Fazi e Mitchell, “Sovranità o barbarie”
di Alessandro Visalli
Un libro importante e coraggioso, che affronta alcuni dei nodi fondamentali oggi davanti ai nostri occhi e che bloccano la nostra azione, costruito con un profondo sguardo storico e capace di ripercorrere in poche e dense pagine gli snodi che hanno costituito il presente. Il presente come storia, dunque.
A me pare che una delle chiavi interpretative del testo sia da rintracciare nella dialettica delle durate, proposta da Braudel nel 1949[1], tra increspature superficiali, movimenti lenti dati dalle trasformazioni dei rapporti di produzione e mutamenti del sentire collettivo ed evoluzioni tecnologiche[2], e, al fondo, trasformazioni del sistema naturale, lentissime ma potenti. Quel che compiono gli autori, per gran parte del testo, è quel che Cervantes[3] chiama scrivere di storia, “madre della verità”. Storia, cioè, come verità narrata; non ciò che avvenne, ma ciò che giudichiamo essere avvenuto[4]. Una narrazione nella quale compare il problema del nesso tra la volontà dei singoli, nella loro interazione reciproca, e i fattori determinanti inerenti le ‘durate’ più lente, le strutture nella loro dialettica. Quanto valgono i piani dei capi nello svolgimento di una battaglia? Quanto conta che Kutuzov si addormenti mentre altri fanno complessi piani in “Guerra e pace”[5]?
Ancora più, la storia narrata da Fazi e Mitchell è storia militante; serve, la loro narrazione, a scopi evidenti nel testo. Ma il pathos narrativo che appare evidente in ogni pagina (con la loro partecipazione emotiva e la tensione morale) è esso stesso strettamente parte della storia narrata. Perché, come sostengono gli autori, questa storia, la sua verità, ci riguarda e ci contiene.
Si sta parlando dunque del nostro presente, incorporato nell’imperialismo dell’economico e nella onnipresenza di una dinamica di contrazione (e di espansione per pochi privilegiati) che origina nella ‘crisi’ degli anni settanta. O meglio, come scrivono, “almeno” degli anni settanta.
Cosa finisce, insieme al regime di Bretton Woods e al “trentennio keynesiano”[6]? E soprattutto perché?
Un passo indietro, le stesse ‘conquiste’ keynesiane, sono frutto della rivoluzione intellettuale[7] di alcuni generosi e illuminati intellettuali, come lo stesso John Maynard Keynes, o Michal Kaleki, negli anni venti e trenta, e quindi dal rovesciamento intellettuale del paradigma neoclassico dei mercati autoregolati, o dall’insieme di fenomeni interconnessi che chiamiamo “Grande Depressione”[8] degli anni trenta?
L’insieme di politiche che Franklin D. Roosevelt promosse durante gli anni trenta in America, sostengono gli autori sulla scorta di una lettura di Riccardo Bellofiore[9] promuovono la domanda e ridefiniscono la produzione, e poi sono completate dall’enorme crescita della spesa pubblica in armi e uomini della guerra. Ma la svolta si ottiene, secondo la ‘teoria della regolazione’[10] sposata dai nostri, per effetto dell’alternanza di cicli di crescita contraddistinti da un paradigma industriale ed un ‘regime di accumulazione’ (ovvero un modello di produzione e consumo che consente l’accumulazione di capitale e dunque la stabilità[11]) a questi modelli corrisponde infine un “modo di regolazione”, leggi, istituzioni, regole…
Il regime fordista – keynesiano era dunque un simile ‘regime di accumulazione’, che ad un certo punto è venuto meno, ed era caratterizzato da un forte intervento dello Stato a sostegno dei processi di accumulazione. Il punto è questo: il sistema era costruito a vantaggio dell’accumulazione e non malgrado questa e scaturiva da una esperienza storica nella quale non era stata più possibile ed aveva provocato la Grande Depressione. Il keynesismo è, insomma: “il risultato della convergenza fortuita, nel secondo dopoguerra, delle ‘giuste’ condizioni sociali, politiche, economiche, tecniche e istituzionali” (p.27).
Esso, non fu, insomma, accettato a malincuore o imposto dalle lotte operaie (come immagina una influente corrente italiana), ma era indispensabile al modo di regolazione che garantiva la profittabilità degli investimenti e quindi il consenso anche dei ceti possidenti. Questo modello, con il vasto consenso sostanziale che lo contraddistinse (cosa che non impedisce ci fossero tensioni e lotte entro di esso tra chi voleva andare oltre e chi, invece, limitarlo), non era, in altre parole, affatto un’applicazione delle teorie keynesiane, ma in certo senso un tradimento. Come ricorda la Robinson, ma anche Minsky[12], fu opportunamente dimenticata la necessità di un certo grado di controllo degli investimenti e quindi della produzione. Le lotte operaie che andarono in quella direzione furono sempre aspramente osteggiate, anche dall’interno del movimento[13]. Invece tutte le nozioni più radicali della teoria keynesiana andarono perse nella formalizzazione matematica e nella successiva recezione da parte dell’accademia della cosiddetta “sintesi neoclassica”[14].
Ma negli anni settanta un diverso paradigma, pazientemente messo in piedi in alcune università fortemente sostenute da flussi di capitale privato e connesse con potentissimi think thank, emerge quasi improvvisamente. Si tratta del “monetarismo”, promosso da una pattuglia di docenti dell’Università di Chicago il cui più famoso esponente è Milton Friedman[15], concentrati sul valore della ‘libertà’ e la ripresa della vecchia tesi che i mercati tendono comunque ad autostabilizzarsi ed impiegare al meglio tutte le risorse di cui dispongono. Tra i punti fondamentali la teoria che ancora oggi determina la logica dell’austerità imposta all’Italia, troviamo il “tasso naturale di disoccupazione”, unico tasso (alto) di disoccupazione al quale corrisponde la stabilità dei prezzi, superato il quale, cioè, dovrebbe partire l’inflazione. Come dalla lunga tradizione liberista l’inflazione è, per i monetaristi, il nemico principale da combattere, anche al costo di avere milioni di disoccupati (viceversa il nemico principale per Keynes era la disoccupazione).
Ci fu in effetti una grande offensiva ideologica, ma non per questo il keynesismo “bastardo” del trentennio fu rovesciato, come disse anche Milton Friedman nella prefazione a “Capitalismo e libertà”[16], le idee dovevano aspettare le giuste condizioni[17]. Quando le condizioni generali che avevano indotto il precedente modo di regolazione vennero meno la tensione si scaricò in una rottura sistemica. I fattori sono molteplici, ma gli autori ricordano la crescente concorrenza intercapitalista (ovvero la perdita dell’egemonia economica americana), l’aumento del prezzo delle materie prime come conseguenza dell’accresciuta domanda, e della decolonizzazione in corso da decenni, un improvviso rallentamento della crescita della produttività, il clima politico con richieste crescenti dei lavoratori e delle loro organizzazioni. Friedman ricorderà, invece, come visto, fattori economici e culturali come: l’appannamento nei confronti delle élite intellettuali e delle classi medie del fascino di Russia e Cina, la crisi dell’economia inglese, l’effetto demotivante della guerra del Vietnam, il senso di fallimento e di oppressione burocratica che si collegava con molti programmi del New Deal, divenuti dopo la ‘grande società’ di Johnson enormi e costosissimi, e quindi la tassazione oltre che l’inflazione derivante dalla bassa disoccupazione.
I limiti posti sotto attacco dai monetaristi sono visti, insomma, in parte come ‘oggettivi’, in quanto la crescita stabile dei salari non si coniugava più bene con la crescita dei profitti.
Nel vecchio mondo uno dei punti nei quali la tensione economica si scaricava era il sistema di Bretton Woods, e precisamente l’accordo di convertibilità delle monete, il cui tasso di cambio era fissato politicamente, in oro. Dato che i paesi in disavanzo commerciale subivano una pressione al ribasso delle monete erano costrette a sostenerle vendendo le riserve, oppure aumentare i tassi di interesse per attrarre capitali (ma in questo modo riducendo i prestiti, divenuti più costosi, deprimere l’economia ed aumentare la disoccupazione). In altre parole, quando andavano in disavanzo (le importazioni superavano le esportazioni) i paesi dovevano fare austerità.
C’era un’eccezione: gli Stati Uniti che quando andavano in deficit potevano semplicemente pagare le importazioni stampando altra moneta, in teoria avendo una scorta frazionaria di oro. Di fatto era però sul deficit di bilancia commerciale americano che il sistema poteva trovare equilibrio, ma l’ulteriore condizione era che questa massa di dollari che defluiva fosse affidabile. E la fiducia si basava sulla convertibilità in oro. Nel 1970 la cosa non era più sostenibile e crollò quando la richiesta di conversione della Francia (che aveva l’appoggio dell’Inghilterra) mostrò quale era il vero potere alla base del dollaro: la potenza americana, non ultimo militare. Nixon, infatti, in modo unilaterale e senza alcuna discussione, né opposizione, denunciò la convertibilità in oro, “sospendendola” (fino ad oggi).
La moneta diventa da ora ‘fiat’.
A questo punto gli Stati Uniti continuano ad essere in deficit commerciale, fornendo liquidità al mondo, ma i paesi che vendono merci al bulimico consumatore americano (ovvero quelli in surplus) per evitare che il dollaro con il quale sono pagati si deprezzi hanno, loro, l’onere di sostenerlo comprando i titoli di Stato Usa. Il legame si è, in altre parole, stretto ancora di più.
In questo contesto gli Stati occidentali si mossero per ridurre la fluttuazione monetaria (in Europa prima lo Sme e poi l’Euro) e nel contesto di stagnazione ed inflazione alta (importata e quasi eguale in tutti i paesi del mondo[18]) si affermò un diverso equilibrio economico intensamente voluto: quello che chiamiamo ‘neoliberismo’.
L’eccesso di produzione fu risolto non più con l’incremento della domanda interna, ma con l’esternalizzazione, la mondializzazione, la deregolamentazione; inoltre con l’ampliamento dei mercati, grazie alle privatizzazioni ed alla finanziarizzazione. Effetti sono la flessibilizzazione del lavoro, la compressione dei salari in occidente, esposti alla concorrenza delle importazioni di merci a basso costo prodotte all’estero dalle stesse imprese multinazionali occidentali (e quindi dalla minaccia della delocalizzazione), l’aumento costante della disoccupazione.
Chiaramente per transitare in questo nuovo mondo, nel quale le classi lavoratrici coltivate nel modello keynesiano erano sconfitte e sacrificate all’altare della redditività del capitale, era indispensabile che il potere guadagnato nel novecento attraverso il diritto di voto e le Costituzioni repubblicane, venisse neutralizzato. La cosa si ottiene promuovendo la cosiddetta “governabilità”, ovvero la depoliticizzazione del processo decisionale. Si passa alle post-democrazie[19] ed alla loro piena istituzionalizzazione da parte dell’Unione Europea.
La sinistra, dunque, sconfitta sul piano ideologico ed organizzativo, si acconcia a gestire le crisi del capitale per conto di quest’ultimo[20]. Aiuta a considerare tale strada inevitabile il rifiuto della proposta alternativa di Minsky ed alcune influenti letture, come la “crisi fiscale dello Stato”, proposta da O’Connor in un fortunatissimo libro[21], che non avendo ben compreso l’evento del ’71 (ma il libro è del 1973), presume che siano sempre le tasse a finanziare la spesa e quindi diagnostica un inseguimento costante e perdente tra queste e quella. Ne segue una ricezione ultrasemplificata nel mondo della sinistra (che per lo più orecchia e non legge davvero il libro) che recepisce il titolo come una “formula ad effetto”[22] e ne conclude che sia all’opera inevitabilmente un inseguimento tra spese richieste da vari gruppi sociali in imitazione reciproca e la reazione dei contribuenti chiamati a sostenere la stessa. Un altro libro chiave è “Sovranità nazionale in crisi” di Raymond Vernon che collega la perdita di autorità fiscale dello Stato alla crescita delle multinazionali, orientate dal progresso tecnologico dei trasporti e delle telecomunicazioni.
Si afferma l’idea che le multinazionali sfuggano al controllo statale (mentre restano connesse con molti e diversi rapporti, ed in alcuni casi ne sono diretta emanazione) e che la mondializzazione sia determinata in ultima analisi da quel vettore del progresso che per l’occidente è sempre stato lo sviluppo tecnologico.
Le cose stanno diversamente, una più attenta ricostruzione storica mostra come siano piuttosto gli Stati, guidati da élite e ceti sociali che portano in primo piano i loro interessi, a intervenire attivamente nell’orientare il sistema mondiale verso l’interconnessione e alcuni generi di dinamiche competitive disciplinanti i lavoratori (e rassicuranti i consumatori). Un esempio è il governo Challagan[23], il primo a dichiarare morto il keynesismo e la fine del “mondo confortevole”. Quindi Mitterrand[24] con la sua repentina svolta negli anni ottanta. Ma ha un ruolo anche la vicenda cilena (1973) e la repentina caduta del governo Brandt[25].
Ma il libro, giustamente, si concentra particolarmente sull’Italia, spendendo alcune delle sue pagine più interessanti, in poco più di centotrenta pagine ripercorre analiticamente, con abbondante riferimento a testi scelti noti e meno noti, la storia economica e politica del paese dalla fine del ‘miracolo economico’ ad oggi. Il periodo 1948-73 si caratterizza per una crescita molto forte in assenza di inflazione trainata dalle esportazioni, dalla spesa pubblica, fino agli anni sessanta con tassi del 6% e poi rallentando. Fu determinante il ruolo dell’intervento pubblico, ed in particolare dell’IRI che realizza una imponente rete infrastrutturale e della grande industria (siderurgia, cantieristica, navigazione marittima, telecomunicazioni, energia elettrica, metalmeccanica). Quindi c’è la costituzione nel 1953 dell’Eni, sotto la guida di Enrico Mattei, ed il settore bancario con la separazione tra la gestione del risparmio e l’investimento che garantisce, per anni, l’orientamento del credito a fini sociali. Naturalmente, come in tutto lo schema di Bretton Woods, erano presenti controlli sui movimenti di capitali ed il finanziamento monetario della spesa pubblica. Tra i problemi che permanevano gli imponenti spostamenti migratori interni ed esterni (in uscita), e lo squilibrio civile ed infrastrutturale tra le diverse aree del paese (non solo al sud, ad esempio permanevano vari ‘sud’ interni anche al nord).
Come ebbe a dire Lelio Basso il sistema sociale ed economico era organizzato intorno al nesso tra la realizzazione del diritto al lavoro (sempre tendenziale e mai raggiunto) e la democrazia costituzionale (sempre imperfetta ed anche qui sede di confronto più che realizzazione). La “libera” iniziativa economica si doveva collegare, in base all’art 41 Cost, ai fini sociali che spettano all’indirizzo della legge. Una Costituzione che Guido Carli giudicò come “punto di intersezione fra la concezione cattolica e la concezione marxista dei rapporti tra società ed economie, tra società e Stato”, e che fu sempre orientato a superare.
Presupposto, come fu riconosciuto sia dallo stesso Basso, come da esponenti comunisti come Togliatti, di tale adempimento era la difesa della sovranità democratica. Il libro ricostruisce le posizioni dei partiti della sinistra italiana nei confronti del processo di unificazione europea, iscritto nella logica atlantica, e soggetto alle “evasioni sul giardino di infanzia delle illusioni federaliste”, come ebbe a dire Pietro Nenni nel 1948[26] o Lelio Basso nel 1949[27], denunciando la natura imperialista del nascente progetto europeo (natura mai venuta meno, se mai accentuata nel tempo) e quindi la necessità di difendere la sovranità e anche gli interessi nazionali. Ma anche, con sguardo lungo, la “decadenza del Parlamento”, perché, come naturale “i grandi Trusts e i grandi monopoli preferiscono risolvere i grossi problemi dell’economia, della finanza e della politica nel chiuso dei consigli di amministrazione e dei gabinetti dei ministri”. Fa parte di questo discorso, che abbiamo già letto[28], un significativo chiarimento sulla distinzione tra ‘cosmopolitismo’ e ‘internazionalismo’[29]. Analogamente, viene ricordata la posizione di Di Vittorio, nel 1952 sul “Piano Schuman” e l’industria italiana.
Questa fase inizia ad essere chiusa nel 1963-4, dall’azione della Banca d’Italia, che, in accordo con la parte conservatrice del governo, attiva non appena si presenta il ciclo di lotte operaie del 1962-3 nel nord ovest in piena occupazione, che nelle condizioni date porta all’aumento dei prezzi dei beni industriali, per non perdere margini di profitto e quindi le prime tensioni di bilancia dei pagamenti, una brutale manovra per arrestare gli investimenti, creare disoccupazione, e quindi riequilibrare per questa via i conti esteri. È il prototipo della stessa logica ancora all’opera.
Come scrive Guido Carli: “una crescita trainata dalla domanda estera costringe a una politica salariale restrittiva e attua una redistribuzione a favore di quei limitati settori industriali sottoposti alla concorrenza internazionale”.
Questo è il quadro nel quale l’Italia aderisce allo Sme non prima di aver attraversato la stagione di lotte operaie più aspra nel cui clima, siamo al 1975, le sinistre ottengono la “scala mobile” (indicizzazione dei salari all’inflazione, neutralizzandola e quindi scaricandola sulla rendita), lo Statuto dei lavoratori (con l’art 18), la riforma pensionistica, norme per la tutela del lavoro femminile, parità di trattamento tra uomini e donne, e soprattutto il servizio sanitario nazionale. Nel biennio 1976 -78 si svolge la scena della controffensiva: il governo vara misure di austerità finalizzate a ridurre il deficit commerciale, come al solito al prezzo dell’aumento della disoccupazione. In questo clima si arriva all’adesione allo Sme.
Gli autori si concentrano, nel raccontare quegli anni cruciali, sul ruolo del Pci, che nel 1975 aveva raggiunto il suo massimo risultato storico, e promosse la strategia del cosiddetto “compromesso storico”, per superare l’esclusione dal governo su una linea di minore conflitto con le forze atlantiste e cattoliche che da quaranta anni ininterrotti governavano il paese. Ci fu un forte dibattito interno di cui è paradigmatico il Convegno del Cespe del 1976. Lo scontro intellettuale si tenne tra il professore neokeynesiano Franco Modigliani e alcuni economisti non liberisti tra i quali Augusto Graziani, Domenico Nuti, Federico Caffè, Claudio Napoleoni, Massimo Pivetti. Per Modigliani la scala mobile era da abolire perché conduceva ad un aumento del salario reale (perché gli imprenditori, a causa della competizione, non riuscivano a scaricare sui prezzi interamente l’aumento) e ciò portava a perdere competitività e peggiorare la bilancia commerciale (dai due lati). Inoltre, secondo una tipica ipotesi neoclassica, la contrazione dei profitti avrebbe portato meno investimenti, e quindi in ultima analisi un danno alla stessa occupazione. Bisognava quindi accettare dei ‘sacrifici’ per l’interesse generale e lo stesso interesse dei lavoratori. La perdita di salario e di diritti, secondo una equazione da allora sempre riproposta, sarebbe stata compensata dalla difesa dell’occupazione e dalla fine dell’inflazione.
La tesi di Friedman, insomma, che proprio Modigliani contribuì a legittimare negli anni settanta.
La controtesi avanzata da molti, tra cui Caffè, e oggi ripresa ad esempio in forma contemporanea da Sergio Cesaratto[30], era che il livello salariale compatibile con la piena occupazione dipende da diversi fattori e non è univoco, come vorrebbe Friedman, ma nel breve periodo avrebbe comunque richiesto controlli sui movimenti di capitale e delle importazioni e una radicale riforma del sistema capitalistico.
La proposta di Modigliani, invece, da allora egemonica e che gli valse il nobel, era di accettare che ogni barriera dovesse cadere e tutti paesi dovessero alla fine equalizzare livelli del costo del lavoro (e dunque tenore di vita diffuso) per effetto della concorrenza.
Effetto inevitabile: i gilet gialli a Parigi.
Ovvero la distruzione della classe media occidentale, per uniformarla ad una ‘classe media mondiale’ naturalmente ad un livello di reddito e stile di vita notevolmente minore (oggi viaggia tra gli 8 e i 10.000 dollari all’anno). Questo è l’obiettivo reale della globalizzazione[31].
Il Pci, senza capire la reale portata della proposta ricevuta, scelse di proporre ai lavoratori “sacrifici senza contropartite”, e così fece il sindacato[32]. Fu in tal modo accettata l’idea di un inevitabile vincolo esterno, che ancora è dominante nell’establishment derivato da quella tradizione, e quindi della progressiva contrazione salariale, richiesta “dallo stato delle cose”. Completano questa visione l’accettazione dell’austerità come prospettiva generale[33] e la denuncia del ‘pericolo dell’inflazione’.
Questa svolta detta “dell’Eur”, è l’avvio del distacco, anche elettorale, del partito comunista dai ceti popolari e l’accettazione da parte sua della linea liberista. Che viene completata successivamente dalla denuncia della cosiddetta “spesa pubblica improduttiva”[34] e la “questione morale”[35].
Naturalmente la sinistra, che ancora nel 1978 per l’ultima volta si oppone ai meccanismi europei[36], completa la sua trasformazione aderendo alla prospettiva europea che gradualmente va a sostituire la prospettiva socialista. Seguirà il “divorzio” tra la Banca d’Italia ed il Tesoro[37], e le sue inevitabili conseguenze, tra le quali l’esplosione del debito pubblico.
Segue un aumento significativo del tasso di disoccupazione, che si porta dalle parti del 10% ed inizia una decisa compressione della quota salari e la crescita dell’ineguaglianza.
I passi successivi sono l’Atto Unico Europeo, firmato nel 1986 da Craxi e i passi successivi verso l’euro, negoziato per l’Italia da una delegazione formata da Guido Carli e Mario Draghi.
Il 1992 ci sarà quindi lo smantellamento della scala mobile da parte del governo Amato e la sospensione dello Sme, dopo l’attacco sui mercati. Seguirà la richiesta sempre più pressante di riforme ‘drastiche’, e la stipula del Trattato di Maastricht in condizioni che sono state molte volte raccontate[38]. Solo poche voci si alzano fuori del coro, tra queste Lucio Magri (p.147) e Giuseppe Guarino. Seguirà la più impressionante serie di riforme economiche di stampo neoliberale d’Europa e l’autentica distruzione dell’industria italiana (come disse De Cecco, p.164).
Queste riforme sono sistematicamente promosse attraverso la retorica messa a punto negli anni settanta: sacrifici, austerità, e vincolo esterno. L’Unione Europea diventa la soluzione ai problemi che non si riesce ad affrontare politicamente nel Parlamento o nel paese.
In effetti, come si sono trovati a dire in molti, aderendo all’euro gli stati membri si sono trovati ad essere ridotti al rango di colonia, attraverso la denazionalizzazione della moneta. Quel che si genera è, insomma, un sistema perfettamente adatto alla sua funzione, compiuto secondo il suo programma e del tutto completo. Un processo di integrazione al giusto livello per garantire gli esiti post-democratici resi necessari dalla grande paura degli anni settanta. Quella che gli autori chiamano “una dittatura di fatto” (p.184).
Non un vero sistema ordoliberale, ma ‘alla carte’, solo fino a che serve gli scopo dei più forti e in quei limiti.
Il resto della storia proposta da Fazi e Mitchell vede la Francia fallire il suo tentativo di controllare il processo europeo e la Germania prendere il sopravvento con la forza della sua economia da esportazione. Hanno rilevanza le riforme Hartz[39], nel comprimere la domanda interna e guadagnare spazi di competitività di prezzo non più neutralizzata dalla normale dinamica della moneta. Ma questa strategia economica, cosiddetta mercantilista, viene da lontano. È ricordata l’impostazione negli anni cinquanta di Ludwig Erhardt (p.210) e il processo brutale di unificazione tedesca.
Queste sono le dinamiche che determinano la cosiddetta “mezzogiornificazione” dell’Italia e l’emergere di una sorta di capitalismo comprador, che continua a perdere competitività per una costante riduzione degli investimenti. Le conseguenze generali del processo di adesione all’unione monetaria, anche considerando che manca il controfattuale, sono disastrose. Il prevalente disegno nordico di porre sotto controllo la concorrenza industriale del sud appare, con il senno di poi, di pieno successo; la crescita media italiana, che fino agli anni ottanta è la più alta d’Europa[40], negli anni novanta si arresta e diventa la più bassa d’Europa. Chi, sulla scorta di una perversione fossile dei vecchi modi di pensiero sedimentati nella sinistra, pensa che il rallentamento deriva da strutture antropologiche e orientamento al familismo amorale proprio della mancanza di una riforma protestante, o di altre consimili determinanti[41], ha l’onere di spiegare perché prima della svolta qui riassunta andava diversamente.
Anche la bassa produttività parte in realtà dalla metà degli anni novanta durante i quali accadono molte cose nel mondo, ma per tutti i paesi europei. Alcuni riescono a reagire meglio (alla crescita della mondializzazione, che, però, è un processo lento e progressivo, ed accelera casomai nei primi anni duemila, dopo l’adesione della Cina, non prima), altri peggio. Per reagire a stimoli esterni negativi (per la struttura del paese), del resto bisogna prima di tutto poter operare, e quel che succede in questi anni è una drastica riduzione delle leve di azione politica: fissaggio del tasso di cambio[42], stretta fiscale eterodiretta[43], liberalizzazione a partire dalla finanza[44], smantellamento e privatizzazione della base industriale strategica[45], deregolamentazione del mercato del lavoro[46]. Il crollo della produttività ha una relazione diretta con la rivalutazione della lira del 1995, fino alla fissazione a valori troppo alti. La bilancia commerciale tornata attiva nel 1993 torna negativa nel 2002, sono questi fattori, insieme alla scarsa crescita del mercato interno, sottomesso ad ondate successive di austerità, a pesare sulla situazione italiana molto più dell’apertura internazionale e della competizione dei paesi del sud-est (prima le tigri asiatiche negli anni novanta e poi la Cina)[47]. Ma conta anche la crescente flessibilità del lavoro, che lungi dal proteggere l’occupazione, induce a disinvestire in efficienza e tecnologia, impoverendo il lavoro e favorendo il posizionamento del paese su segmenti a basso valore aggiunto e scarsa competitività. Dal Pacchetto Treu, del 1997, al Job Act del 2014, per venti anni si è lavorato contro il posizionamento competitivo del paese, mentre la macchina gerarchizzante europea prendeva velocità.
L’Italia è come noto (fonte Ocse) il paese europeo che ha liberalizzato di più, mentre probabilmente, era quello che doveva farlo di meno soprattutto in assenza della possibilità di promuovere altre politiche industriali[48], ed in presenza dello smantellamento della grande impresa pubblica, che era l’unica, insieme all’università, a sua volta sacrificata, a fare ricerca industriale.
Insomma, gli autori, non senza aver analizzato la politica di Monti, rivolta ancora una volta alla ‘distruzione della domanda interna’[49], concludono su questo punto in questo modo: “dal punto di vista dell’establishment politico-economico italiano, il fatto che l’unione monetaria europea abbia comportato la deindustrializzazione e ‘mezzogiornificazione’ dell’Italia – a beneficio della Germania – e la retrocessione del nostro paese a un ruolo fortemente subordinato all’interno della gerarchia di potere europea, come era perfettamente prevedibile[50], è stato il prezzo da pagare (non da loro ovviamente) per ‘spezzare le reni’ ai lavoratori italiani ed espropriare la collettività tutta di una serie di beni materiali e immateriali. In questo senso, il regime economico post-Maastricht può essere accostato ad una forma di capitalismo comprador: un regime semicoloniale in cui le classi dominanti di un paese si alleano con interessi stranieri in cambio di rapporti di classe più favorevoli in patria” (p.238).
Uno strabiliante successo sotto questo profilo. E una ripetizione, peraltro, di una mossa che le élite italiane, in particolare del centro, ma anche del sud, compirono alla metà dell’ottocento[51].
La sinistra europea, erede della lunga tradizione del movimento dei lavoratori, gioca quindi un ruolo centrale nella transizione al neoliberismo, fornendogli una fondamentale legittimazione ideologica e quadri, ma anche ‘coprendola a sinistra’ e quindi rendendola molto più accettabile. Uno degli snodi messi in evidenza dagli autori di questo complesso e per certi versi misterioso puzzle, è l’idea che la mondializzazione non sia una scelta politica, derivante da una transizione egemonica multifattoriale, ma un aspetto ineluttabile della modernità, ovvero dello sviluppo materiale e tecnologico, destinato altrettanto inevitabilmente ad erodere la sovranità economica e politica degli Stati-Nazione. Quindi che le politiche ‘keynesiane’ erano giunte al termine del loro ciclo vitale e, se perseguite, assumevano un tono antistorico, e per ciò stesso reazionario. Si può verificare questa posizione su un arco amplissimo, da Renzi a Negri[52], per così dire, ovvero dal “nazionalismo in grande taglia” di molti, incluso Prodi[53] alla dissoluzione post-anarchica del potere nella ‘moltitudine’.
In qualche interprete più lucido[54] la cosa si collega con la liquidazione non solo delle conquiste dei lavoratori degli anni sessanta e ottanta, ma con l’intera parabola del novecento, riportando l’orologio della storia all’assetto del liberalismo ottocentesco all’ombra delle cannoniere britanniche (sostituite dalle portaerei americane).
È chiaro che in questo contesto, che ha notevole coerenza e profondità, il regime europeo realmente esistente è vantaggioso per alcune élite il cui stile di vita e tenore dipende strettamente dalla sua esistenza. Dunque un serio tentativo di riforma, molto semplicemente, potrebbe portare direttamente alla sua fine.
Gli autori vanno oltre: a loro parere “una riforma in senso democratico-progressivo dell’Unione europea e in particolare dell’Unione monetaria è non solo impossibile in termini pratici – come riconosciuto ormai anche da un numero crescente di economisti mainstream quali Joseph Stiglitz, Paul de Grauwe e altri, nonché da analisi di istituti europei come il Bruegel – ma anche inauspicabile dalla prospettiva del controllo democratico dell’economia” (p.252).
La soluzione a questi dilemmi è ricondotta in una mossa molto semplice: bisogna partire dal riconoscimento che non sono affatto ‘i mercati’ a ricattare gli Stati nazionali, ma casomai le oligarchie nazionali (incluso molte ex di sinistra) a ricattare surrettiziamente i lavoratori e le classi popolari, determinando uno schema di gioco nel quale queste possono solo perdere. Quindi bisogna compiere il percorso inverso e rifunzionalizzare lo Stato nazionale.
Ridemocratizzare e ripoliticizzare, dunque i processi politici ed economici come condizione necessaria per ritornare alla piena e buona occupazione. Quindi alla difesa ed espansione del welfare, la redistribuzione della ricchezza, attraverso la rinazionalizzazione di molte aree strategiche, etc[55].
Nella parte finale del libro questa prospettiva è connessa con un quadro teorico macroeconomico che parte dalla specifica caratteristica dei sistemi monetari ‘fiat’ (e dunque supera l’obiezione posta da O’Connor al quale schema mentale sono ancora connesse, dopo oltre quaranta anni, la maggior parte delle sinistre liberali): la possibilità di emettere moneta senza vincoli ex ante. Uno Stato realmente sovrano, in altre parole, non può mai finire i soldi. Questa è, a ben vedere, la minaccia all’egemonia di chi i ‘soldi’ (che sono, per loro stessa natura, rapporti sociali e quindi di potere) li ha, che si volle contrastare con la gabbia monetaria messa in piedi.
Se la capacità di spesa dello Stato non dipende direttamente dalle entrate fiscali i margini di libertà, pur non essendo infiniti, sono molto più ampi di quelli che sono scolpiti nelle regole giuridiche dell’eurozona. Più importante, non è inevitabile che se uno Stato è ‘troppo’ indebitato siano i ceti lavoratori a doverne fare sempre le spese.
L’eventuale ‘monetizzazione’ della spesa pubblica, ad esempio a fini di riequilibrio sociale o di incremento della produttività attraverso investimenti in infrastrutture, ricerca, istruzione, porterebbe la politica monetaria a liberarsi dell’incantesimo friedmaniano (inclusa la sua ossessione interessata per l’inflazione) per tornare ad essere “una componente della politica economica generale del governo, subordinata al sostegno di livelli occupazionali, al rafforzamento della protezione sociale e a una distribuzione del reddito più equa”[56]. Appare evidente a chi tale prospettiva può apparire deleteria ed a chi vantaggiosa.
Di seguito anche l’ossessione per una bilancia commerciale in attivo (nella quale, cioè, si esportano beni, vendendoli ad altri, e si acquisiscono capitali in misura maggiore rispetto a quella in cui si importano beni, aumentando il tenore di vita, in cambio di spesa diretta all’estero) sia automaticamente e sempre un danno è messa in discussione. Chiaramente un disavanzo estero di bilancia commerciale è accompagnato da un incremento di debito estero, ma quel che conta, caso per caso, è piuttosto se cresce o meno la capacità del paese di servire questo debito. Conta, cioè, per cosa si ha questo disavanzo: se va a finanziare investimenti, come dice il FMI, con “un prodotto marginale più alto del tasso di interesse che il paese deve pagare sulle proprie passività estere” (p.304), o no. Qualora si dia, comunque, una crisi di fiducia (sul modello delle ricorrenti crisi internazionali verso i paesi più vari) sarebbe comunque meno doloroso (per le classi lavoratrici) lasciar svalutare la valuta che non il lavoro.
Quest’ultima osservazione è esemplare, perché appare del tutto evidente che si tratta di punti di vista: è meno doloroso per le classi lavoratrici lasciar svalutare la moneta (e quindi la capacità di acquisto di beni esteri) che non il lavoro, ovvero i salari. E’ del tutto opposto per i ceti internazionalizzati e cosmopoliti che dispongono di ingenti risorse accumulate.
La tragedia della sinistra è tutta, interamente, qui.