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Otto domande (e risposte) sull’Europa

di Redazione

panoramawebfrit 20190319152755783 1030x6151. Cosa è in gioco con le elezioni europee? Il Parlamento europeo ha veri poteri?

Tra meno di due settimane tutti i cittadini dell’Unione europea saranno chiamati alle urne per eleggere i propri rappresentanti nel Parlamento Ue. La data sembra particolarmente carica di significati, si tratta infatti di un appuntamento che cade a 40 anni esatti dalle prime elezioni europee a suffragio universale, nel 1979. Saranno anche le prime senza il Regno Unito. Alle elezioni europee storicamente hanno votato meno persone che nelle elezioni politiche. Negli anni ’80, in un sistema di partiti ancora molto strutturato, la differenza era più contenuta ma già significativa: nelle politiche votava quasi il 90% dell’elettorato, nelle europee circa l’82-83%. Un divario che nei decenni successivi si è progressivamente allargato. 58,69% gli elettori che sono andati a votare alle europee del 2014 in Italia.

Il Parlamento europeo è l’assemblea dell’Unione europea, ad oggi è l’unica istituzione direttamente eletta dai cittadini e dalle cittadine dell’Unione europea. E’ composta da 750 deputati e deputate, più il presidente. Svolge una funzione legislativa con il Consiglio europeo, elegge il Presidente della Commissione e approva o respinge la nomina dell’intera Commissione.

Questo è quanto si può leggere sulla “carta”, ma che cosa accade nella realtà?

Il parlamento nasce come organo consultivo sin dalla nascita della Comunità europea, ma è solo partire dal 1999, con il Trattato di Amsterdam, quello che poi è diventato a tutti gli effetti la Costituzione dell’Unione europea, che i suoi poteri sono stati in parte rafforzati. Sebbene sia intervenuta questa “riforma” attualmente ancora non dispone di reali funzioni legislative, non ha infatti potere di iniziativa legislativa, che spetta invece alla Commissione, se non limitatamente ad alcuni casi.

Di fatto la “Legge Primaria” in Europa rimangono i Trattati, come Maastricht, Lisbona, o il Fiscal Compact, limitando pertanto la sovranità di elettori e elettrici quando vengono chiamati alle urne per indicare l’unica istituzione europea a carattere elettivo.

E’ molto dubbio quindi che i risultati delle prossime elezioni europee possano influenzare in modo determinante e diretto il funzionamento dell’Unione europea, dato che sulle materie più importanti per noi, come le riforme economiche, è la Commissione e un complesso meccanismo di equilibri tra governi nazionali ad assumere le decisioni. Queste elezioni serviranno indubbiamente a tastare il polso delle opinioni pubbliche dei vari paesi europei sulle prospettive dell’Unione dopo un lungo periodo di scricchiolii, che ha visto l’accumularsi di più crisi, da quella economica internazionale a quella dell’euro, dalla crisi dei rifugiati all’agonia infinita della Brexit.

Ciò che ad oggi ci appare chiaro è che la risposta dei paesi e delle istituzioni europee a questi shock ripetuti è stata tardiva e insufficiente, in parte per i conflitti tra i paesi e in parte per i limiti stessi del funzionamento dell’Unione europea e di quella monetaria, che alimentano una protesta anti-europea.

 

2. Chi concretamente decide la politica europea?

Attualmente l’Unione Europea (UE) è composta da 28 Paesi (17 dei quali hanno adottato l’Euro come moneta comune). Gli Stati, pur restando indipendenti, hanno scelto di delegare una parte dei poteri decisionali in determinate materie a istituzioni create da specifici accordi.

Sulla base di quanto stabilito, l’Europa ha competenze esclusive su alcune materie, mentre in altre le competenze sono concorrenti. Di fatto si è definito un quadro in cui la competenza legislativa primaria è dell’Unione, mentre il ruolo degli Stati è residuale e quindi possono legiferare in tali campi solo conformemente a quanto deciso dall’Unione o dove questa non è intervenuta. L’Unione europea ha, infatti, competenza esclusiva in ambiti come il mercato unico, la politica monetaria dei paesi euro, il commercio internazionale. La competenza concorrente riguarda il mercato interno, l’agricoltura, l’ambiente, i trasporti, la protezione dei consumatori, l’energia, le reti transeuropee e pochi altri temi.

L’Unione è caratterizzata da un sistema istituzionale ibrido: molto più vincolante e strutturato di quello di un’organizzazione internazionale, ma non avendo però la natura di una federazione di stati che partecipino direttamente nei processi decisionali.

Ne risulta un impianto decisionale piuttosto complesso, soprattutto perché vi concorrono diverse istituzioni:

1) Consiglio europeo, composto dai capi di stato e di governo dei paesi membri; si riunisce ogni 3 mesi a Bruxelles. Il compito del consiglio europeo è quello di decidere gli orientamenti generali dell’unione europea;

2) Consiglio dei Ministri, con sede a Bruxelles, con funzione legislativa. Ad esso spetta il compito di approvare le leggi che i singoli stati saranno tenuti a rispettare. Non esistono al suo interno membri permanenti; alle sedute del consiglio, infatti, partecipano di volta in volta e ministri competenti che i governi degli stati membri inviano a Bruxelles in funzione dei temi da trattare;

3) Commissione europea, un organo permanente, che rimane in carica per 5 anni. Ha sede a Bruxelles e si definisce permanente perchè i suoi membri rimangono in carica fino alla naturale scadenza del loro mandato. La commissione è la “guardiana dei trattati” proprio perché controlla che questi ultimi vengano rispettati. Alla commissione sono affidate le funzioni di iniziativa, vigilanza ed esecutiva:

la funzione di iniziativa consiste nel proporre le norme da sottoporre all’approvazione del consiglio dei ministri; la funzione di vigilanza consiste nel controllare che gli stati membri si uniformino a quanto disposto nelle norme dell’union; la funzione esecutiva consiste nel dare concreta attuazione alle disposizioni contenute nella Costituzione e alle decisioni adottate da altri Organi dell’UE.

La natura ibrida dell’intero assetto e la modalità di designazione dei componenti dei principali organismi definiscono un’istituzione in cui è evidente la cessione di sovranità dei cittadini e delle cittadine europee, che poco incidono sull’Unione europea attraverso le consultazioni elettorali. Non è con il suffragio universale che si decidono gli organismi dell’Unione, ma questi sono il risultato ultimo di accordi ed equilibri trasversali tra Stati.

 

3. L’Europa è diretta dalla coppia Francia-Germania?

A questa domanda si potrebbe rispondere in maniera un pò brutale: una volta forse, attualmente non più. Abbiamo a che fare con un Europa ad egemonia tedesca. Eppure nei primi anni dell’Unione i leader francesi (Delors e Mitterand tra gli altri) trascinavano nel progetto europeista una Germania reticente. Se l’Europa è stata all’inizio “francese”, quando la Germania sconfitta era ancora debole, oggi è in maniera molto evidente solo “tedesca”.

Il recente accordo di Aquisgrana del 22 gennaio scorso con il rinnovo del trattato franco-tedesco ha provato a rilanciare il rapporto di coppia snobbando gli altri 26 membri dell’Unione. Anche se, bisogna sottolinearlo subito, l’espressione “coppia franco-tedesca” viene utilizzata solo ad ovest del Reno, ma non certo in Germania.

Aquisgrana ha ovviamente un alto valore simbolico: fu scelta da Carlomagno come capitale dell’impero carolingio che unì in un unico organismo politico Francia e Germania. Ma i due dirigenti che hanno apposto la loro firma sono due politici in grande difficoltà nei loro rispettivi paesi. Angela Merkel è a fine carriera, molto indebolita e forse non riuscirà a portare a termine il suo quarto mandato, mentre Emanuel Macron è alle prese con diversi movimenti di contestazione, dai “gilets jaunes” alle mobilitazioni che criticano la sua politica ambientale, alle diffuse vertenze sindacali. Contestazioni che nascono soprattutto in seguito alle politiche economico-sociali che il Presidente francese vuole applicare nel suo paese in riferimento alle indicazioni di Bruxelles.

Con il nuovo Trattato si potrebbe dire che la Francia dà e la Germania prende; non c’è equilibrio. Si stabilisce una maggiore cooperazione industriale nel settore bellico, un impegno ad un’assistenza reciproca anche con l’utilizzo delle forze armate, uno stretto coordinamento dei loro sforzi in seno all’Onu e di operare per l’ingresso della Germania nel club dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Ora, è la Francia che è leader in Europa in questi settori, che dispone di una delle reti diplomatiche più solide e diffuse nel mondo, che è membro permanente del Consiglio delle Nazioni unite, che ha un esercito agguerrito e possiede l’arma atomica.

Sia detto per inciso, su questo piano, una precisazione è arrivata subito con l’intervista del 10 marzo al Welt am Sonntag di Annegret Kramp-Karrenbauer, la donna che ha preso la guida della CDU al posto della Merkel: la Germania rivendica un seggio permanente dell’Ue al Consiglio di sicurezza dell’Onu (togliendolo quindi alla Francia), in evidente contraddizione con il Trattato di Aquisgrana, dove la Francia si è impegnata a sostenere la richiesta di un seggio permanente per la Germania. Per buona misura, ha chiesto anche l’eliminazione di Strasburgo come seconda sede del Parlamento europeo, un tabù per i governi francesi da De Gaulle in poi.

In realtà, la Germania continua a dare fiducia a Washington per la sua difesa, come in tutto il dopoguerra. Nello stesso Trattato di Aquisgrana i tedeschi hanno voluto precisare che la maggiore cooperazione tra i due paesi nel settore della difesa dovrà svolgersi nel quadro della Nato.

Sul terreno economico la Germania poteva compensare ciò che aveva ottenuto sul terreno della difesa e della diplomazia. Ma Angela Merkel ha sabotato le proposte macroniane di un budget autonomo dell’eurozona al quale Berlino avrebbe dovuto contribuire in proporzione alla sua ricchezza. Il governo tedesco ha poi boicottato la proposta francese di una tassa europea sui giganti del digitale (la cd. “tassa Gafam”) per non dover subire ritorsioni da parte degli Usa sui dazi per le importazioni di automobili made in Germany. Per maggior chiarezza, la solita Kramp-Karrenbauer ha dichiarato, nell’intervista citata, che “il centralismo europeo, lo statalismo, la comunitarizzazione del debito, l’europeizzazione della sicurezza sociale (le proposte sull’ indennità di disoccupazione europea – NdR) e il salario minimo comune sarebbero la strada sbagliata“.

In queste condizioni, i propositi di una maggiore integrazione economica avranno per la Francia come uniche conseguenze un di più di austerità ed una pressione al ribasso per i salari ed il welfare, come d’altronde dimostrano le “riforme” proposte ed attuate da Macron per disciplinare questo popolo di “Galli refrattari“, secondo l’espressione dell’inquilino dell’Eliseo. D’altronde nel corso della sua campagna presidenziale il nostro aveva a più riprese ribadito che occorreva “fare delle riforme di struttura per riconquistare la fiducia della Germania“.

Ma le ragioni della leadership tedesca non sono frutto di una sorta di imperialismo germanico, ma la conseguenza di com’è strutturata l’Unione. Essa è il risultato di effetti automatici che derivano dalle scelte fatte nel passato: dal mercato unico alla creazione dell’euro, al Trattato di Maastricht, solo per citarne alcune.

Con la creazione dell’euro, Mitterand pensava di limitare gli effetti della riunificazione della Germania. La quale in quel periodo non chiedeva di instaurare la moneta unica. Il Presidente della Bundesbank all’epoca si oppose con energia, così come molti economisti tedeschi sostenitori della stabilità monetaria e dell’inflazione pari a zero. Se il cancelliere Khol alla fine accettò non fu che dopo aver imposto le sue condizioni, in modo tale che l’euro fu a lungo gestito come un clone del marco. Il fatto che la Bce sia indipendente, che la sua missione prioritaria sia quella di garantire la stabilità dei prezzi, che nel suo statuto ci sia il divieto di intervenire per finanziare direttamente gli Stati, furono altrettante scelte fatte per scimmiottare il modello monetario tedesco.

Oggi, occorre precisare, l’euro con la guida di Draghi alla Bce, non è più gestito del tutto alla maniera germanica. La Banca centrale ha infatti dovuto, per salvare la moneta unica nel corso della crisi del 2010-2012, stampare biglietti a manovella, lasciando sgomenti molti dirigenti tedeschi. Comunque, rimane il fatto che l’euro è strutturalmente sottovalutato nei confronti del marco (di circa il 20%), mentre è sopravalutato per le economie di molti paesi della zona euro, ed in particolare di circa il 7% rispetto al franco. Uno dei fattori che ha consentito alla Germania di realizzare notevoli surplus commerciali. D’altronde uno studio del Center for european policytedesco pubblicato nel febbraio 2019, ha certificato che, tra il 1997 ed il 2017, mentre il guadagno pro-capite per i tedeschi è stato in media pari a 23mila euro, la perdita pro-capite per i francesi è stata di 55.996 euro (per gli italiani si registra una perdita pro-capite pari a 73.605 euro). Cifre che parlano chiaro.

Su spinta di Berlino, l’Ue è stata poi allargata verso Est nel 2004 e nel 2007 integrando i Paesi dell’Europa centrale ed orientale nel mercato unico, consentendo così alla Germania di costituirsi un vasto retroterra industriale a beneficio delle proprie imprese che hanno delocalizzato per usufruire di una manodopera a buon mercato.

I tedeschi occupano, inoltre, quasi tutti i posti chiave nell’architettura dell’Unione. Al Parlamento europeo, sono tedeschi il Segretario generale dell’istituzione (cioè il capo della sua amministrazione – Klaus Welle), i Presidenti di 4 degli 8 gruppi dell’Assemblea (GUE, Verts/ELE, ma soprattutto dei due gruppi più importanti, il PPE e il gruppo Socialdemocratico). La Germania dispone anche di numerosi incarichi di coordinatori delle commissioni, posti cruciali per l’organizzazione del lavoro parlamentare. Dei tedeschi occupano tre segretariati comunitari generali su quattro: quello della Commissione (M. Selmayr), quello del PE (K. Welle) e quello del Servizio europeo per l’azione esterna (H. Schmid). Ugualmente tedeschi sono il presidente del Meccanismo europeo di stabilità (K. Regling), della Banca europea degli investimenti (W. Hoyer) e del Consiglio di risoluzione delle crisi bancarie (E. Konig). Unica importante eccezione la presidenza della Bce che peraltro è in scadenza il 31 ottobre 2019.

La Francia negli ultimi anni non ha cessato di corteggiare la sua vicina, di farle profferte e di pregarla di prendere degli impegni sottoscrivendo degli accordi. Ma ha fatto regolarmente la figura dell’innamorata respinta.

 

4. L’esempio del Portogallo dimostra che la crescita e la fine della austerità sono possibili nei limiti della UE?

Alcune cose nei parametri della Ue si possono fare, ma rimangono margini decisamente stretti. In Portogallo l’austerità non è finita. Dopo che durante la crisi dell’euro la Troika (FMI, Commissione, BCE) ha prestato 78 mld di euro ottenendo in cambio il taglio di salari e spesa sociale, aumento di tasse e deregolamentazione del mercato del lavoro, il nuovo governo del socialista Costa (dal 2016) ha mantenuto la maggior parte delle misure di austerità. Dopo una trattativa fra Commissione ed esecutivo sul bilancio del 2016, quest’ultimo ha fatto marcia indetro su alcune proposte e per gli anni seguenti (2016-18) si è incamminato verso una riduzione delle spese pubbliche, andando vicino al pareggio di bilancio. L’aumento del deficit pubblico del 2017 al 3% è dovuto al salvataggio della maggiore banca del paese, cui il governo ha versato 2,7 miliardi di euro.

Nonostante ciò il paese ha visto una crescita discreta del PIL negli ultimi anni: +1,8% (2015), + 1,9 (2016), + 2,7 (2017), +2,08 (2018). Tale risultato è stato conseguito grazie all’esplosione del settore turistico, del settore immobiliare e dell’export. Quest’ultimo è in crescita nella composiizone del PIl e viene visto come un fattore di debolezza e fragilità dalla stessa Commissione UE nel rapporto di fine febbraio 2019; si ritiene infatti probabile un calo del commercio internazionale.

La congiuntura favorevole ha permesso la creazione di posti di lavoro con diminuzione della disoccupazione. Tale dato positivo tuttavia va contestualizzato da una quota salari sempre bassa: % del PIL nelle retribuzioni resta sempre 5-6 punti inferiore del periodo pre-crisi. Inoltre si registra un numero maggiore di contratti temporanei rispetto ad ogni periodo precedente (pre-crisi e successivo) sul totale della forza-lavoro. Il Portogallo dimostra che all’interno dei parametri comunitari si ha poco margine per ottenere una crescita basata sulla domanda interna (ed infatti secondo i dati FMI di fine 2018 il consumo privato tende a calare), e la camicia di forza europea ha spinto a sacrificare gli investimenti pubblici in modo decisivo (nel 2016 sotto la Grecia), ponendo deboli fondamenta per la crescita futura.

 

5. Quali spazi ci sono per costruire un’Europa sociale? Può l’armonizzazione fiscale essere la soluzione?

Nell’ambito del mercato unico e della moneta unica, i Paesi sono spinti a farsi concorrenza al fine di aumentare la propria competitività e attirare capitali. Questo si traduce nella spinte alla concorrenza fiscale per attrarre investimenti o per evitare delocalizzazioni, al contenimento dei costi del lavoro e alla riduzione dei diritti e del welfare. Si aggiunga che le regole fiscali europee come il fiscal compact impongono ai paesi membri piani di austerità spesso molto onerosi, il cui rispetto è reso ancor più difficile dell’ossessione per la stabilità dei prezzi. Lo spazio per ampliare i diritti sociali è sempre più ristretto, la sanità, l’istruzione hanno subito negli anni tagli importanti che hanno snaturato la natura di beni primari da garantire universalmente ai cittadini, e anche gli investimenti pubblici ne hanno risentito pesantemente, compromettendo la tutela del territorio e la qualità delle infrastrutture. Non stupisce che la cosiddetta Europa sociale esista ormai solo nei proclami roboanti e negli annunci enfatici. Eppure era proprio l’elevata sicurezza e protezione ciò che caratterizzava il modello sociale europeo, e che poteva giustificare lo sforzo per unire le forze e affermarlo come un modello da seguire. Spesso si parla dell’armonizzazione fiscale come di una possibile soluzione per limitare la concorrenza, ma finora l’Europa ha assecondato il comportamento degli stati che hanno sfruttato la mobilità dei capitali per creare dei veri e propri paradisi fiscali, rendendo nei fatti impossibile realizzare forme di tassazione della rendita finanziaria.

Del resto, anche qualora fosse presa sul serio, è difficile che l’armonizzazione fiscale possa bastare a eliminare la concorrenza al ribasso dei diritti e dei salari tra Paesi. Da questo punto di vista, un fattore ben più importante sono le differenze di retribuzione tra i paesi dell’Unione. L’allargamento a Est dell’Unione, che ha esteso il merato unico a paesi con condizioni di retribuzione così difformi da quelli del nucleo originario, ha premiato solo chi ne ha approfittato per delocalizzare, ma ha indebolito il lavoro in paesi come il nostro. Per restituire forza ai lavoratori occorrerebbe un ripensamento del mercato unico, soprattutto per quanto riguarda le condizioni di mobilità dei capitali e dei servizi, ma questo purtroppo non sembra essere all’ordine del giorno.

 

6. Si può democratizzare l’UE cambiando i Trattati? La Ue è riformabile?

È una cosa estremamente difficile, per più ragioni.

La prima: una riforma dei trattati deve essere fatta alla unanimità, e sarà difficile che qualcuno non metta il veto, specialmente se i suoi interessi coincidono con quelli della rendita finanziaria (si pensi al Lussemburgo).

Secondo: le proposte di “democratizzazione” per lo più prospettano un potenziamento del Parlamento europeo. Questo potrebbe non bastare, perché il trasferimento della sede delle decisioni in sedi “sovranazionali” o nel complesso geograficamente più lontane comporta molto frequentemente un abbassamento del controllo popolare sulle decisioni, dando luogo alla maggiore influenza delle lobby. In ogni caso un minor potere dei Governi rispetto ad una assemblea eletta direttamente potrebbe smussare la gerarchia degli Stati presente attualmente, e non è nell’interesse dei più forti fra essi, così che si ricade nella prima difficoltà in merito alla unanimità delle decisioni.

Terzo: se per democratizzazione si intende non solo rendere le procedure più condivise ma più conformi all’interesse delle classi lavoratrici gran parte delle norme dei Trattati va emendata o riscritta, perché in esse la centralità del mercato e della concorrenza è nettissima. Ciò non va solo contro il volere della oligarchia che controlla la maggior parte dei governi ma anche contro poteri impermeabili al voto democratico come la BCE. Questa controllando le banche centrali può minacciare e punire qualsiasi Stato si sollevi singolarmente (si pensi ad Irlanda, Cipro, Grecia…) “dando una lezione” agli altri.

Quarto: la riforma della Ue avrebbe bisogno di una mobilitazione unitaria e sincronica nei 28 stati membri (o poco meno), per tempi lunghi e con una vasta partecipazione popolare per fare pressione sugli attuali decisori (Governi in carica). Ma finché il sistema Ue perdura, si crea una divaricazione economica fra paesi determinata da un orizzonte fondato sulla competizione reciproca, che rende arduo stabilire obiettivi comuni (aggiungendosi anche il problema della lingua, della cultura politica ecc.). Così il sistema Ue mina le basi per la sua stessa riforma.

 

7. L’adesione all’Euro ci ha aiutati o rappresenta un problema?

Che l’eurozona non funzioni è ormai opinione generale. Venti anni dopo la creazione dell’euro, il bilancio economico è molto negativo: crescita europea metà di quella statunitense, deindustrializzazione di alcuni paesi, disuguaglianze tra i paesi del Nord e quelli del Sud, tensioni molto accese tra gruppi dirigenti, con particolare riguardo al dominio tedesco sull’economia e le istituzioni. L’euro accentua le divisioni invece di fare progredire l’Europa.

Quando i paesi europei disponevano ognuno della propria moneta, essi beneficiavano di tassi di cambio adattabili. Le variazione dei tassi di cambio consentivano di aggiustare gli squilibri di un’economia nei suoi rapporti con l’estero. L’esistenza della moneta unica, invece, impedisce ai paesi europei di agire sul cambio della loro moneta. Per via dell’euro, per riguadagnare un po’ di competitività i Paesi sono spinti ad effettuare una “svalutazione interna”, cioè un deprezzamento di salari, costi, welfare e prezzi.

Nella moneta unica tutti i paesi dell’Ue sono spinti a comportarsi come la Germania, a comprimere il mercato interno, i salari ed il welfare per stimolare le esportazioni. Questa Europa non può essere che quella della deflazione salariale senza fine.

Inoltre, il cambio dell’euro varia sostanzialmente in funzione del dinamismo dell’economia tedesca e non tiene adeguatamente conto delle esigenze degli altri paesi. Ciò determina ulteriori elementi di divergenza economica, sostenendo le economie dei paesi più competitivi ma affondando quelle che sono in difficoltà. Uno studio del tedesco Centrum fur Europaische Politik (Cep) pubblicato nel febbraio 2019 ha stimato che, tra il 1997 ed il 2017, mentre il guadagno pro-capite per i tedeschi è stato in media pari a 23mila euro (e 21mila euro per gli olandesi), la perdita pro-capite è stata pari a più di 73mila euro per gli italiani (e 56mila euro per i francesi!).

Il presidente Draghi ha recentemente dichiarato (8 maggio 2019 – al premio “Generation €uro Students”) che quando sente parlare di tornare alle vecchie monete gli vieni da ridere. A noi, purtroppo, riflettendo sui disastri sociali ed economici prodotti da vent’anni di moneta unica e pensando che nulla si sta facendo per cambiare questa situazione, viene da piangere.

L’euro è una moneta straordinariamente disfunzionale. I trattati che governano il funzionamento della BCE mettono il controllo dell’inflazione davanti a ogni altro obiettivo. D’altra parte, quando la BCE si comporta in maniera più pragmatica e più flessibile, la Germania ed altri paesi del Nord Europa che si irritano: i tedeschi per ben due volte si sono rivolte alla Corte costituzionale di Karlsruhe ed in seguito alla Corte di giustizia europea contro le scelte di Draghi, giudicate troppo eterodosse. L’interesse prioritario della Germania è quello di proteggere i risparmi dei suoi pensionati, riducendo al minimo l’inflazione e consentendo un aumento dei tassi di interesse.

Come sostiene Joseph Stiglitz, «l’euro funziona solo se i paesi che lo usano sono simili. Ma in Europa non è così, ci sono regimi fiscali che si fanno la concorrenza all’interno della stessa Ue, i paesi si sono allontanati invece che avvicinarsi ed è successo proprio per colpa delle regole dell’euro».

 

8. Ma è possibile per un paese uscire dall’Euro?

Di fronte alla situazione descritta, c’è chi auspica la fine dell’euro argomentando che, a medio termine, il recupero della sovranità monetaria sarebbe la via per ritrovare la leva essenziale di ogni politica economica. Anche accettando tale conclusione, occorre aver chiaro che è estramemente difficile porre l’uscita unilaterale dall’euro come programma politico, perché già solo l’annuncio dell’uscita innescherebbe dinamiche difficilmente controllabili sui mercati finanziari. Il dilemma è stato efficacemente espresso da Stiglitz, che pure resta come uno dei critici più severi della moneta unica: «Italexit? Se l’Italia esce causa una tragedia per l’Ue, se rimane la causa in Italia». Non è un caso che anche i partiti che avevano fatto dell’uscita dall’euro la propria bandiera hanno molto ridimensionato, forse addirittura accantonato, la loro aspirazione.

Ciò non significa tuttavia escludere che, nel caso in cui ci trovassimo di fronte ad una nuova crisi finanziaria, ipotesi che molti economisti ritengono plausibile, quella di abbandonare la moneta unica possa presentarsi per alcuni paesi o per l’Europa nel suo insieme come una necessità. Se l’uscita dall’euro non è programmabile, essa non può nemmeno essere scartata dal novero delle possibilità. Il noto commentatore economico Wolfgang Munchau, sul Financial Times dello scorso 28 aprile, ha affermato che l’euro ha un’architettura che lo condanna a essere insostenibile, anche se è strutturato in maniera tale da non permettere a un Paese di uscire prima dello schianto. Secondo questo autore il sistema potrebbe spaccarsi con la prossima prevedibile crisi finanziaria.

Com’è noto, nel momento di massima drammaticità della crisi in Grecia, era stato predisposto un Piano per l’uscita dall’euro (J. Galbraith, Crise grecque, Tragédie européenne, 2017), poi rifiutato da Tsipras. L’ipotesi, malgrado non fosse contemplata dai Trattati, era stata presa in considerazione sia in Grecia che in Germania.

Tecnicamente un’uscita pone diversi problemi: come evitare che nell’immediato si determini una fuga di capitali verso le banche estere; come predisporre rapidamente la liquidità necessaria a garantire il funzionamento dell’economia; come gestire la ridenominazione del debito (i debiti tra residenti nel paese possono essere ridenominati nella nuova valuta ad un tasso di cambio di uno a uno, ma la cosa sarebbe più complessa per i debiti espressi in euro che fanno capo al diritto estero); si dovrebbe inoltre negoziare la regolazione dei saldi Target2 tra le banche aderenti all’Eurosistema.

Un elemento di incertezza riguarda poi la possibilità che l’uscita determini un’immediata svalutazione, e quindi un aumento dell’inflazione. Se da un lato ciò potrebbe rendere la nostra economia più competitiva, dall’altro la percezione del rischio di cambio renderebbe più costoso per il nostro paese indebitarsi sui mercati esteri.

Anche senza cedere alle ipotesi più catastrofiste (attorno all’uscita dall’euro si è sviluppata un’ampia letteratura di genere apocalittico) è chiaro che nel caso in cui il nostro paese fosse spinto a uscire dall’euro occorrerebbe prendere misure per proteggere le categorie più vulnerabili (pensionati e beneficiari del reddito minimo) da una probabile crescita dei prezzi. Si dovrebbero istituire sistemi di finanziamento delle imprese, intervenire sul sistema bancario, limitare la libera circolazione dei capitali e l’indipendenza della nostra banca centrale. L’uscita dall’euro sarebbe, dunque, un’operazione complessa e probabilmente costosa nel breve periodo (anche se alcuni economisti – C. Durand e S. Villemot – sostengono che a pagare il prezzo più alto in caso di implosione dell’euro sarebbero i paesi del Nord Europa).

In tema di euro e di UE, a sinistra si confrontano grosso modo tre opzioni:

  • la prima è quella di una riforma democratica e graduale dell’Ue e dell’euro, organizzata essenzialmente sul controllo politico della Bce e un’accentuazione dei poteri del Parlamento europeo: è un progetto che ha ben poche probabilità di essere realizzato, vista l’opposizione di gran parte dei Paesi della Ue;
  • esiste poi l’ipotesi di un movimento sociale europeo a livello continentale in conflitto diretto con le istituzioni europee, che spinga a realizzare riforme in direzione di un’integrazione politica più forte e di una maggiore democrazia. Per quanto condivisibili siano tali obiettivi, è un’impostazione velleitaria che non tiene in dovuto conto che le istituzioni europee sono poco influenzabili al di fuori dei meccanismi negoziali tra stati e che le lotte popolari nei diversi paesi europei sono difficilmente sincronizzabili;
  • c’è chi chiede l’uscita immediata dall’Unione europea e dall’euro, senza però delineare un percorso credibile e realisticamente praticabile.

Va valutata, invece, una quarta opzione che si articola intorno ad un Piano A e ad un Piano B.

Da un lato si dovrebbero usare tutti gli strumenti possibili per modificare gli aspetti più critici del quadro europeo: disapplicazione di alcune direttive con ricorso alla Corte di giustizia europea; allentamento e progressiva disapplicazione dei vincoli sul bilancio pubblico per realizzare investimenti pubblici miranti a riconvertire il nostro sistema produttivo; sfida a quelle regole sulla concorrenza che impediscono agli stati di realizzare un’autonomia politica industriale; proposte di modifica del mandato della BCE.

Dall’altro si dovrebbe mettere il nostro Paese in condizione di affrontare una possibile situazione di emergenza che mettesse in discussione l’assetto monetario. Di fronte alla presa d’atto che l’assetto dell’euro è disfunzionale e fragile, non serve a nulla continuare a esorcizzare la questione ripetendo che l’euro è irreversibile. È meglio essere pronti ad ogni circostanza, prefigurando possibili alternative alla moneta unica per non lasciarsi cogliere impreparati. Ciò avrebbe anche l’effetto di renderci meno ricattabili e quindi di aumentare la nostra forza negoziale.

Comments

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Alessandro
Thursday, 23 May 2019 10:09
L'Eurozona 'e formata da 19 Paesi in cui vivono circa 340 milioni di persone, un numero superiore di abitanti degli USA, e che rappresentano l’85% del PIL dell’UE
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Francesco Zucconi
Wednesday, 22 May 2019 22:23
Sì certamente dobbiamo proporre un piano B,
come avrebbe voluto l'ex ministro Savona,
con l'auspicio di non doverlo usare...
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