, ed è il più importante. Esso distrugge ogni possibile ospitalità nel marxismo-leninismo di movimenti che abbiano a finalità la soppressione della guerra, il disarmo, l'arbitrato o la eguaglianza giuridica tra le nazioni (Lega di Wilson, O.N.U. di Truman).

Il leninismo non dice ai poteri capitalistici: io vi impedirò di fare la guerra, o io vi colpirò se fate la guerra: esso dice loro, so bene che fino a quando non sarete rovesciati dal proletariato voi sarete, che lo vogliate o meno, trascinati in guerra, e di questa situazione di guerra io profitterò per intensificare la lotta ed abbattervi. Solo quando tale lotta sarà vittoriosa in tutti gli Stati, l'epoca delle guerre potrà finire.

Si tratta di una posizione generale. Il marxista non può essere pacifista o 'antiguerrista' poiché ciò significa ammettere che si possa abolire la guerra prima della abolizione del capitalismo. Non basta dire che ciò sarebbe un errore teorico. Esso è un tradimento politico, poiché una simile illusione non facilita il convogliamento delle masse ad una lotta più vasta, bensì ne agevola l'asservimento, non solo al capitale, ma anche alla guerra stessa. Le masse proletarie guidate da cattivi marxisti, che si erano sempre detti pacifisti, hanno dovuto fare la guerra contro i tedeschi, perché i loro capi hanno detto che quelli soli minacciavano la pace, come la hanno dovuta fare contro i russi per lo stesso motivo: hanno marciato due volte e marceranno forse la terza, e dai campi opposti, a combattere una guerra 'che dovrà mettere fine alle guerre'.

Si tratta, diciamo, di una posizione generale. Il marxista non è pacifista, per ragioni identiche a quelle che non ne fanno, ad esempio un anticlericale: egli non vede la possibilità di una società di proprietà privata senza religione e senza chiese, ma vede finire chiese e credenze religiose per effetto della abolizione rivoluzionaria della proprietà.” Il richiamo conclusivo è alla XXXIII tesi del Terzo Congresso dell'Internazionale comunista: “Il pacifismo umanitario antirivoluzionario è in fondo un ausiliario del militarismo”.[37]

 

Democrazia vs fascismo

Portato ideologico della guerra imperialista su un fronte o l'altro è anche quello della democrazia contro il fascismo. Per molti versi in questa coppia di apparenti contrari si replica lo stesso rapporto di pace contro guerra.

Onorato Damen, in Garibaldinismo non è marxismo, affrontò la questione anche dal punto di vista specifico delle ideologie della guerra imperialista: “È risaputo”, scrisse, “che in fase di guerra guerreggiata l'esercizio del potere, il dominio anche psicologico sulle masse sono esercitati in modo assoluto dalle forze che detengono il monopolio della guerra. Questo in tutti i paesi coinvolti nel conflitto. In Italia questo monopolio era esercitato dal fascismo e dalle forze più legate alla conservazione del capitalismo che nel fascismo vedevano lo strumento più valido della difesa dei loro interessi di classe.

In questa situazione quale spazio vitale poteva essere riservato al moto partigiano? Quale margine vitale ne avrebbe giustificato e assicurato l'esistenza? Non certo quello della classe operaia che era politicamente inesistente sul piano insurrezionale, ma lo spazio vitale e il margine sociale di quelle stratificazioni economico-politico-religiose che erano materialmente e spiritualmente legate alla guerra antifascista condotta dalle democrazie occidentali compresa la Russia Sovietica. Se questo spazio vitale non fosse esistito, se questo margine sociale non fosse stato presente, sarebbe mancato il presupposto storicamente concreto per la nascita e lo sviluppo del partigianesimo. Da qui la molteplicità di tendenze, di ideali e di bandiere che ha caratterizzato il movimento; da qui la sua inevitabile sudditanza ad una visione generale della guerra.” La comune inevitabile sudditanza di fascismo e antifascismo alla guerra è la loro comune produzione dal sistema capitalistico e dai suoi Stati. L'analisi di Damen è impietosa: “...fascismo e guerra, antifascismo e guerra antifascista, condotta con la forza, la ideologia e i mezzi materiali e morali offerti a piene mani dall'imperialismo americano, erano avvenimenti estranei agli interessi specifici del proletariato e andavano osservati come fenomeni che trovavano la loro ragion d'essere nella dialettica interna della borghesia capitalista”.[38]  

 

Civiltà occidentale vs barbarie islamista

Questa variante della lotta contro la barbarie ha origini antiche, di cui risente nella simbologia, e oggi ha un utilizzo eccezionalmente forte. Caratterizza nella forma preponderante la dicotomia civiltà occidentale – terrorismo, definendola in maniera più peculiare.

Ma esiste una effettiva differenza? Innanzitutto per i fondamentalisti islamisti “il problema non è la differenza culturale (lo sforzo di proteggere la propria identità), ma, all'opposto, il fatto che i fondamentalisti sono già come noi, che, segretamente, hanno già interiorizzato i nostri valori, e giudicano sé stessi a partire da questi stessi valori”[39].

E, come osservato in occasione dell'attacco alla redazione di Charlie Hebdo[40], è solo retorica indicare nell'intricato mondo dell'imperialismo contemporaneo dove comincia e finisce l'Occidente, e dove comincia e finisce l'Islam, nel groviglio di conflitti e contiguità tra frazioni borghesi in un campo o nell'altro. Su un piano culturale, non ha senso immaginare, d'altro canto, di potersi opporre con strumenti e argomenti premoderni alla mondializzazione capitalistica, perché, come evidenziato da S. Žižek (al di là dell'impossibilità dal punto di vista socio-economico), opporvisi significa già parlare il linguaggio moderno, assumere una forma necessariamente moderna, come l'IS che anziché “un caso estremo di resistenza alla modernizzazione, dovremmo semmai concepir[e] come un caso di modernizzazione perversa...”[41], ammesso che, aggiungiamo noi, nell'epoca attuale sia lecito l'aggettivo.

 

Caratteri essenziali delle ideologie belliche

Le ideologie della guerra imperialista permanente non si distinguono, in ultima analisi, dal complesso ideologico dominante: nei tratti essenziali non sono che una parte di questo complesso.

Una caratterizzazione in base all'oggetto (guerra, pace, conflitti, nemici, battaglia o così via), d'altronde, sarebbe inappropriata.

Abbiamo già sottolineato che identificare la guerra odierna con la categoria della permanenza si configura come riconoscimento del fatto che la guerra stessa è diventata il modo d'essere del capitalismo. La produzione ideologica di conseguenza non può non distinguersi, oggi, per parlare precipuamente la voce di questo modo d'essere.

Le categorie belliche, abbiamo visto, hanno sempre avuto un ruolo nella modalità in cui le società classiste hanno letto se stesse, hanno detto degli altri e rappresentato l'articolazione della propria struttura. Su una scala inaudita nel passato, le ideologie che servono la guerra oggi permeano tutta la vita sociale, in modalità che presentano forti tratti di novità.

Abbiamo aperto attorno a due assi, pensare la guerra e pensare con la guerra; chiudiamo proponendo come categoria interpretativa quella della bellicizzazione del pensiero.

L'ideologia “nel senso più stretto”, sintetizzò efficacemente Marcuse, “non ha basi concettuali al di fuori del sistema costituito; e la maggior parte delle sue idee e dei suoi valori viene fornita dal sistema stesso”[42]. Ed oggi il pensiero borghese, la coscienza comune intonata a quella dominante, sono strutturati all'interno delle modalità attuale di essere del capitale, quindi alla guerra permanente. Il discorso della società attuale è costruito su questa modalità e ne parla la lingua.

Ciò che distingue più fortemente oggi le ideologie della guerra è la loro liquefazione nei discorsi ordinari dell'ideologia complessiva. Liquefacendosi in questo amalgama, hanno depotenziato la loro specificità estetica (eccezionale o ridondante a seconda dei momenti storici), ma conferito la loro propria significatività a tutte le intonazioni ideologiche.

In un suo articolo sui “totalitarismi”, L'avenir des religions séculiéres, Raymond Aron incastona - in un testo fortemente anticomunista - una suggestione stimolante: “E' dubbio”, scrive Aron, “che assisteremo alla ripetizione degli avvenimenti che hanno seguito all'ultima guerra. Alla fine della crisi attuale, il clima morale sarà differente da quello con cui era terminata la crisi precedente. Il messaggio del presidente Wilson, i 14 punti, aveva suscitato grandi illusioni: altrettanto non si potrebbe dire della Carta atlantica. Gli abusi della propaganda, gli eccessi delle ideologie a buon mercato, hanno finito per provocare un effetto di saturazione”[43]. Aron, nella inevitabile fumosità delle argomentazioni liberali fuori tempo massimo, coglie un aspetto ma, ci sembra, ne banalizza le ragioni. Non contestiamo che possa nascere e resistere un effetto di saturazione a determinate forme di propaganda ideologica, ma di certo l'esperienza storica ci suggerisce l'estrema volatilità di certe “difese immunologiche” in determinati risvolti storici. Ciò che però è per noi più significativo è che si riduce sì lo spazio delle grandi narrazioni ideologiche, ma per ragioni opposte rispetto a quanto comunemente sostenuto.

Non siamo precipitati in un'epoca post-ideologica; al contrario, l'onnipervasività dell'ideologia satura lo spazio, rendendo superflui discorsi specifici ed eccezionali. Non è possibile escludere del tutto che qualcosa di simile al millenarismo nazionalsocialista possa riproporsi, capace di mobilitare masse, di attendere allo sterminio sistematico di interi gruppi sociali e di autorappresentarsi, in maniera ritenuta credibile dalla coscienza comune, come forza salvifica che si oppone barbaricamente a un mondo decadente.

Ma il coagularsi, a partire dalla trama del complesso ideologico, di determinati suoi materiali in un discorso coerente, con scopi, nemici ed eroi definiti, viene reso sempre più superfluo dalla configurazione violenta e marziale dell'intera ideologia in quanto tale quale prevalente, dominante modus di pensiero e linguaggio della intera coscienza comune. Vale a dire, è difficile trovare un fioraio in un giardino fittamente fiorito, o che sorga il bisogno di una calda coperta su una spiaggia tropicale.

 

I fantasmi della bellicizzazione del pensiero

Se tutto il discorso ideologico diventa bellico, si totalizzano anche le sue categorie.

Il nemico, sempre più, si spersonalizza e diventando spettrale si trasfigura in una minaccia che terrifica proprio perché non si sa da dove viene, quando potrebbe giungere, con quale volto colpirà.

La coscienza comune si impregna di questa ossessione di un nemico anch'esso permanente: quello che viene sottratto alla figura del nemico è la dimensione spaziale (da dove verrà), quella temporale (quando colpirà), la stessa soggettività (il volto che scomparendo potrebbe diventare quello di chiunque). Se il volto di chiunque potrebbe nascondere quello del nemico, la paura è permanente, il senso della guerra è nella vita quotidiana: ma non è più allarme dell'eccezionale, dell'orrore che si riconosce e di cui si ricorda un prima e si attende un dopo. E' la normalità di una vita che non ha alternative avvertite, che non ha storia, che in quella paura trova un aspetto che non può essere riconosciuto per mancanza di un qualunque possibile raffronto.

Le categorie della barbarie e della civiltà, dell'occidente e dell'oriente, gli eroi e i nemici personificati, diventano dispositivi che, lanciati e riprodotti, finiscono per sorreggere la presenza[44] nella società più violenta della storia.

Potrebbero essere infiniti gli esempi di questa fantasmagorizzazione dei caratteri della guerra permanente nella vita quotidiana, e così della facoltà di standardizzare in norma quello che era cosa, se non eccezionale, quantomeno circoscritta, riconoscibile e differente da ogni forma di “normalità” concepibile. Ma ci sembra che quello della paura nella guerra permanente sia sintomatico, e su questo ci soffermiamo brevemente in chiusura.

E' la paura di una morte che può piovere dal cielo con un aereo di linea dirottato, è la paura che la signora in fila alla cassa del supermercato possa essere imbottita di esplosivo e far saltare tutto in aria, la paura che la stessa “civiltà” sia sovvertibile magari da quei ragazzi arrivati dall'altra sponda del Mediterraneo, sfuggendo dalle guerre che insanguinano la loro terra d'origine.

Viviamo in una guerra permanente con battaglie in ogni angolo del mondo, e con un concentrato di violenza crescente nelle stesse metropoli più mature, della quale i media offrono uno spettacolo confuso, dove tutto si somma, si sovrappone e confonde. Si generano indifferenza, lontananza, assuefazione ma anche, contestualmente, terrore: quello che può apparire come un paradosso è invece l'inevitabile prodotto di questa prassi comunicativa. Come ha scritto Augé: “il sistema dell'informazione crea una forma di paura nuova, più sfuggente e più astratta. Quindi più difficile da combattere. Tuttavia, il fatto che sia più astratta non significa che non abbia effetti concreti, producendo negli individui un terrore paralizzante.”[45] Come questo influenzi le relazioni sociali, la vita di ogni giorno, è evidente. Ancora l'antropologo francese ha commentato: “... il timore fa parte del nostro paesaggio quotidiano, modificando le nostre vite e i nostri comportamenti. La vita deve continuare, quindi finiamo sempre per adattarci. E' però una vita mutilata.”[46]

 

La bellicizzazione del pensiero è un fenomeno totalitario?

Quando si parla di onnipervasità delle ideologie della guerra permanente, della loro scaturigine necessaria dalle modalità di essere della società del Capitale, può intendersi il sorgere di un fenomeno totalitario, che investe senza spazi di dissenso o di alternativa tutto il corpo sociale. Ma non è così.

Una coscienza teorica, distinta e opposta a quella spontanea, si definisce nella misura in cui riesce a penetrare l'opacità con cui la realtà si manifesta nel capitalismo. Questa possibilità affonda le radici non nella “scienza”, mito in sé astratto, ma nel più profondo delle facoltà umane (che della scienza e della filosofia possono far uso). L'uomo ha, in quanto homo sapiens e storico, le risorse per criticare, prefigurare e trasformare la realtà: critica, prefigurazione e trasformazione sono specificità umane, della sua prassi, ovvero della sua esistenza. Solo abolendo l'umano si compirebbe un pieno totalitarismo, che tuttavia a tal punto non potrebbe esistere perché mancherebbe l'oggetto della totalitarizzazione.

Il capitalismo abbrutisce gli uomini fino a farli sentire bestie proprio nelle attività in cui si realizza ciò che è umano (il lavoro nelle sue molteplici accezioni), e uomini in ciò che è comune a tutti gli animali (abitare, mangiare, riprodursi).[47] La realtà sotto il capitalismo non può che manifestarsi necessariamente in maniera mistificata. La forza-lavoro degli uomini, dei proletari, è merce tra le merci. I rapporti tra gli uomini appaiono rapporti tra cose. La sua forza-lavoro, ma non l'uomo, non il proletario, può essere totalmente cosificato. Criticare, prefigurare, trasformare, è ciò che, distinguendo gli uomini, li preserva in quanto uomini, e in tale misura si conserva la possibilità (che non può però essere collocata su un piano destinale) di rivoluzionare l'esistente.

Una coscienza teorica, non di massa, contrapposta a quella comune sempre mistificata, è stata possibile e lo resta oggi, ed è evidente in questa possibilità, in quanto parte dell'esperienza storica.

In questo senso, la tensione totalitaria delle ideologie dominanti non giunge mai a compiersi, perché si infrange contro l'irrealizzabile di ogni dominio: la totale oggettivazione degli uomini.

 

Oltre la bellicizzazione del pensiero

In queste potenzialità umane risiede tutta la dirompenza della prospettiva di trasformazione dell'esistente. Non è una speranza utopica. La stragrande maggioranza delle donne e degli uomini non ha interessi a conservare un ordine sociale basato sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, che ha la guerra permanente quale modalità di essere e che mistifica ogni rapporto. Allo stesso tempo, questi lavoratori salariati, questi moderni proletari, possono avere effettivamente la forza di organizzare la propria vita associata su basi libere, per soddisfare i bisogni materiali e spirituali di tutti.

Quando, nell'ultima tesi su Feuerbach, Marx fa appello alla trasformazione del mondo non opera nessuna riduzione pragmatista. Individua compiutamente l'essenza dell'umano che a partire dalla rivoluzione comunista potrà trovare una piena apertura nelle forme della vita di liberi individui associati. In quest’orizzonte i discorsi di Marte potranno tacere, e la storia delle donne e degli uomini avrà altre parole da pronunciare.


Note
[1]     Mario Lupoli, «Classe, coscienza e potere», Prima parte, DemmeD' n. 8, Febbraio 2014
[2]     Karl Marx, Prefazione alla seconda edizione (1873) a Il Capitale, UTET, Torino 2009, pag. 81
[3]     Giorgio Paolucci, Lorenzo Procopio, «Puntualizzazione sul concetto di decadenza», Prometeo n. 12, dicembre 2005; ora disponibile anche su istitutoonoratodamen.it
[4]     Vladimir Lenin, L'Imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Opere Scelte in VI Volumi, Progress – Editori Riuniti, Mosca – Roma, Volume V, pag. 129.
[5]     Cfr. George L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Il Mulino, Bologna 1975
[6]     Cfr. anche l'interessante e ampia panoramica offerta da George L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari 2008
[7]     Cfr. Wolfgang Schivelbusch, La cultura dei vinti, Il Mulino, Bologna 2006
[8]     Harry Sidebottom, La guerra nel mondo antico, Il Mulino, Bologna 2014, pag. 7
[9]     Ivi, pag. 29
[10]    Ivi, pag. 69
[11]    Ivi, pag. 29
[12]    Ivi, pag. 8
[13]    “La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi...”, cfr. Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma 1991, pag. 7
[14]    Harry Sidebottom, La guerra nel mondo antico, cit., pag. 72
[15]    Ivi, pag. 73
[16]    Tommaso di Carpegna Falconieri, «Il medievalismo e la grande guerra», Studi Storici, n. 1, a. 56, Roma, giugno 2015
[17]    Franco Cardini, L'invenzione del nemico, Sellerio, Palermo 2006.      Cfr. anche Noam Chomsky, Media e potere, Bepress, Lecce 2014, pagg. 57-60: i nazisti creano il nemico degli ebrei, degli zingari e così via. Gli Stati Uniti d'America hanno utilizzato per molti anni l'Urss, e, una volta che questa è implosa, una sfilza di nemici: “i terroristi internazionali, i narcotrafficanti, gli arabi impazziti e Saddam Hussein, il nuovo Hitler, uno dopo l'altro” (pag. 59).
[18]    Tommaso di Carpegna Falconieri, «Il medievalismo e la grande guerra», cit., pag. 57
[19]    Ivi, pag. 58
[20]    Ivi, pag. 56
[21]    Franco Cardini, Quell'antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione francese, Il Mulino, Bologna 2013, pag. 23
[22]    Tommaso di Carpegna Falconieri, «Il medievalismo e la grande guerra», cit., pag. 60
[23]    Ibidem
[24]    Ivi, pag. 61
[25]    Mario Isnenghi, Il mito della grande guerra, Il Mulino, Bologna 1989, pag. 180
[26]    Tommaso di Carpegna Falconieri, «Il medievalismo e la grande guerra», cit., pag. 64
[27]    Mario Isnenghi, Il mito della grande guerra, cit., pag. 181
[28]    Franco Cardini, Quell'antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione francese, cit., pag. 24
[29]    Mario De Micheli, L'arte sotto le dittature, Feltrinelli, Milano 2000, pag. 30.      Per approfondire le specificità della produzione e riproduzione ideologica nazionalsocialista a un livello di massa, cfr. Ian Kershaw, Hitler e l'enigma del consenso, Editori Laterza, Roma-Bari 2004
[30]    Gary C. Jacobson, «The public, the president, and the war in Iraq», The polarized Presidency of George W. Bush, Oxford Scholarship Online Monographs, pagg. 245-85, cit. in Manuel Castells, Comunicazione e Potere, UBE, Milano 2014
[31]    Manuel Castells, Comunicazione e Potere, cit., pag. 218
[32]    Tommaso di Carpegna Falconieri, «Il medievalismo e la grande guerra», cit., pag. 73
[33]    Noam Chomsky, Media e potere, cit., pagg. 20-21
[34]    Mario Isnenghi, Convertirsi alla guerra, Donzelli, Roma 2015
[35] Lev Trotsky, Pacifismo come servo dell'imperialismo, 1917, disponibile su marxists.org
[36]    Vladimir Lenin, Il Socialismo e la guerra, in Opere Scelte in VI volumi, Progress-Editori Riuniti, Mosca-Roma, Vol. II, pag. 379
[37]    [Amadeo Bordiga], «Tartufo o del pacifismo», Battaglia Comunista n.6, 1951. Cfr, anche [Amadeo Bordiga], «Pacifismo e comunismo», Battaglia Comunista n. 13, 1949. Per una visione globale dei citati documenti dell'IC su questo tema, cfr. Aldo Agosti, La Terza internazionale. Storia documentaria, Editori Riuniti, Roma 1976.
[38]    Onorato Damen, «Garibaldinismo non è marxismo», Battaglia Comunista, marzo/aprile 1960
[39]    Slavoj Žižek, L'Islam e la modernità. Riflessioni blasfeme, Ponte alle Grazie, Salani, Milano 2015, pag. 17
[40]    Giorgio Paolucci, «L'attacco a Charlie Hebdo», istitutoonoratodamen.it
[41]    Slavoj Žižek, L'Islam e la modernità. Riflessioni blasfeme, cit., pagg. 24-29
[42]    Herbert Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 2001, pag. 53
[43]    Raymond Aron, «L'avvenire delle religioni secolari», in AA.VV., La filosofia di fronte all'estremo, a cura di Simona Forti, Einaudi, Torino 2004, pag. 22
[44] Ovvero un vissuto, un modo di stare nel mondo, ridotto a presenza "semplice", tale perché, come commenta Rovatti, "è il risultato di una semplificazione, di una vera e propria amputazione: sottratto dal suo complesso gioco con l'assenza, l'essere qui e ora del presente si blocca in una dimensione che, a veder bene, non ha tempo, è priva di temporalità. Ma è priva anche di spazio, perché a sua volta lo spazio è intimamente connesso con la temporalizzazione. Eppure questo modo di guardare la realtà, rendendola così povera e vuota mentre produce l'illusione che sia piena e ricca, è il modo 'ovvio': esso pervade la quotidianità, e non cessa di dare la sua impronta alla filosofia stessa, la quale, perpetuando un pregiudizio che mina alla base ogni sua affermazione, viene meno proprio al suo compito che sarebbe quello di porsi innanzi tutto il problema di tale ovvietà e di prendere da essa una distanza" (Pier Aldo Rovatti, La posta in gioco. Heidegger, Husserl, il soggetto, Bompiani, Milano 1987, pag. 25). E, nonostante si tratti di una mera presenza nel mondo, la strutturazione della società la rende comunque insostenibile, bisognosa di appigliarsi a dispositivi di sostegno.
[45]    Marc Augé, intervista rilasciata a Fabio Gambaro, la Repubblica, 28 gennaio 2013, ora Marc Augé, «La matassa delle paure», in Zymgunt Bauman, Il demone della paura, Editori Laterza – la Repubblica, Roma 2014, pag. 53
[46]    Ivi, pag. 55
[47]    Cfr. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1968
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