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L’euro e il capitalismo europeo

di Csepel

Osservazioni su Bellofiore, Garibaldo e Mortagua, Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea

liseuseNegli ultimi anni si sono succeduti testi che analizzano, da una prospettiva più o meno eterodossa, la parabola dell’euro 1. Anche questo testo interviene nel dibattito che si sviluppa a sinistra sul futuro della moneta unica. Il tema di fondo è che per capire l’euro bisogna analizzare la ricomposizione del tessuto produttivo europeo, innanzitutto tedesco, a partire dalla caduta del muro di Berlino. Nato nel mondo della guerra fredda, il progetto di unificazione europea risorge, soprattutto per impulso francese, con lo scopo di controllare l’ormai straripante potenza tedesca. In cambio di una banca centrale unica (comunque plasmata sulla Bundesbank) la Germania pretende vincoli sulla situazione dei conti pubblici dei futuri paesi dell’Unione. Da qui il Trattato di Maastricht e tutto il resto, sino al Fiscal Compact. La politica economica condotta dal grande capitale tedesco dagli anni ‘80 in poi è stata coerentemente orientata a riorganizzare la produzione su scala europea, riprendendosi il cortile di casa (Ungheria, Polonia, ecc.) in cui esternalizzare le produzioni a minor valore aggiunto, affiancandolo alle aree già prima fortemente integr ate nella filiera produttiva tedesca, come il Veneto o l’Austria. La moneta unica va studiata all’interno di questo quadro di cui costituisce una tessera importante ma non esclusiva. Lo dimostra il fatto che buona parte dell’est europeo, colonia tedesca, non ha nemmeno l’euro anche se fa parte dell’UE. Ridurre dunque il tema dell’uscita dall’Eurozona alla possibilità di svalutare è sicur amente futile.

In questo quadro, l’Italia gioca un ruolo particolare. Già verso la fine del miracolo economico era chiaro che il capitale italiano non fosse in grado di reggere lo scontro con i concorrenti internazionali sul piano dell’innovazione. Alle difficoltà fece fronte, in un primo momento, con le svalutazioni, in seguito con le delocalizzazioni, il far west sul mercato del lavoro, l’appropriazione delle ex aziende pubbliche. Definire come fanno gli autori questo calo degli investimenti come “kaleckiano” nel senso di legato a una decisione co sciente di “punire” le lotte operaie ci sembra parziale. Può essere vero per alcuni momenti di acu to scontro sociale, ma qui si parla di un processo ultradecennale legato a fattori strutturali, peraltro indicati nel libro stesso, come la polverizzazione produttiva delle aziende, la loro concentrazione in settori maturi, ecc.

Il capitale italiano ha sempre avuto bisogno della visibilissima mano dello stato per fare profitti, che si trattasse di fornitura di servizi di base a costi irrisori, di repressione sociale, di difesa dei mercati, ecc. Peraltro, non bisogna vedere in questo aspetto un’esclusiva della borghesia nostrana. Correttamente, il libro evidenzia che l’idea che il neoliberismo sia una forma di programma di laissez-faire è una ricostruzione ideologica priva di qualunque riscontro. Per imporre il volere dei mercati (ossia dei ricchi) ci vuole la mano pesante dello stato, che attacca e distrugge i sindacati, regala settori in sostanziale regime di monopolio ai grandi gruppi privati, concede sgravi fiscali, conquista con le armi mercati di sbocco e fonti di materie prime. Altro che mano invisibile, siamo all’interventismo più totale. Possiamo dire, con gli autori, che questo avviene “contrariamente alla dottrina liberista classica”? Solo in prima approssimazione. È vero che i fondatori del liberis mo economico (Hume, Smith, Mill padre, Ricardo, ecc.), devono combattere una feroce battaglia contro i residui dell’assolutismo e attaccano dunque le prerogative dello stato come rappresentante dei vecchi ordini nobiliari, clericali, ecc. Tuttavia, sin dall’origine, il liberismo si impone con la forza delle armi e della repressione sociale, basta pensare ai Combination Acts inglesi, al colonialismo. In questo senso, il liberismo vecchio e nuovo, al di là delle parole vuote dei suoi corifei , va sempre di pari passo con la ferocia repressiva dello stato.

Fatto sta che il neoliberismo è risultato efficace nel rinchiudere i lavoratori nella gabbia della passività e delle rate in scadenza. A fronte di un tendenziale ristagno dei salari reali si innesca, infatti, un abnorme aumento del debito privato che cerca di quadrare il cerchio tra entrate e consumi.

Tuttavia, e questo fenomeno nel libro è poco indagato, occorrerebbe approfondire perché anche altri attori economici (in primis le banche, ma anche le aziende non finanziarie) hanno visto aumentare in questi decenni la leva finanziaria. In estrema sintesi è possibile osservare che l’aumento della fragilità finanziaria è connesso a fenomeni profondi dello sviluppo capitalistico e in particolare alle difficoltà crescenti di valorizzazione del capitale . Questo spiega anche la necessità dell’intervento pubblico. Quanto più si sviluppa, tanto più il capitalismo accresce i propri caratteri parassitari e dunque l’esigenza di uno stato che ne attutisca le contraddizioni con quello che Minsky definì il big government, argine alle ricorrenti crisi sistemiche. In questo senso è riduttivo osservare, come fa il libro, che gli investimenti reali si riducono perché la finanziarizzazione ha implicato elevate rendite finanziarie alzando il livello minimo di redditività anche per gli investimenti industriali. Il tema è che in molti settori la sovrapproduzione opprime i profitti e il debito serve a rimandare i problemi ma non può comunque compensare il calo del trend de gli investimenti dovuto alla sovra-capacità.

Sebbene il neoliberismo abbia consentito una certa ripresa dei profitti in alcuni settori, questa ripresa è stata segnata da forti contraddizioni e dal ricorso crescente all’indebitamento. Ormai il legame è tale che l’andamento dei mercati finanziari incide direttamente sui consumi e ciò determina anche l’intonazione delle politiche economiche (ad esempio determinando bassi tassi d’interesse permanenti ma anche la deregulation bancaria e finanziaria). È importante sottolinearl o per non cadere nella superficiale analisi dei keynesiani meno accorti, i quali riducono la crisi a errori ideologici nelle politiche economiche. Ci spiegano che basterebbero migliori regole per la finanza o più tasse per i ricchi per risolvere il problema. Dovrebbero invece domandarsi come mai la borghesia accettava la repressione finanziaria e aliquote marginali sui redditi del 90% negli anni ’50 e oggi non può più farlo. Non è un problem a di volontà soggettiva ma di profittabilità degli investimenti.

Detto questo, se la borghesia ha potuto rovesciare fortemente i rapporti di forza a partire dagli anni ‘70-‘80 non è stato solo per ragioni oggettive ma anche per le scelte soggettive della direzione del movimento operaio e sindacale. In questo senso il libro passa sopra in modo abbastanza benigno a queste scelte strategiche. Solo analizzandole, però , si può anche capire che cosa fare oggi. Prendiamo l’Italia. Bastarono pochi anni di lotte operaie significative (diciamo dal ‘69 al ‘73) per annichilire la borghesia italiana e porre fine al miracolo economico. La classe operaia strappò conquiste epocali, dalle fabbriche alla società, da llo Statuto dei lavoratori alla scuola, dalla sanità ai diritti civili. Per molti versi, il capitalismo italiano da allora non si è più ripreso, vive in un eterno seguito della cosiddetta marcia dei quarantamila senza indicazioni e senza strategie. Per sconfiggere i lavoratori si è segato le gambe e ora contempla il proprio declino terminale all’ombra dell’ingombrante vicino tedesco. Ma questa sorte era scritta nel destino? Solo nel senso che la direzione del proletariato italiano, eredità della lotta di liberazione, e quindi essenzialmente il gruppo dirigente di PCI e CGIL, non aveva nessuna intenzione di disturbare il manovratore. La CGIL fece di tutto per boicottare l’autunno caldo e il suo frutto organizzativo, i consigli di fabbrica, in cui fu costretta a entrare per la irresistibile pressione operaia. Il PCI fece ogni sforzo per contenere il movimento, proponendo il compromesso storico alla DC quando ancora l’avanzata delle lotte era fragorosa. Non furono fattori macroeconomici o sociologici a salvare il capitalismo italiano dall’autunno caldo ma furono le scelte dei dirigenti operai, che si erano assegnati la missione di aiutare la parte più avanzata (e “democ ratica”) del padronato ad ammodernare la società italiana per resistere, beninteso, alla minaccia golpista e fascista che da allora non ci ha più abbandonato e torna ciclicamente nella propaganda della sinistra riformista. Così Berlinguer utilizzò il golpe di Pinochet come prova che era sconsiderato provare a rovesciare davvero le cose, bisognava accontentarsi di cambiare pezzettino per pezzettino senza impaurire il nemico. Faceva parte di questa visione politica l’aggressione sistematica ai soggetti posti alla propria sinistra, presentati come un miscuglio di infantilismo politico e connivenza col nemico, sino alla provocazione di Lama che si presenta alla “Sapienza ” nel ’78 per imporre l’austerità agli studenti con le mazze del servizio d’ordine del PCI. La sconfitta della sinistra italiana risiede in quelle scelte strategiche, mai rinnegate ma se mai gradualmente rinforzate negli anni ‘80 e ‘90, con lo scioglimento del PCI, nei governi di centrosinistra. Se lo scopo della sinistra è aiutare il padronato a rimodernare il proprio sistema, tra Renzi e Lama o Berlinguer non c’è che un passo, con in mezzo Prodi e Bertinotti, D’Alema e Cofferati.

Se il testo è abbastanza assolutorio sul versante politico, è invece molto acuto nella critica delle visioni della crisi dell’euro. La versione ortodossa è che i paesi deboli dell’UE non hanno tagliato abbastanza la spesa pubblica, per questo la giustissima deregulation dei mercati (finanziari, del lavoro, ecc.) non è bastata alla convergenza tra paesi dell’Euroarea. Si tratta sicuramente di una visione risibile e che è stata totalmente gettata alle ortiche dallo stesso capitale finanziario europeo nelle ore drammatiche della crisi, sia nel 2008 che nel 2011-2012, quando le chiacchiere sull’efficienza dei mercati hanno lasciato il posto a interventi pubblici senza precedenti, per dimensioni, nella storia del capitalismo. Unilaterali risultano però anche molte visioni eterodosse, che pure evidenziano i limiti di costruzione dell’UE ma che spesso riducono gli squilibri tra paesi al tema delle partite correnti mentre i legami passano per molti canali, dai movimenti di capitale alle catene globali del valore. È dunque poco significat ivo cercare una correlazione tra saldi delle partite correnti e della bilancia dei capitali, e per analizzare gli squilibri finanziari globali sono più utili i flussi lordi che quelli netti. Anche l’analisi delle modalità di finanziamento delle imprese va approfondita perché incide sulla fragilità del sistema. Alla fine la sintesi politica delle analisi eterodosse della crisi dell’euro sono sintetizzabili nel classico schema riformista: noi siamo più bravi dei padroni a gestire il loro sistema e se solo ci ascoltassero, tutti se ne gioverebbero.

Al cuore della crisi dell’euro c’è dunque la macchina produttiva tedesca, che si è ristrutturata dalla fine della guerra fredda riarticolando il processo produttivo soprattutto verso est. Si tratta di un meccanismo che va analizzato nel suo complesso e che le statistiche nazionali impediscono di comprendere appieno. Ad esempio, che senso ha parlare di produttività tedesca quando le merci tedesche sono prodotte in stabilimenti posti in dieci paesi differenti? Alla fine, le statistiche vengono usate semplicemente per scopi politici, abbattute come clave contro i paesi non core dell’Eurozona come prova della loro ignavia. La ristrutturazione dell’apparato produttivo tedesco è la causa principale della desertificazione dell’industria di questi paesi, nella sua strategia di risalire la catena del valore, vendendo merci di maggiore qualità alle classi medie dei paesi emergenti, in primis cinesi. La Cina dal canto suo è orientata a completare la gigantesca opera di occupazione delle vie logistiche, spostando progressivamente il focus della crescita sulla domanda interna. Compra aziende strategiche, predispone catene logistiche, aumenta gli investimenti diretti in Europa. Di nuovo, ridurre, a fronte di questo scenario, l’opzione politica a uscire dall’euro per svalutare è sicuramente farsesco.

Giusta dunque l’analisi critica di questi aspetti del più famoso libro di Bagnai sull’euro, troppo focalizzato sul tema bilancia commerciale, anche se in effetti le proposte con cui accompagna la proposta di uscita dall’euro sono quelle classiche dei keynesiani moderati. L’analisi che gli autori propongono sull’intervento dell’autorità monetaria nel dopoguerra italiano è del tutto condivisibile. Subito dopo la guerra, la borghesia italiana si bevve le favole liberiste e deflazioniste di Einaudi e aspettava il boom spontaneo dei mercati. Fu salvata dal collasso dal piano Marshall che gettò nella pattumiera il disegno “spontaneista” della classe d irigente italiana. Negli anni ‘50 la Banca d’Italia difendeva i margini di profitto nelle condizioni date (crescita economica, cambi fissi). Continuò a farlo in condizioni via via più complesse negli anni ‘60 (con i governi di centrosinistra), sino agli anni ‘70 (lotte operaie, shock petrolifero, rottura di Bretton Woods) e sino poi allo SME e alla disinflazione negli anni ‘80. Euro o non euro, il senso rimane quello: la politica monetaria serve a difendere la competitività delle imprese. In questo senso il tema non è dunque la sovranità monetaria (anche se è schematico affermare, come fanno gli autori, che la sovranità monetaria non c’è mai stata). Il tema è la natura di classe dello stato da cui derivano gli obiettivi assegnati ai policy-maker.

Per inciso, tra il dire e il fare c’è di mezzo il blaterare, e Bagnai è finito a fare il deputato leghista lasciando i sogni di gloria dell’uscita dall’euro e di riforme keynesiane al suo alter ego accademico. Ma incoerenze soggettive a parte, il testo osserva più volte giustamente che al giorno d’oggi nell’Euroarea il keynesismo classico non funzionerebbe come fattore di riequilibrio economico perché aumentare la domanda aggregata dei paesi forti, Germania in testa, implicherebbe soprattutto accrescere la produzione tedesca o al massimo polacca, non quella greca o portoghese, e anche accrescendo i salari greci aumenterebbe soprattutto la produzione tedesca, dato che comunque i greci dovrebbero comprare macchine e beni capitali dalla Germania. Il modello tedesco, insomma, funziona per la core Europe ma svuota l’industria periferica. Ne deriva deflazione salariale, squilibrio della bilancia commerciale, sviluppo del credito intra-europeo.

Che fare?

Il progetto tedesco è egemonizzare le catene produttive continentali imponendo bassi salari e bilancio in pareggio. Sebbene di fronte alla crisi, la Merkel e Draghi abbiano cambiato rotta (“whateker it takes”), nulla di sostanziale è mutat o se non in direzione dell’austerity, vedasi il bilancio in pareggio nella Costituzione. Anche per effetto della Brexit, la soluzione istituzionale proposta è dunque Europa a due velocità, un’Unione in cui la Germania comanda, la Francia fa finta di dire la sua e gli altri obbediscono. L’establishment europeo non ha nessuna intenzione di cambiare rotta, ma anche se si aprisse a nuove strade, per le ragioni spiegate, un generico keynesismo non risolverebbe nulla, ci vorrebbe “una politica di socializzazione dell’economia”. E qui veniamo agli aspetti di proposta politica del libro.

Se si dovesse analizzare ogni singolo accenno di proposta politica, ne uscirebbe un quadro confuso perché spesso le analisi e le proposte si contraddicono. Ciò deriva dal fatto che gli autori si rendon o conto che la posizione classica della socialdemocrazia europea dell’Europa sociale è clamorosamente inattuale, solo che non hanno gli strumenti politici per sostituirla. Troviamo dunque critiche alle semplicistiche proposte keynesiane (“ciò di cui c’è bisogno non è affatto un “ritorno al keynesismo”...tanto meno una spesa pubb lica generica”), accanto a proposte di accelerazione delle riforme (“superare gli squilibr i richiederebbe una autentica unione bancaria”), accanto a proposte fortemente radicali, come i piani di impiego pubblico di ultima istanza di stampo minskyano, con accenni tardo-berlingueriani all’austerità di vita (“una vita più sobria di tutte e tutti”).

Da dove nasce questa confusione? Il punto chiave è il rapporto tra lotte parziali e rottura rivoluzionaria. Il capitalismo ha delle leggi di funzionamento elastiche ma comunque pervasive (e in questo senso il libro cita l’analisi di Kalecki dei limiti del capitalismo misto). Entrare nella stanza dei bottoni non cambia queste leggi. E sin qui siamo d’accordo, e dunque “occorre un altro modello di economia e società”. Il punto è come cominciare a sviluppare la lotta per questo nuovo modello? Si parla di riforme strutturali o di New Deal ma il punto è politico. Che cosa dovrebbe fare un governo socialista per evitare di fare la fine di Allende, schiacciato con i cannoni, ma anche di Mitterand, schiacciato da uno sciopero dei capitali, o di Tsipras, arresosi al rifiuto della BCE di aiutare le banche greche? Le riforme vere, ossia redistributive, infastidiscono il padronato sia aumentandone i costi, e dunque riducendo i profitti presenti, sia aumentando la fiducia dei lavoratori in se stessi, e dunque riducendo i profitti futuri. La borghesia deciderà quale tattica usa re contro il governo in base alla situazione concreta, ma agirà e con forza. Il primo punto da comprendere in questa analisi è dunque il ruolo dello stato. Il colore del governo è irrilevante per stabilire la natura di classe di uno stato. La vittoria di Allende, di Papandreu padre e di tutti gli altri governi di partiti operai che hanno vinto le elezioni nella storia con un programma radicale non ha mutato i rapporti di produzione, ma ha solo segnalato la volontà dei lavoratori di entrare nella scena politica. Un governo socialista è sempre fuori luogo nel capitalismo, un usurpatore visto male persino quando a guidarlo sono personaggi moderati, figuriamoci quando sono più radicali. Questo è un aspetto che il libro non approfondisce con ciò risultando in ampia compagnia. È questa ad esempio anche la principale ambiguità delle propost e dei settori cosiddetti “sovranisti” di sinistra, che confondono intonazione della politica economica con potere sociale. La borghesia dominava lo stato italiano quando c’era l’IRI come ora, e se le aliquote di tassazione sui ricchi erano elevate era per ragioni storiche alquanto irripetibili non perché c’era la lira. Nel capitalismo la sovranità appartiene alla classe borghese, che la esercita con le modalità che ritiene più consone tempo per tempo.

Che cosa dovrebbe fare allora un governo operaio consapevole di essere in territorio nemico? Mobilitare la propria base. Costruire strutture di contropotere (dai comitati di utenti dei servizi pubblici a comitati di lavoratori nelle aziende, coordinamenti nei luoghi di studio, ecc.) che affianchino e inizino a controllare l’apparato statale borghese senza nessuna confusione con esso. Peraltro questa è l’esperienza di tutti i movimenti di lotta che si danno nella storia. L’autunno caldo ha creato i consigli di fabbrica e strutture studentesche, cellule embrionali di uno stato operaio, ma ingabbiate dalla direzione riformista del movimento e poi emarginate. Quanto al programma, al di là della singola proposta, la dinamica centrale è la transizione. L’idea è di elaborare una strategia per la creazione di un programma che superi la frattura tra rivendicazioni minime e obiettivo finale. Il prodotto più compiuto di questa elaborazione teorica è Il programma di transizione di Trotskij2. La logica è di proporre una serie di rivendicazioni attuabili singolarmente in un contesto capitalistico ma che, considerate nel loro insieme, sono in grado di spingere la società in una direzione alternativa, ponendo le basi per una trasformazione radicale. La capacità di rottura di una singola riforma non si può giudicare in astratto. L a scala mobile o la riduzione dell’orario di lavoro o la scuola pubblica di massa sono passi importanti ma solo all’interno di un programma di progressiva rottura del sistema. Lasciate a se stesse, le riforme irritano la borghesia senza toglierle le armi per affossarle. Da qui la necessità di un p rogramma complessivo difeso da strutture di massa mobiliate dalle organizzazioni dei lavoratori.

Tutto questo discorso ci serve per capire anche che cosa significa uscire dall’euro. Il testo, ad esempio, osserva che uscire dall’euro farebbe crollare le banche del paese che esce. Sarebbe un problema? Allo stesso tempo gli autori propongono una sorta di New Deal (ovviamente da finanziare a debito). È una proposta positiva? Non si può rispondere a queste domande al di fuori della logica di un governo di transizione. Ogni aspetto andrebbe visto alla luce delle esigenze di una rottura progressiva con le compatibilità del sistem a. Le banche crollerebbero? Certo, andrebbero dunque nazionalizzate sotto il controllo operaio. Occorre un programma cospicuo di investimenti pubblici? Sicuramente: è da finanziarsi attraverso il default sul debito pubblico e l’espropriazione della grande rendita finanziaria. Ogni passo conduce al successivo nella logica della transizione. Il default sul debito pubblico impone la socializzazione del sistema finanziario, che comporta controlli sui movimenti dei capitali, che induce il tema di chi investe in questa economia e così via. La logica della transizione conduce da una riforma per quanto minimale alla rottura più completa, superando la dicotomia di gestione dell’esistente e chiacchiere sull’avvenire.

L’ultimo aspetto che deriva da questo punto è quello della scala dell’intervento. Laddove i sovranisti esaltano la necessità della dimensione n azionale, unica foriera di pace e di progresso, gli autori insistono sulla necessità di muoversi su sca la europea. Dunque, europeisti o sovranisti? La risposta deriva dalle due considerazioni che abbiamo mosso sopra: la natura di classe dello stato e la necessità di un programma di transizione. Senza una dinamica di transizione, non c’è nessuna sovranità possibile. Non è l’euro in quanto tale ch e condanna i lavoratori alla fame, fanno la fame anche sotto molti altri segni monetari. Quanto a dove situare la rottura, che la lotta nasca in ambito nazionale è abbastanza ovvio, ma questo è solo l’inizio del percorso. La rottura con il capitalismo a livello nazionale è un segnale dell’inizio della battaglia, non certo la sua conclusione. Il governo di transizione metterebbe al primo posto la necessità di allargare la lotta a livello continentale e poi mondiale. Il socialismo in un paese solo era una utopia reazionaria negli anni ’20, non a caso l’idea sarebbe stata considerata assurda da qualunque marxista prima che le esigenze della burocrazia sovietica spinsero Stalin a proporla. Dopo un secolo sarebbe una proposta ancora più ridicola e futile. Un governo socialista in un paese europeo provocherebbe un’ondata di entusiasmo in tutto il continente. Si porrebbe immediatamente l’esigenza di una rottura a livello internazionale dei rapporti di produzione borghesi. È inutile dire che in questa transizione, l’euro, la BCE, i trattati dell’Unione e tutto il resto verrebbero superati e liquidati ma nella logica di una transizione complessiva. Bisogna uscire dall’euro, dunque? Certo, ma come parte di progetto di rottura del capitalismo, senza il quale, l’uscita dall’euro più che dannosa è semplicemente impensabile. Occorre partecipare dunque alla lotta per liquidare l’euro ma da rivoluzionari, non pensando a riconquistare una fantomatica sovranità nazionale. È possibile in questa lotta fare conquiste all’interno dell’Unione Europea? Non è escluso, ma ciò non significa illudersi che si possano mantenere senza spezzare l’involucro capitalistico delle istituzioni europee. In definitiva, qual è allora “la vera natura della crisi europea”? Il capitalismo.


Note
1 Ad es., vedi: Luci e ombre de La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, di Domenico Moro (https://xepel.files.wordpress.com/2018/03/la-gabbia-dell_euro.pdf).
2 Il testo è stato ripubblicato in italiano a cura della AC Editoriale (cfr la presentazione del libro: https://old.marxismo.net/libri/teoria-marxista/libri/il-programma-di-transizione-di-lev-trotskij ). Sul tema vedi anche: Quel che il presente sta dicendo di voi, commenti a margine del libro del compagno Ferrero.

Comments

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Giordano Cassioli
Wednesday, 12 June 2019 18:09
Verso la fine del miracolo economico? Ci si riferisce ai primi anni '80? Perché ancora l'Italia era leader proprio nel settore tecnologico e in altri ad alto valore aggiunto. Ancora nel '92 si dimostrò quanto fossero stupidi i ripensamenti di orientamento austeritario di Ciampi, le cui decisioni furono un'autentica catastrofe e dimostrarono quanto certi timori fossero, non solo infondati, ma forieri di politiche autodistruttive. Sapete che subito dopo l'attacco devastante di Soros l'economia italiana ricominciò a correre per qualche anno? Con la lira a pezzi? La mazzata fu assestata al PIL e avrebbe avuto conseguenze che, per il combinato disposto con il divorzio tra Bankitalia e Tesoro in aggiunta all'ubriacatura privatistica (Draghi, Prodi, D'Alema, oltre a Berlusca) paghiamo ancora oggi.
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