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N\Euro-fobia
(estratto di un articolo in uscita sul no.147 della Contraddizione)
origini della questione
Introduzione al 1° gennaio 2002 della moneta unica coincide con una evidente impennata dei prezzi (“1000 lire sono come 1 €”). Il ministro dell’economia Tremonti (governo Berlusconi 2) attribuisce l’aumento dei prezzi alla mutata attitudine psicologica dei consumatori; secondo il ministro Trecarte, il problema consisteva nel fatto che i “cònzumatori” italiani non avendo adeguata confidenza con monete dotate di un valore così alto (1 € e 2 €), le sperperavano impoverendosi “a loro insaputa”. Per ovviare a ciò, propone l’introduzione dell’euro di carta (la proposta resta inevasa anche a livello europeo).
euro-fobia moderna
Bibliografia: “Il tramonto dell’Euro” (A.Bagnai, 2012), criticato da alcuni per cui la sua prospettiva culturale sarebbe “populista, nazionalista, socialista” ma divenuto punto di riferimento imprescindibile per parte della sinistra sedicente antagonista.
Tesi principale: il problema dell’euro è che l’adozione di una valuta unica a livello europeo permette un trasferimento di risorse dai paesi del sud Europa alla Germania. L’adozione dell’euro ha privato lo stato italiano di uno strumento, a suo dire, fondamentale, ossia quello della cosiddetta svalutazione competitiva che molti anni ha permesso di deprezzare la lira; quindi l’Italia non può adottare una manovra sul tasso di cambio per stimolare la vendita delle merci locali all’estero, migliorando così il saldo della bilancia commerciale.
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Manifesto per un’Europa egualitaria
di Karl Heinz Roth e Zissis Papadimitriou
Pubblichiamo qui un’anticipazione dal «Manifesto» di Roth e Papadimitriou, in libreria da oggi per DeriveApprodi.Alla vigilia delle elezioni europee un manifesto per il futuro dell’Europa
La situazione attuale
L’Europa si sta impoverendo. I poteri forti stanno trascinando le classi lavoratrici verso la rovina. Sono gli agenti di un sistema definito dai principi del massimo profitto e della concorrenza. Un sistema instabile che puo sopravvivere soltanto finché continuerà a espandersi in maniera spasmodica: in pochi continueranno ad arricchirsi ricorrendo alla progressiva espropriazione, allo sfruttamento e all’immiserimento della maggioranza. Questa dinamica rischia di subire una battuta d’arresto a causa del crollo dei profitti, per questo le classi dominanti corrono ai ripari per mantenere ben salde le disuguaglianze e accelerare lo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali.
Le loro strategie più rilevanti al riguardo sono l’accrescimento e la stabilizzazione delle riserve economiche, il consolidamento dei processi di produzione, la riduzione dei salari e la privatizzazione dei beni pubblici e dei servizi sociali, cosi come l’introduzione di un sistema creditizio piu restrittivo. Il risultato saranno fenomeni complessi di precarizzazione e di impoverimento di massa. Le classi subalterne si vedranno deprivate dei loro fondamentali diritti all’esistenza e saranno costrette a sopportare la pressione di una disoccupazione sempre crescente, di insicurezza sociale e rapporti di lavoro sempre piu malpagati e limitati nel tempo.
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Euro, quelli che ‘se ne usciamo ci sarà la corsa agli sportelli’ (Diritto di replica)
di Alberto Bagnai
Siamo al redde rationem.
Mentre gli oligarchi, quelli per i quali i suicidi provocati dalla crisi sono “l’emersione di una contraddizione tale da aprire la strada a un progetto costituente europeo”, se ne stanno ben rinchiusi e defilati nei loro bunker, nelle strade, casa per casa, lotta un’improbabile armata Brancaleone di bambini soldato, mandati allo sbaraglio con argomenti tanto insulsi quanto terroristici. Fra questi, come spesso accade, il più convincente ad occhi inesperti è anche il più ridicolo agli occhi del professionista. Ma se il pubblico non coglie immediatamente il ridicolo, la colpa non è certo sua: la colpa è di un sistema dell’informazione volto da trent’anni a distorcere i più elementari fatti economici. Per ripristinare un minimo di buon senso, però, basta poco, come spero di chiarirvi se avrete la pazienza di leggermi.
Dunque: li avete mai sentiti quelli che raccontano che se si uscisse la nuova lira si svaluterebbe, e quindi, nell’imminenza di questa prospettiva, ci sarebbe una fuga di capitali all’estero, preceduta da una corsa agli sportelli (che gli espertoni chiamano bank run)? La conclusione dei nostri economisti improvvisati è che privando di liquidità il sistema economico italiano, questo fenomeno condurrebbe rapidamente l’Italia al collasso.
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Uscire o no dall’euro: gli effetti sui salari
Emiliano Brancaccio* e Nadia Garbellini**
Uno studio sugli effetti salariali e distributivi della permanenza o dell’uscita dall’euro. Il pericolo di una “grande inflazione” in caso di uscita, evocato da Draghi, non trova riscontri adeguati. Ma anche l’opinione secondo cui gli effetti salariali e distributivi di un abbandono dell’euro non dovrebbero destare preoccupazioni è smentita dalle evidenze empiriche. Se si vuole salvaguardare il lavoro, la critica della moneta unica deve essere accompagnata da una critica del mercato unico europeo.
Negli ultimi cinque anni la Germania ha conseguito una crescita del Pil di quasi tre punti percentuali, a fronte di una caduta superiore ai sette punti in Italia. Si tratta di una divaricazione che non ha precedenti dal secondo dopoguerra. Giovedì scorso, gelando gli ottimisti al governo, Eurostat ha confermato la tendenza: confrontando il Pil del primo trimestre 2014 rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, si rileva una crescita superiore ai due punti percentuali in Germania e una ulteriore diminuzione di mezzo punto in Italia.[1] Semmai ve ne fosse stato bisogno, siamo di fronte all’ennesima conferma del “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times nel settembre scorso: le politiche di austerity e di flessibilità del lavoro non riescono a ridurre le divergenze tra i paesi membri dell’Eurozona, ma per certi versi tendono persino ad accentuarle.[2]
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Le elezioni europee e il treno di Lenin
di Sandro Moiso
“Era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ell’è di presente, e che la fussi più stiava che li Ebrei, più serva ch’e’ Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d’ogni sorte ruina.[...] In modo che, rimasa sanza vita, espetta qual possa esser quello che sani le sue ferite, e ponga fine a’ sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite. Vedesi come la prega Dio, che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà et insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli.” (Niccolò Machiavelli – Il Principe – cap.XXVI)
Machiavelli era, per il suo tempo, un autentico rivoluzionario, anche se Renzi non l’ha ancora capito poiché ogni tanto lo cita a vanvera come quei cattivi studenti che sparano cazzate sperando di salvarsi in corner dall’insufficienza grave, citando luoghi comuni per sentito dire (spesso neanche in classe, ma al bar). Nel disastro il fiorentino doc sapeva, infatti, intravedere la possibilità della ripresa della lotta e della vittoria anche se oggi qualcuno allevato alla scuola del pensiero positivo di Jovanottiana memoria vedrebbe sicuramente in lui uno sfascista.
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Uscire dall'euro
Par Jacques Sapir
Le elezioni europee saranno l’occasione di fare il punto della situazione sull’ impressione dei popoli riguardo alla costruzione dell’Unione Europea. Sappiamo che l’opinione in merito è andata fortemente degradandosi dal 2009, come mostrano parecchi sondaggi. Il problema è particolarmente acuto in Francia, dove, per la prima volta, il numero di opinioni sfavorevoli all’Unione Europea è maggioritario.
Bisogna innanzi tutto ricordare che l’Unione Europea non è l’Europa, checché se ne dica. L’Europa è una realtà geografica, una realtà politica – anche e compreso nei conflitti – e, ben inteso, è una realtà culturale. Tale realtà esisteva ben prima che nascessero i primi progetti di unione o di federazione.
L ‘Unione Europea non è l’Europa
L’Europa è esistita, culturalmente e in un certo modo politicamente, ben prima della Comunità Economica Europea [quello che si chiamava « Mercato Comune » e che era il predecessore dell’UE] e, ben inteso, prima dell’UE. L’Unione Europea ha istituzionalizzato dei meccanismi di cooperazione, ma ha anche irrigidito le relazioni tra i Paesi europei che ne facevano parte e ha ampiamente destabilizzato quelli che si trovavano alla sua periferia. L’UE e la CEE prima di essa non sono state « forze di pace » a misura del continente europeo. Pretendere che sia così vuol dire dimenticare il ruolo fondamentale della dissuasione nucleare garantita dagli Stati Uniti [la coppia URSS- Stati Uniti poi la Gran Bretagna e la Francia]. La dissuasione nucleare, rendendo impossibile un grande guerra in Europa, e ciò particolarmente quando la dissuasione francese è diventata effettiva [metà degli anni ‘60], ha ricoperto un ruolo ben più decisivo della CEE e dell’UE nel mantenimento della pace.
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Finanza globale e Europa
Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli intervistano Christian Marazzi
Pubblichiamo la seconda parte (qui la prima) dell’intervista a Christian Marazzi, a cura di Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli. I temi trattati riguardano essenzialmente la situazione economica e politica dell’Europa. In vista del convegno sulla Moneta del Comune del prossimo 21-22 giugno, organizzato da Effimera a Milano.
* * * * *
Stefano Lucarelli: a Davos, Axel Weber, ex governatore della Bundesbank e attualmente presidente di UBS (Unione delle Banche Svizzere, una delle 10 multinazionali della finanza più potenti, ndr.), ha rilasciato una dichiarazione un po’ fuori dal coro che è tuttavia significativa: “L’Europa è sotto scacco. Sono ancora molto preoccupato. La situazione dei mercati è migliorata, ma non l’economia reale della maggior parte dei paesi. I mercati stanno ora sottovalutando i rischi, specialmente in periferia. Mi aspetto che alcune banche non riescano a passare i test nonostante la pressione politica. Non appena ciò diventerà evidente, ci sarà una reazione finanziaria nei mercati”. Questa affermazione va di pari passo con quella frase che è scappata alla Merkel a dicembre, ripresa solo da Le Monde e da Jacques Sapir: “Presto o tardi, senza la coesione necessaria, la moneta esploderà”: Sapir commenta sul suo blog: “Tutto ciò che la Germania propone ai suoi partner sono dei ‘contratti’ che li portano a sostenere la totalità dei costi d’aggiustamento necessari per la sopravvivenza dell’euro, mentre essa sola trarrà profitti dalla moneta unica. Ma tali contratti non faranno altro che spingere l’Europa del sud e la Francia verso una recessione storica”.
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Euro e Austerity: la tenaglia che ci stritola
Vladimiro Giacchè
Credo che il primo dovere nei confronti di noi stessi sia quello della chiarezza.
In primo luogo sulla gravità della situazione. Il nostro paese ha perso, dall’inizio della crisi, poco meno del 10% del prodotto interno lordo, il 25% della produzione industriale, il 30% degli investimenti. A chi paventa catastrofi nel caso di un’eventuale fine dell’euro va risposto che al punto in cui siamo l’onere della prova va rovesciato, perché la catastrofe c’è già. E la prima cosa da fare è di comprendere come ci siamo finiti e cosa fare per uscirne.
Ci troviamo, molto semplicemente, nella peggiore crisi dopo l’Unità d’Italia: peggiore di quella del 1866, e peggiore di quella del 1929 (Rapporto CER n. 2/2013).
Peggiore per tre motivi: perché il livello di prodotto pre-crisi – che negli altri casi era già stato recuperato dopo 6 anni– in questo caso non sarà recuperato neppure in 10 anni; perché gli indicatori di cui disponiamo non segnalano alcun miglioramento significativo della situazione (al contrario, quanto alla disoccupazione, essi ne prevedono un ulteriore aumento nel corso del 2014). E anche perché la situazione attuale è caratterizzata da due elementi di rigidità che privano il nostro Paese di margini di manovra.
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La favola dell'euro: "Boulevard of broken dreams"
Francesco Ruggeri, Giuliano Thosiro Yajima
Sono ormai passati 5 anni dalla scoppio della crisi finanziaria che ha sconvolto il mondo e che ha travolto le economie più avanzate, dimostrando quanto fragile fosse il periodo di crescita che l’occidente stava vivendo e facendo emergere tutte le contraddizioni del sistema economico e sociale in cui viviamo.
L’Europa è al centro di questa “tempesta perfetta”. I paesi facenti parte dell’Unione Monetaria Europea (UME), in particolare, sono quelli che stanno trovando maggiori difficoltà nel fronteggiare questa situazione. Lo dimostra il continuo aumento dei tassi di disoccupazione e il deterioramento della produzione che danno vita ad una spirale recessiva che apparentemente sembra non avere fine.
I paesi che stanno ricevendo le maggiori attenzioni sono quelli definiti “periferici”, che possono essere identificati con quelli del sud europa, che hanno ricevuto l’appellativo di PIIGS ( ai quali si aggiunge anche l’Irlanda). Sotto accusa sono gli elevati debiti pubblici accumulati da questi paesi, che li sottopongono ad attacchi speculativi da parte dei mercati finanziari, come è successo ad Italia e Grecia nel Novembre del 2011. Le misure che questi paesi hanno adottato, sotto indicazione di Commissione Europea, Banca Centrale europea e Fondo monetario internazionale, sono state all’insegna dei tagli alla spesa pubblica e dell’aumento della tassazione per diminuire i disavanzi.
I risultati di queste misure, come molti avevano previsto, sono stati disastrosi: in un momento di calo dei consumi e della produzione, con disoccupazione in aumento, tagliare le spese, quindi agire in modo pro-ciclico, comporta un aggravamento della situazione, perché tagliando le spese si tagliano redditi, quindi consumi; ciò fa diminuire ancora di più la produzione e porta ad un aumento della disoccupazione, aggravando la spirale recessiva.
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Riunire l’unione monetaria
Una proposta per contrastare gli squilibri della zona euro
di Luca Fantacci, Università Bocconi
Gli squilibri commerciali persistenti minacciano di far deragliare l’economia europea. Luca Fantacci propone una European Clearing Union per promuovere un modello sostenibile di commercio in tutta l’Eurozona
Quasi quattro anni dopo l’inizio della crisi dell’euro, siamo riusciti a scongiurare un collasso, ma non favorire un progressivo recupero. Per troppo tempo ci siamo basati sulla ricetta dell’austerità come unica cura possibile. Ma il trattamento si è rivelato inefficace e persino dannoso, perché era basato sulla diagnosi sbagliata. Sono stati messi sotto accusa i debiti pubblici, i bilanci sono stati tagliati, la recessione approfondita. Solo di recente l’opinione degli esperti ha riconosciuto che i debiti pubblici sono, semmai, solo parte di un problema più ampio e diverso: i debiti esteri.
Infatti, nonostante la richiesta di convergenza che ha espresso a parole sin dal suo inizio, l’unione monetaria ha paradossalmente portato ad una crescente divergenza nelle economie dei paesi membri: dopo l’introduzione dell’euro, alcuni paesi hanno accumulato surplus commerciali, anno dopo anno, mentre altri hanno simmetricamente accumulato deficit.
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Finanza globale e Europa
Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli intervistano Christian Marazzi
ANDREA FUMAGALLI: Vorremmo trattare principalmente tre argomenti con Christian Marazzi.
Fare prima di tutto una veloce discussione sulle dinamiche e le tendenze in atto nell’ambito del capitalismo globale finanziarizzato, a partire dalle scelte di politica economica sia valutarie che monetarie, partendo dal fatto che le tensioni valutarie iniziano a essere percepibili in alcune parti del globo (vedi crisi indiana della rupia e le tensioni in Argentina e in sud America). Il discorso sulle tensioni valutarie è propedeutico a una discussione più specifica sui rischi di dinamiche speculative, ovvero quali nuove bolle speculative si possono sviluppare di fronte a una chiusura di un anno come il 2013 che ha inciso molto di più in termini di crisi economica in Europa rispetto a quanto successo nel 2009, all’indomani della bolla dei mutui subprime negli Stati Uniti. Un 2013 in cui, nonostante il calo del PIL in Italia intorno all’1,7%, le ripercussioni sulla situazione dei redditi, sui processi di impoverimento, sulla perdita di potere di acquisto, sulla dinamica negativa del consumo e della domanda aggregata, sulla capacità dell’export di compensare la perdita della domanda interna, ebbene questi effetti sono stati di gran lunga superiori rispetto al 2009 quando il PIL in Italia e negli altri paesi era calato in proporzioni molto superiori (ad esempio del 5,1% in Italia).
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La sofferenza dei pochi che decide la "maggioranza" dei... pochissimi
Tra Padoan e Bentham, spiegando la Grecia
Quarantotto
Molti ricorderanno questa dichiarazione di Padoan, rilasciata in un'intervista al Wall Street Journal: "Il consolidamento fiscale sta producendo risultati, la sofferenza sta producendo risultati.
Riferita, com'è, al consolidamento fiscale nell'area euro, per la sua provenienza, non costituisce una sorpresa.
Nella sua visione, più volte espressa in diversi studi, l'indebitamento pubblico è il problema e un consolidamento, "amichevole" per la crescita, consiste nel backstop al default sovrano (stile ESM o, ancor, meglio l'ERF), che si unisca ad una condizionalità tale da portare alla riforma strutturale del mercato del lavoro, garantendo la flessibilità verso il basso dei salari e il taglio della spesa pubblica e dei "buchi" nel prelievo fiscale (ergo, da inasprire per presunzione assoluta).
Anche la logica del "rinvio" circa il pareggio di bilancio era perfettamente scontata, in base a precedenti prese di posizione, come strumento pragmatico di miglior realizzazione dello scenario di consolidamento fiscale (Padoan ha detto, prosegue Reuters - ed eravamo nel 2013 -, che l'OCSE, da molto tempo un tifoso delle politiche economiche che hanno dettato la risposta di forte austerità dell'UE alla crisi del debito (!), sta chiedendo a Bruxelles di consentire all'eurozona un periodo di rinvio agli obiettivi di deficit per tenere conto della prolungata crisi ...
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La tenaglia di mercato e finanza
Riccardo Petrella
L’altra Europa. La Bce come sovrano assoluto e l’euro come suo braccio armato sono il completamento di un sistema strutturato per affondare diritti e uguaglianza
Non è ragionevole confondere lo strumento (la moneta “comune” europea, l’euro) con le cause strutturali del fallimento delle politiche di “crescita”, di convergenza economica e d’integrazione politica dell’Europa. Essendo un simbolo forte della Mala Europa, l’euro è diventato un bersaglio troppo facile e immediato su cui scaricare la giusta rabbia dei cittadini europei per una Unione europea i cui gruppi dominanti hanno sbagliato tutto. Ma ciò non è sufficiente per costruire un’Altra Europa: bisogna andare al cuore dei problemi ed attaccare il sistema edificato ed imposto nel corso degli ultimi trent’anni, di cui l’euro è uno degli ingranaggi più recenti.
Il punto critico è distruggere la tenaglia mercato/finanza che ha stretto in una morsa mortale le società europee soffocando lo Stato dei diritti e la giustizia sociale, devastando la ricchezza collettiva (i beni comuni), demolendo le già deboli forme di democrazia rappresentativa e partecipata. Distruggere la tenaglia significa ridare ai cittadini europei la capacità di costruire un futuro hic et nunc.
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Il bluff della ripresa e il triste primato dei mercati
di Alfonso Gianni
Può anche darsi che si tratti di una coincidenza, ma sono in molti a dubitarne, a partire dagli stessi editorialisti del Sole 24 Ore. Sta di fatto che molti indicatori economici sembrano improvvisamente indicare, a un mese esatto dalle elezioni europee, prospettive più rosee. L’ipotesi più semplice, in fondo neppure troppo maliziosa, è che si voglia spargere ottimismo sulle possibilità che la crisi si stia esaurendo, proprio per contenere gli effetti di un diffuso euroscetticismo.
Ecco dunque affastellarsi una serie di dati che volgono al meglio. L’economia tedesca pare di nuovo riprendere energia, con conseguente vantaggio per i paesi che ormai fanno parte del suo specifico bacino economico e del suo sistema produttivo allargato, dalla Polonia, ai Paesi bassi, fino all’Austria. La Spagna ha sorpreso molti commentatori con una crescita nel primo trimestre del 2014 superiore a quella dei sei anni antecedenti. Persino la martoriata Grecia ha avuto successo nella collocazione di titoli di Stato. Anzi la domanda è stata sette volte superiore all’offerta. Anche il Portogallo è tornato con buoni risultati a finanziarsi sul mercato internazionale.
In Italia si suonano le trombe perché Fitch, dopo Moody’s, ha confermato il rating BBB+, ma con un outlook stabile. Si aspetta ora cosa dirà la terza sorella, Standard&Poor’s, ma il suo responso sul rating del nostro paese avverrà solo dopo la prova elettorale, il 6 giugno. Niente di che, ma c’è chi tira un respiro di sollievo, specialmente il nostro nuovo Presidente del Consiglio.
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Renzi e Valls: bilancio in ordine
Marco Assennato
Qui l’unico che proviamo a sezionare accomuna lo stivale e l’esagono, e cerca regolarità istituzionali tra le sorti probabili del governo di Matteo Renzi e le avventure e tribolazioni del prode Manuel Valls. Si potrebbe iniziare dal profilo: politico per entrambi, decisamente piantato nelle malferme tradizioni nazionali, francese e italiana. Entrambi sostanzialmente subordinati al Presidente delle rispettive Repubbliche, seppure è vero: in un caso la faccenda è perfettamente legittima, essendo appunto la Francia una Repubblica Presidenziale, nell’altro caso invece si tratta dell’ennesimo tournant italiano, che ha richiesto una repentina, fulminea e non discussa, interpretazione presidenzialistica dell’istituto del Capo dello Stato, in una Repubblica che la sua vecchia Carta Costituzionale vorrebbe ancora parlamentare.
Ma sarebbe stupido attardarsi in lacrimoni tristi per il declino di quella Carta, stiracchiata di qua e di là da almeno un ventennio, e comunque sostanzialmente in ritardo sulla dinamica politica almeno dagli anni settanta del secolo scorso.
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