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manifesto

La tenaglia di mercato e finanza

Riccardo Petrella

L’altra Europa. La Bce come sovrano assoluto e l’euro come suo braccio armato sono il completamento di un sistema strutturato per affondare diritti e uguaglianza

maxresdefault 5Non è ragio­ne­vole con­fon­dere lo stru­mento (la moneta “comune” euro­pea, l’euro) con le cause strut­tu­rali del fal­li­mento delle poli­ti­che di “cre­scita”, di con­ver­genza eco­no­mica e d’integrazione poli­tica dell’Europa. Essendo un sim­bolo forte della Mala Europa, l’euro è diven­tato un ber­sa­glio troppo facile e imme­diato su cui sca­ri­care la giu­sta rab­bia dei cit­ta­dini euro­pei per una Unione euro­pea i cui gruppi domi­nanti hanno sba­gliato tutto. Ma ciò non è suf­fi­ciente per costruire un’Altra Europa: biso­gna andare al cuore dei pro­blemi ed attac­care il sistema edi­fi­cato ed impo­sto nel corso degli ultimi trent’anni, di cui l’euro è uno degli ingra­naggi più recenti.

Il punto cri­tico è distrug­gere la tena­glia mercato/finanza che ha stretto in una morsa mor­tale le società euro­pee sof­fo­cando lo Stato dei diritti e la giu­sti­zia sociale, deva­stando la ric­chezza col­let­tiva (i beni comuni), demo­lendo le già deboli forme di demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva e par­te­ci­pata. Distrug­gere la tena­glia signi­fica ridare ai cit­ta­dini euro­pei la capa­cità di costruire un futuro hic et nunc.

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micromega

Il bluff della ripresa e il triste primato dei mercati

di Alfonso Gianni

fiera sa01Può anche darsi che si tratti di una coincidenza, ma sono in molti a dubitarne, a partire dagli stessi editorialisti del Sole 24 Ore. Sta di fatto che molti indicatori economici sembrano improvvisamente indicare, a un mese esatto dalle elezioni europee, prospettive più rosee. L’ipotesi più semplice, in fondo neppure troppo maliziosa, è che si voglia spargere ottimismo sulle possibilità che la crisi si stia esaurendo, proprio per contenere gli effetti di un diffuso euroscetticismo.

Ecco dunque affastellarsi una serie di dati che volgono al meglio. L’economia tedesca pare di nuovo riprendere energia, con conseguente vantaggio per i paesi che ormai fanno parte del suo specifico bacino economico e del suo sistema produttivo allargato, dalla Polonia, ai Paesi bassi, fino all’Austria. La Spagna ha sorpreso molti commentatori con una crescita nel primo trimestre del 2014 superiore a quella dei sei anni antecedenti. Persino la martoriata Grecia ha avuto successo nella collocazione di titoli di Stato. Anzi la domanda è stata sette volte superiore all’offerta. Anche il Portogallo è tornato con buoni risultati a finanziarsi sul mercato internazionale.

In Italia si suonano le trombe perché Fitch, dopo Moody’s, ha confermato il rating BBB+, ma con un outlook stabile. Si aspetta ora cosa dirà la terza sorella, Standard&Poor’s, ma il suo responso sul rating del nostro paese avverrà solo dopo la prova elettorale, il 6 giugno. Niente di che, ma c’è chi tira un respiro di sollievo, specialmente il nostro nuovo Presidente del Consiglio.

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Renzi e Valls: bilancio in ordine

Marco Assennato

Qui l’unico che proviamo a sezionare accomuna lo stivale e l’esagono, e cerca regolarità istituzionali tra le sorti probabili del governo di Matteo Renzi e le avventure e tribolazioni del prode Manuel Valls. Si potrebbe iniziare dal profilo: politico per entrambi, decisamente piantato nelle malferme tradizioni nazionali, francese e italiana. Entrambi sostanzialmente subordinati al Presidente delle rispettive Repubbliche, seppure è vero: in un caso la faccenda è perfettamente legittima, essendo appunto la Francia una Repubblica Presidenziale, nell’altro caso invece si tratta dell’ennesimo tournant italiano, che ha richiesto una repentina, fulminea e non discussa, interpretazione presidenzialistica dell’istituto del Capo dello Stato, in una Repubblica che la sua vecchia Carta Costituzionale vorrebbe ancora parlamentare.

Ma sarebbe stupido attardarsi in lacrimoni tristi per il declino di quella Carta, stiracchiata di qua e di là da almeno un ventennio, e comunque sostanzialmente in ritardo sulla dinamica politica almeno dagli anni settanta del secolo scorso.

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fatto quotidiano

Euro, quelli che il “declino parte da lontano”

di Alberto Bagnai

Poveri euristi!

Glielo ha detto in faccia perfino Frits Bolkestein, uno degli artefici del Mercato Unico: “L’Unione monetaria è un esperimento fallito”. È successo a Roma, il 12 aprile, al convegno di a/simmetrie, dove 500 persone e un consistente drappello di imprenditori, sindacalisti e politici (Alemanno, Boghetta, Crosetto, Fassina, Messina, Salvini) hanno preso atto di questo certificato di morte e delle sue motivazioni: nel Nord Europa non esiste alcuna volontà di dar seguito a un progetto federale, al famoso “più Europa”, all’unione politica, per il semplice motivo che i contribuenti del Nord, istruiti da anni a ritenere che la crisi sia colpa del Sud, non hanno alcuna voglia di metter mano al portafoglio per contribuire a sanare gli squilibri europei in modo solidale. Certo, il vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, ha detto che in realtà la colpa di questo disastro è dell’atteggiamento irresponsabile delle banche del Nord. Ma questo, ovviamente, è un altro paio di maniche: l’elettore va dove propaganda vuole, e al Nord sono degli esperti nel settore…

Poveri euristi, ottusi seguaci di un progetto fallimentare e mortifero!

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non con i miei soldi

Alcune riflessioni sull’euro

di Andrea Baranes

L’Euro è sbagliato quindi fuori dall’Euro?

L’Euro è sbagliato. Tiene legate insieme economie diversissime per forza economica, tassi di inflazione, competitività e produttività, senza che nell’UE esistano meccanismi di riequilibrio o compensazione efficaci. In breve, l’Italia si ritrova una valuta troppo forte, la Germania troppo debole rispetto a quelli che sarebbero i fondamentali delle rispettive economie. La Germania può esportare grazie a una moneta sottovalutata, l’Italia e gli altri Paesi della periferia europea vedono al contrario i propri conti con l’estero peggiorare sempre di più.

Non potendo aggiustare i cambi, tali squilibri si risolvono sui costi di produzione, e tra questi, principalmente sul costo del lavoro. Semplificando, se non puoi svalutare la moneta devi “svalutare” stipendi e diritti di lavoratrici e lavoratori per tornare competitivo. Negli slogan del governo, la soluzione passa dalla diminuzione del cuneo fiscale, ovvero diminuire il costo del lavoro agendo sulla leva fiscale. In realtà, essendo tale intervento del tutto insufficiente, l’unica strada è un calo degli stipendi e un aumento della precarietà.

Ecco spiegata austerità, perdita di diritti, aumento della disoccupazione. Con l’austerità diminuisce la spesa pubblica ma soprattutto si ha un aumento della disoccupazione, il che porta lavoratrici e lavoratori ad accettare condizioni di lavoro peggiori, permettendo all’Italia di recuperare almeno in parte il gap di competitività con il centro dell’UE e la Germania in particolare.

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Fiscal compact: come stanno veramente le cose?

Leonardo Mazzei

Sono o no una realtà i 50 miliardi annui di sacrifici per i prossimi vent'anni?

Ci vediamo costretti a tornare sul tema del Fiscal compact. Del resto, repetita iuvant. Il fatto è che c'è chi sta lavorando a far credere che il Fiscal compact non sia un problema, come se gli eurocrati di Bruxelles l'avessero messo lì per scherzo, un modo per intimidire ma senza fare sul serio. Purtroppo non è così, checché ne dicano governanti disonesti e giornalisti superficiali.

La cosa è troppo importante per lasciare spazio alle rassicuranti leggende del mainstream, spesso rilanciate a casaccio nel mare magnum del web, magari anche solo per assoluta ignoranza della materia. E' troppo importante perché qui sono in gioco il futuro dell'economia nazionale, le prospettive occupazionali, l'accentuazione del massacro sociale in corso.

Per fortuna non siamo i soli ad aver notato la diffusione in rete di alcune interpretazioni rassicuranti sull'applicazione del Fiscal compact. Ecco, ad esempio, come ha reagito su Facebook Marco Passarella, anch'egli evidentemente irritato da certi faciloni:

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Il Def e la teoria della “precarietà espansiva”

di Paolo Pini

La ricetta del Def è un connubio perverso di “austerità espansiva” e “precarietà espansiva”. Una miscela che gioca a favore dei populismi europei e contro l’Europa stessa

Vi sono molti interrogativi e contraddizioni che emergono dal Def 2014 presentato dal Governo Renzi la scorsa settimana (http://www.tesoro.it/doc-finanza-pubblica/def/). Tra le tante criticità (http://ilmanifesto.it/la-finanziaria-della-continuita-per-il-def-una-sonora-bocciatura/), ci occupiamo qui di un aspetto che riguarda la fotografia del paese che il Def 2014 ci consegna, e le fonti della non-crescita che mette in campo (1).


La fotografia di un paese che fatica a crescere

Il documento programmatico da un lato fotografa un paese che faticherà assai a crescere negli anni a venire, che al 2018 non avrà recuperato la perdita di 9 punti percentuali di reddito accumulati dall’inizio della crisi, il 2008, e quindi si allontanerà ancor di più dall’Europa continentale che crescerà ben sopra l’1,5%, cioè la crescita media prevista per l’Eurozona. Il Def 2014 prevede una crescita dello 0,8% nel 2014, quando solo a dicembre 2013 era stata fissata dal governo Letta all’1,1%, ma già allora le istituzioni internazionali prevedevano tale scenario dello 0,8%, ed oggi lo hanno abbassato allo 0,6%. Il Def 2014 quindi rivede al ribasso le stime di quattro mesi orsono, ma non quanto altri organismi internazionali fanno, ultimo la settimana scorsa il Fondo Monetario Internazionale. Il Def 2014 rivede al ribasso anche le stime per il 2015 e 2016 (1,3% e 1,6% contro il 2% del governo Letta), mentre si spinge ottimisticamente all’1,8% e 1,9% per il 2017 e 2018.

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Euro-exit concordata o "disordinata", da sinistra o da destra

Una via di composizione ragionata

di Quarantotto

 1. In margine all' "evento" oggettivamente costituito dal convegno di a/simmetrie di ieri, alcune osservazioni legate allo specifico tema, "Un'europa senza euro", che era poi il baricentro su cui si aggiravano l'insieme degli interventi.

La maggior focalizzazione del tema, non a caso, è venuta dal dibattito finale tra gli esponenti politici intervenuti.

Il clima inevitabilmente pre-elettorale ha agevolato prese di posizione (almeno un pò) più stringenti; se non altro perchè in questa fase, nulla si può ancora escludere sull'esito delle elezioni, in termini di composizione delle forze politiche che risulterà dal voto e che potrebbe o meno essere destabilizzante dell'attuale governance deflattivo-finanziaria. 

La stessa evoluzione europea del sentiment sulla moneta unica, rischia infatti di far apparire "cauta", se non superabile dagli eventi, la posizione del, diciamo così, fronte italiano del dissenso.

2. Provo a partire da una cosa affermata in quel dibattito da Fassina e che, come ho già detto su twitter, contiene in sè una obiettiva verità: se si guarda all'effettivo contenuto dei trattati, e quindi al disegno consolidato che perseguono, incentrato com'è, fin dallo SME, sul coronamento di un modello socio-economico legato al vincolo monetario "one size fits for all" (con tutte le sue implicazioni), immaginare un'euroexit concordata esigerebbe una convergenza, un'apertura alla revisione dei rapporti di forza, almeno pari a quella della stessa revisione dei trattati.

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marx xxi

Perchè e come l'euro va eliminato

di Domenico Moro

Sono sicuro che l’euro ci obbligherà ad introdurre una serie di strumenti di politica economica. È politicamente impossibile proporli ora. Ma un giorno ci sarà una crisi e nuovi Strumenti saranno creati.”
Romano Prodi, Financial Times, ottobre 2001

“So bene che il Patto di stabilità è molto stupido, come tutte le decisioni che sono rigide.”

Romano Prodi, Le Monde, dicembre 2002

1. Una crisi di straordinaria gravità perché strutturale

Non ha senso parlare di ripresa economica, di lotta alla disoccupazione, di difesa del welfare e della democrazia in Italia o in Europa senza fare i conti con l’euro e senza assumere una posizione chiara in merito. Né è possibile procrastinare un tale chiarimento perché i dati ci dicono che quella in corso è la crisi economica più grave dal ’29, se non dall’unificazione d’Italia.

Nel 2013 il Pil italiano è risultato inferiore del 7 per cento rispetto al 2007, ultimo anno pre-crisi1 . L’indice della produzione industriale, fatto 100 nel 2007, è risultato ancora a quota 75 nel 2013. Eppure, a sei anni dall’inizio delle crisi precedenti, negli anni ’70 e ’90, l’indice era risalito rispettivamente a 105 e a 120 punti rispetto all’indice 100 del rispettivo anno pre-crisi2. Secondo l’ufficio studi di Confindustria, il nostro Paese ha già distrutto un quinto della sua capacità manifatturiera3. Intanto, tra 2001 e 2011 gli addetti alla manifattura sono diminuiti di quasi un milione di unità, pari al -20 per cento4. La perdita di capacità manifatturiera è grave per un Paese come l’Italia che ha un’economia di trasformazione.

Solo esportando manufatti il nostro Paese può acquistare le materie prime (energetiche e non) di cui abbisogna e di cui è totalmente priva. La formazione di un attivo commerciale con l’estero negli ultimi due anni non deve ingannare. Nel 2013, in particolare, l’attivo è il risultato del crollo delle importazioni (-5 per cento), causato dal crollo del mercato interno, invece che la conseguenza di un inesistente aumento delle esportazioni (+0 per cento)5. In ogni caso, anche se ci fosse un limitato aumento delle esportazioni questo non sarebbe in grado di compensare il crollo della dei consumi interni (-2,2 per cento) 6.

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Euro, diamo la parola ai cittadini

di Enrico Grazzini

Sì, lo confesso, sono un euroscettico, anzi di più, sono euro-contro, ma sono anche antifascista e di sinistra. Sì lo confesso: voto lista Tsipras ma sono anche per recuperare la sovranità nazionale per contrastare questa Europa anti-democratica e oppressiva.

Lo stato nazionale non è un ferrovecchio da buttare come suggerisce l'ideologia liberista della globalizzazione. Infatti solo nelle loro nazioni (e certamente non nell'Unione Europea) i popoli riescono a esercitare la democrazia. La democrazia nazionale è nata con decenni di lotte popolari e ha realizzato lo stato sociale. Non buttiamola via, come vorrebbe la destra liberista europea e italiana; difendiamola. Recuperare la sovranità nazionale non significa rincorrere lo sciovinismo nazionalista e xenofobo di Marine Le Pen, o sognare di riscattare improbabili glorie del passato: al contrario, indire dei referendum nazionali su euro e fiscal compact significa decidere per un futuro migliore.

Confesso: sono contro questa Europa che agisce in nome e per conto di una finanza malata e delle banche sovranazionali “troppo grandi per fallire” (ma che sono in grado di fare fallire gli stati più deboli).

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Europa, chi?

di Piero Pagliani

1. L’Europa al passaggio di fase della crisi sistemica

Il dibattito riguardo l’Euro e l'Europa non può essere avulso dalle ipotesi di evoluzione della coppia finanziarizzazione-globalizzazione e quindi dallo stato delle condizioni sistemiche mondiali. In secondo luogo non può essere scisso dall’analisi delle attuali caratteristiche economiche, lavorative, culturali e politiche delle classi (caratteristiche quindi sia “strutturali” sia “sovrastrutturali”, per usare una comoda ma a volte fuorviante classificazione). Solo in questo modo si possono analizzare le opzioni sull’Europa in base ai tre criteri minimi con cui dovrebbero essere valutate: la loro ricaduta sull’interesse nazionale, quella sull’interesse di classe e la loro praticabilità politica.

Nel mio libro on-line “ Al cuore della Terra e ritorno ” ho avanzato l’ipotesi che la prossima stagione della crisi sistemica sarà caratterizzata da un processo di definanziarizzazione e deglobalizzazione, o più precisamente di revisione del circolo finanziarizzazione-globalizzazione come si è imposto dal Volcker shock del 1979 in poi. Come ogni ipotesi deve essere continuamente rivista alla luce delle crescenti convulsioni della crisi.

Molto schematicamente, essa deriva dalla teoria del valore di Marx.

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Cos’è il Quantitative Easing e che effetti può avere

Giancarlo Bergamini*, Sergio Cesaratto**

La settimana scorsa, alcune dichiarazioni possibiliste di Jens Weidmann, governatore della Bundesbank e membro del consiglio direttivo della Banca Centrale Europea (BCE) con fama di falco, hanno alimentato fra gli operatori dei mercati finanziari l’aspettativa di imminenti misure di stimolo volte a scongiurare i rischi di cali generalizzati dei prezzi e dei redditi (la temuta deflazione). E anche il governatore Draghi manifesta la sua disponibilità a intervenire con misure non convenzionali. Ci si attende quindi che la BCE ponga in essere operazioni note come Quantitative Easing (QE per brevità) consistenti nell’acquisto massiccio di titoli con denaro di nuova emissione.

La BCE sarebbe solo l’ultimo istituto d’emissione a praticare il QE, dopo che da anni ne fanno uso, con diverse modalità, le banche centrali di Usa, GB, Giappone e Svizzera. Tali acquisti, realizzati  iniettando nel sistema moneta addizionale, vengono variamente giustificati a seconda dei rispettivi mandati. La Federal Reserve americana può esplicitamente dichiarare che l’aumento di domanda ottenuto in virtù del QE consentirà di abbassare la disoccupazione; la Bank of England si è limitata ad indicare che l’aumento di circolante serve ad evitare che l’inflazione scenda troppo al di sotto del 2% annuo; la BCE lo presenterà probabilmente come strumento di “trasmissione della politica monetaria”, cioè volto a determinare tassi di interesse e provvista di credito sufficientemente uniformi in tutta l’Eurozona e per i diversi operatori economici, ma anche come strumento per evitare che il tasso di inflazione si allontani troppo dall’obiettivo del 2%.

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Jobs Act, Credit crunch, MMT, Exit Strategy

Intervista a Guglielmo Forges Davanzati

Il prof. Guglielmo Forges Davanzati, docente presso l’Università del Salento affronta temi eterogenei ed estremamente attuali: dal jobs act di Renzi, al problema del credit crunch bancario, alla controversa visione della produttività, al nesso tra Circuitismo e Modern Money Theory fino alla delicata questione della moneta unica e di una possibile “exit strategy”.


In un suo recente articolo ha affermato che il Jobs Act di Renzi sia “una proposta sostanzialmente vuota” e che riproporrebbe, in modalità diverse, ulteriori politiche di precarizzazione del lavoro. Alla luce di questa affermazione, secondo lei, quali sarebbero le misure che il Governo dovrebbe invece adottare per rilanciare l’occupazione e ridurre la disoccupazione che ha raggiunto la drammatica soglia del 12,9% e del 42,4% per i giovani?

Il Jobs Act recepisce una proposta di Boeri e Garibaldi, che fa riferimento all’istituzione di un contratto unico di inserimento a tutele crescenti. Avendo realizzato che alle imprese non serve poter disporre di una selva di tipologie contrattuali (come previsto nella c.d. legge Biagi), si propone un intervento di semplificazione, finalizzato ad abolire alcune tipologie contrattuali tuttora vigenti, e non utilizzate, e istituire un contratto unico con un iniziale periodo di prova e con successiva assunzione a tempo indeterminato. Ma il contratto unico a tutele crescenti non sostituisce i contratti a tempo determinato. In questo senso, la proposta è vuota, ovvero non modifica, nella sostanza, nulla.

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one euro

Quantitative Easing: la soluzione ai problemi dell'Eurozona?

di Thomas Fazi

Sta facendo scalpore un’intervista rilasciata pochi giorni fa da Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e leader dei “falchi” all’interno del consiglio della Bce, in cui per la prima volta ha aperto alla possibilità che la Bce ricorra ad operazioni di quantitative easing, ossia all’acquisto di titoli di stato da parte della banca centrale. Weidmann ha detto:

Le misure non convenzionali considerate sono in gran parte un territorio poco noto. Quindi dobbiamo discutere sulla loro efficacia, sui loro costi e i loro effetti collaterali. Questo non significa tuttavia che le azioni di quantitative easing siano assolutamente da escludere.

In effetti la dichiarazione di Weidmann rappresenta un’inversione di tendenza non da poco, in quanto buona parte dell’establishment (politico, monetario e giudiziario) tedesco aveva finora categoricamente escluso l’ipotesi “americana” di un intervento attivo della banca centrale sui mercati sovrani dell’eurozona. Basti pensare alla recente messa in discussione da parte della Corte costituzionale tedesca del programma Omt di Draghi (finora mai utilizzato) per poter acquistare in emergenza titoli pubblici già sul mercato. È probabile che il “falco” della Bundesbank sia stato spinto ad ammorbidire i toni dai dati sempre più drammatici sul tasso d’inflazione nell’eurozona, ormai in caduta libera. Come ha riferito lunedì la Bce, a marzo l’area euro ha registrato il tasso medio più basso da più di cinque anni a questa parte – 0.5% (ben lontano dall’obiettivo della banca centrale del “poco meno del 2%”) –, mentre molti paesi della periferia registrano ormai un tasso vicino allo zero o addirittura negativo (Spagna, Grecia).

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francesco amodeo

Denunciamo il Governo tedesco e chiediamo l’annullamento del Fiscal Compact

Ecco come fare per salvare il paese

Francesco Amodeo

In questi mesi si parla tanto del fiscal compact e dei famosi parametri che stanno mettendo o che metteranno in ginocchio il nostro paese condannandolo all’austerity ed a uno stato di crisi permanente. Mi riferisco al vincolo del 3% su rapporto defici/pil, al pareggio di bilancio introdotto in costituzione e alla necessità per i paesi con un rapporto debito/pil superiore al 60% di ridurre entro un ventennio l’eccedenza. Nel caso dell’Italia con un debito pubblico al 130% è stato già calcolato che questo vincolo potrà essere raggiunto nei tempi imposti solo con una media di 40 miliardi di euro di tagli o tasse ogni anno per vent’anni.

Ma c’è un patto strettamente collegato al fiscal compact in quanto mirato proprio a contenere lo stock di debito e di spesa pubblica  per rientrare in quei parametri, che è una vera ghigliottina per i comuni ed è la causa principale della crisi delle aziende che lavorano con la pubblica amministrazione, della perdita di servizi erogati alla cittadinanza e del degrado di comuni, strade, scuole, nonché la causa di migliaia di licenziamenti, mancati pagamenti e chiusura di attività . Si chiama il patto di stabilità interno.

Sul sito della Camera leggiamo che: “ le regole del patto di stabilità interno sono funzionali al conseguimento degli obiettivi finanziari fissati per le regioni e gli enti locali quale concorso al raggiungimento dei più generali obiettivi di finanza pubblica assunti dal nostro paese in sede europea con l’adesione al patto europeo di stabilità e crescita (poi divenuto fiscal compact)”