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Nadia Urbinati, “Utopia Europa

di Alessandro Visalli

medieval crusadersUn altro libro di occasione, nel quale un’intellettuale di fama si presta alla difesa di ufficio della causa europea in vista delle elezioni. Non servirà a fermare la Lega, ma forse questo alzare gli stendardi compatta l’esercito un poco attempato e certamente molto demoralizzato della sinistra.

A questo fine il testo ripercorre nella prima parte, la più interessante, la storia della lunga costruzione europea, mettendo in evidenza la fonte inaspettata (per una sinistra che ormai ha dimenticato tutto) delle sue radici, ma nella seconda si mette la cotta di maglia e va alla guerra.

Come capita a chi fa il suo mestiere, professoressa di teoria politica alla Columbia University, tutta la ricostruzione si muove sulle nuvole del pensiero, non tocca il volgare terreno degli interessi, tanto meno geopolitici. Quindi può dire, entro le regole della sua disciplina, che l’Europa è il prodotto delle idee degli “illuministi” e dei “cattolici” e che queste si muovono attraverso il protagonismo dei paesi sconfitti (e dunque, necessariamente, con l’autorizzazione dei vincitori, che sarebbe altrimenti curioso il progetto più ambizioso della storia europea nasca da chi ha meno potere e meno sovranità). Sono due i piani che propone: la creazione di una polis pacifica e democratica, e il rispetto delle sfere di influenza. Ma l’ordine è palesemente invertito, il fatto rilevante del primo dopoguerra è evidentemente la divisione dell’Europa sconfitta e ridimensionata in due sfere di influenza nette, quella americana e quella sovietica. Il progetto di una “polis” pacifica (ovvero disarmata e subalterna) è l’ideologia di copertura e insieme la necessità pratica del progetto della parte americana[1], ovvero parte della tradizionale politica dell’indirect rule anglosassone e strumento della riduzione dello sforzo e del costo di protezione e di controllo. Lo dice, del resto, anche la nostra politologa: “il progetto nacque anche in funzione antisovietica” (solo che “anche” è di troppo).

Certo non è del tutto infondato che l’idea di un’unificazione europea fosse più antica, e radicata in utopie settecentesche, poi rialzata negli anni venti (anche se non solo da intellettuali antifascisti), e poi tanti altri, l’elenco è lungo. E, se ci si sposta agli anni trenta, coinvolge anche gli stessi nazisti (ma questo è politicamente scorretto e meglio non insistervi).

Come sia, sulla base di una paginetta di esempi alla fine la conclusione è che “le teorie e le culture politiche alla base dell’integrazione europea furono essenzialmente due: una secolare e illuminista a cui si ispirerà, arricchendola con il pensiero socialista, Altiero Spinelli”. L’altra tradizione fu quella cristiana e cattolica, “con una dichiarata funzione antistatalista (nel senso di contenimento del potere della sovranità statale su tutti gli ambiti della vita delle persone e della società)”. In conseguenza la prima tradizione è segnata da un’etica individualista dei diritti civili, l’altra da un’etica della responsabilità della persona e della sussidiarietà come progetto di soccorso e di cura che prescinde dallo stato, sospettato di eccessivo laicismo.

Non stupisce che quindi siano le Democrazie Cristiane ad essere centrali nel primo processo di costruzione europea (ma anche nel successivo): Schuman, Adenauer, De Gasperi. Il punto era chiaro e politicamente rilevante: “la sussidiarietà (su cui si regge la politica sociale dell’Unione Europea) piuttosto che la redistribuzione via welfare-state è il perno per comprendere il contributo cattolico al progetto europeo. La fonte è l’enciclica Quadragesimo Anno del 1931, con la sua visione antistatalistica della politica e alternativa alla programmazione del benessere sociale. La requisitoria si svolse direttamente contro la “Statolatria”, ovvero la preminenza dello Stato (laico) nella vita della società, in favore di un’idea di aiuto sociale basata sulla cooperazione solidale dei “vicini”, al “sussidio” delle associazioni e dei territori.

Questo principio prenderà con Delors il titolo di “sussidiarietà”, il cui scopo è la sottrazione di competenze al livello statuale quando le medesime cose possono essere svolte per “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”. Ma la sussidiarietà funziona anche in un’altra direzione: consente di fare leva sui livelli di governo esistenti per svolgere azioni dirette dal centro tramite regolamenti, alla cui guardia è stata posta la Corte di Giustizia Europea. Dunque la sussidiarietà è un’arma multiuso, disperde il potere “maggioritario” dello Stato sia verso l’alto, sia verso il basso e con questo contribuisce in modo decisivo a indebolire gli Stati Nazionali riportando l’equilibrio dei poteri verso assetti in qualche modo premoderni, comunque inediti, e soprattutto, ciò che più conta, lontani dalle arene nelle quali i corpi intermedi di massa possono agire con efficacia. Si agisce molto meglio sulla governance multilivello europeo con organizzazioni agili, estese a livello multinazionale, ben finanziate, radicate in gruppi di pressione apolitici e capaci di attraversare diagonalmente le varie coalizioni, e soprattutto ben determinate e sicure di cosa vogliono. I vecchi partiti politici, in particolare popolari, sono corpaccioni inadatti.

Se la sussidiarietà, incardinata ad ogni livello, è l’essenziale contributo cattolico, quello illuminista, o meglio kantiano, è l’ostilità al “volontarismo” (ovvero alla formazione ed espressione della volontà politica) in favore di un ‘governo tramite le regole’, e, soprattutto, tramite i legami commerciali (ovvero il lavoro di lobby), e quindi le “condizioni indirette di legittimità”.

La Urbinati sintetizza tutto ciò in modo fulminante: in questo modo, sotto la costrizione del diritto, avviene che “anche chi non ‘vuole’ opererà come se volesse, questa è la logica dell’Unione Europea” (p.29). Mi pare che ce ne siamo ben accorti nel caso della Grecia.

Ecco che dalla combinazione delle due ispirazioni “la Comunità Europea diventa un ampio sistema di rinforzo regolativo, di monitoraggio, di controllo: affinché i trattati siano rispettati, attuati, nel modo giusto. Un ordine dove deperisce l’elemento politico, mentre si espande quello giuridico”.

Non può sfuggire, da questa descrizione, il nesso interno fortissimo e necessario tra il fatto più importante della seconda metà del XX secolo, la divisione in blocchi, e l’incongrua presenza in occidente, in Francia, in Italia e all’inizio anche in Germania di forti partiti di ispirazione socialista e/o comunista il cui “elemento politico” si doveva quindi assolutamente ingabbiare nella camicia giuridica. È questa la “volontà” che la logica dell’Unione Europea intende bloccare. È, in effetti, ancora oggi questa che blocca.

In sintesi, l’oggetto da moderare è sempre lo Stato Sovrano, o meglio gli Stati Sovrani che volessero deviare dalle regole, ad esempio per rispondere in una crisi alle esigenze dei propri cittadini e delle proprie maggioranze politiche democratiche. Una caratteristica che, in momenti di crisi, appunto scivola in direzione che la stessa Urbinati riconosce essere “imperiale e autocratica”.

Su questo albero storto, sin dagli anni quaranta, e prima nelle teorizzazioni di Hayek[2], tentano di innestarsi le ipotesi di sistema autoregolato neoliberali o ordoliberali, le quali non sono -ma su questo la nostra glissa- neppure estranee alle idee che entrano[3] nel Manifesto di Ventotene. La penetrazione ovviamente è lenta, e contrastata, e passa soprattutto per quelle istituzioni nate per non essere autorità sovrane (democratiche) ma per essere sussidiarie (ovvero per controllare) gli Stati membri, ovvero per la Corte di Giustizia Europea, su cui dirà bene Scharpf[4], e la BCE. Entità che hanno progressivamente esteso il loro raggio di azione direttamente nella limitazione del potere degli Stati ed in favore degli input di mercato.

Si è finiti al termine di questo percorso in quello che la stessa autrice chiama un regime “dispotico” (che però qualifica come “illuminato”).

Il centro emotivo del libro è un’appassionata pagina, la 37, nella quale partendo dall’importanza del Trattato di Roma[5] dopo avere avuto il coraggio di scrivere che “sono stati i confini degli Stati-nazione a scatenare i drammi della Prima e Seconda Guerra Mondiale e il dramma dei totalitarismi” (cosa vera e completamente vuota al contempo, e quindi falsa nei termini allusi[6]), falsifica il contenuto del Trattato di Roma (che è geopolitico ed economico, in relazione all’estensione del capitalismo monopolistico alla scala continentale) dichiarando che “la grande idea che sprigionava dal Trattato è che fosse possibile eliminare lo status di straniero in Europa”. Dopo aver scelto questa linea culturalista e completamente sovrastrutturale, Nadia Urbinati può dire che:

“il Trattato dà corpo per la prima volta all’utopia che due secoli prima Kant aveva tratteggiato nel suo saggio sulla pace perpetua. Finalmente dopo la carneficina della guerra si ebbero le condizioni per realizzarla: la nascita dello Stato di diritto con la priorità assegnata ai diritti umani delle singole persone; la volontà dei vinti di darsi regole e un diritto comune, uno spazio giuridico nel quale le singole persone potessero circolare liberamente con la consapevolezza – per riprendere Kant – che tutti gli umani sono ospiti su questa terra. Noi siamo persone non costrette dal luogo dove per caso siamo nate, siamo ospiti su questa Terra, e abbiamo le possibilità e l’ingegno di adattarci a tutti gli habitat, contrariamente agli animali. E questa nostra capacità si manifesta nel ‘mondo’ tutto: rende il diritto di movimento non un optional ma una regola per una condizione umana e naturale. Proprio perché nessuno è l’assoluto possessore del Paese nel quale è nato e vive, l’idea che il territorio di uno Stato sia l’equivalente della nostra proprietà privata (per cui, come dicono gli inglesi, ciascuno è padrone del proprio castello) è indicativa di barbarie, di una visione patrimoniale che era decaduta insieme ai sovrani dell’ancien regime. Lo stato di diritto separa la fattualità del possesso dalla proprietà riconosciuta per diritto. Anche se gli estensori arrivarono al Trattato per ragioni economiche – la circolazione di manodopera a basso costo per la ricostruzione – alla base c’è una visione universalista, che aveva il diritto delle persone e non la fattualità della loro casuale nazionalità al centro. Fu proprio Kant, e prima di lui Montesquieu a intuire il valore dello scambio, delle cose e delle idee: è la condizione per la cooperazione dei popoli”.

In questo vero e proprio manifesto liberale[7], interamente astratto, l’individualismo metodologico conduce a “non senso” come “noi siamo persone non costrette nel luogo dove per caso siamo nate”. È palese che “noi” siamo quel che siamo perché siamo nati; e nessuno può nascere, per ora, in nessun luogo. Chiunque nasce da un padre ed una madre, in una famiglia, in un agglomerato, una regione, una nazione, un continente. Nessuno può crescere senza essere socializzato, e socializzarsi significa propriamente essere inserito in un’istituzione sociale, comprendere il comune di questa e connettersi in una solidarietà situata e concreta[8]. Il punto di vista individualista, incorporato come destino morale dall’Urbinati, dissolve tutto ciò e lascia ognuno da solo, rigettando i propri vincoli e quindi obblighi sociali (in primis, non si dimentichi, quelli di solidarietà concreta incarnati nelle strutture statuali e nel sistema di tassazione). È palese, peraltro, che la possibilità e l’ingegno di abbandonare i propri obblighi e trasferirsi non è di tutti, ma solo di chi dispone delle opportune risorse, lasciando gli altri al loro destino. Si tratta di una posizione da “free rider” e una concezione direi “turistica” della vita.

Nella seconda parte, quando cita il motto inglese, avviene infatti una magia: dal “noi siamo persone” (che in questo contesto significa siamo soli e senza radici e doveri di solidarietà concreta) si passa alla strana ed incongrua idea che si possa possedere individualmente il paese in cui si abita. In questo modo la confutazione viene facile, ma si tratta di fantoccini. Il “diritto delle persone”, cui si riferisce, con gli opportuni esempi liberali, si deve incorniciare nel “dovere” di queste e, soprattutto, nel diritto e nella volontà comune, costituiti attraverso le forme della partecipazione alla ‘casa’. Chi da questa vuol fuggire, per non sostenere i figli minori, dovrebbe avere da decenza almeno di non ammantarsi di belle parole.

Del resto ovunque saltano all'occhio gli esempi che manifestano l'inconsapevole punto di vista borghese (e da expat) dal quale complessivamente l’autrice guarda il fenomeno europeo. Ciò che più vede come valore è la libertà di muoversi attraverso le frontiere liberamente per studiare, fare cultura, fare ricerca. Con formule che escono dal cuore, dichiara essere, questa, “la natura stessa dell'Europa” (p.55), e, non senza i rituali momenti autorazzisti (p.65), e le consuete dichiarazioni di impotenza dello Stato di fronte alle multinazionali (p.87) finisce nella contraddizione di dire reiteratamente che controllare le frontiere fatalmente porrebbe a fine la libertà di movimenti anche per gli europei stessi (dato che sarebbe necessario mostrare un documento, p.112 e 122) per poi, subito dopo, dire che “il governo dei confini deve essere una prerogativa europea”, distinguendo tra gli asili e gli altri (p.123).

Il vero punto non è che dunque non si possono avere confini, o che non si può negare l'accesso se non si può accogliere in modo degno e coerente con una politica sociale che ponga limiti ai mercati (p.116), ma che questi non li possono avere gli Stati-Nazione, ma solo il superstato europeo.

Comunque nel capitolo sulle sinistre la frizione tra il punto di vista liberale e quello socialista emerge nuovamente in luce, tanto è difficile nasconderlo: riconosce che il socialismo europeo è sempre stato combattuto nel dilemma tra sfera nazionale e internazionale, tra concretezza e utopia. Del resto, come ammette, “il campo dell’azione riformatrice è stato storicamente quello dello Stato nazionale. La sinistra riformista di matrice socialdemocratica ha inteso, in parte idealizzandolo, lo Stato come strumento di redistribuzione e di sostegno a istanze di emancipazione sociale e di formazione dei cittadini”. Quindi, e non a caso punto di attacco specifico della struttura sovranazionale, imposta con il fattivo impegno atlantico in una fase di sovranità altamente limitata, per i socialdemocratici “l’elemento di stabilità della popolazione è cruciale”. La mobilità e la facilità di chiamarsi fuori di uomini, merci e capitali, rompe necessariamente la solidarietà e ci depriva delle condizioni materiali per attuare una qualche redistribuzione. Se in risposta si può espatriare nessuno può chiedere solidarietà effettiva (al di là di qualche sentimentale lamento), perché si attiva un meccanismo inibente di tipo ricattatorio. Del resto persino John Rawls, liberale ma welfarista, o nei termini proposti “liberale di formazione ma interventista per quanto riguarda le politiche sociali negli Stati Uniti” (notare l’ammissione della contraddizione tra liberalismo ed intervento pubblico), “nella sua ‘Teoria della giustizia’ presuppone una popolazione stabile”. Altrimenti nessuna applicazione dei principi di giustizia, ed in particolare delle regole redistributive, sarebbero possibili.

Ne deriva che “le frontiere sono un problema serio per la sinistra” e sono proprio i neoliberisti che ne sostengono la fine “quelli che guardano alla libera circolazione della manodopera come a uno strumento per abbassare le richieste dei lavoratori, attraverso una concorrenza indiscriminata” (p.41).

Ma ad un certo momento, “quando il progetto di trasformazione socialista a livello nazionale è venuto a decadere”, ovvero quando la sinistra si è piegata al “compromesso” ed ha progressivamente lasciato le sue posizioni, le sinistre si sono “aggrappate” ad un sostituto del “sole dell’avvenire”, ed hanno investito le loro energie utopiche all’Europa. Come dice la Urbinati, “per molti diventa una specie di salvagente ideologico”.

Insomma, si passa al nemico, ma con trasporto ed entusiasmo.

Quindi i comunisti passano all’eurocomunismo (si veda la critica per tempo di Gunder Frank[9]) ed assumono quello che per secoli è stata la bandiera dei cattolici e delle correnti liberali orientate contro lo Stato sovrano come proprio orizzonte: il federalismo. È chiaro, d’altra parte, che “l’eurocomunismo” fu l’altra faccia necessaria del “compromesso storico”; esito del fallimento del tentativo di resistere all’ondata della ristrutturazione capitalistica in corso (anche se fu ‘venduto’, ed ancora l’Urbinati lo fa, come riconoscimento dell’impossibilità di governare da soli), spostando l’attenzione dalla realizzazione del socialismo all’espansione delle libertà politiche antiautoritarie. Il socialismo viene, insomma, abbandonato in favore di un generico progressismo (che, via via si schiaccia sulla posizione liberale, diventandone solo una variante).

La ricostruzione storica, scheletrica e quindi particolarmente di parte (dalla parte del socialismo liberale, con il secondo termine molto preminente sul primo) termina con una rilettura della posizione di Spinelli che evito di commentare[10].

Nella seconda parte del testo, la meno interessante, Urbinati insiste su quello che è il tema per lei fondamentale del progetto europeo: la possibilità di uscire dal paese ed andare dove si vuole. Quello che chiama “un diritto civile fondamentale” (in realtà non ancora implementato se per andare dove si vuole non si hanno le risorse e quindi si ha bisogno della solidarietà[11]), in quanto l’Europa è nata “come progetto di libera interazione” ed “in coerenza con il progetto che Kant si era posto nel 1795”. Sulla base di questa impostazione idealistica (l’Europa nasce su ben più concrete basi, ed anche quelle della libera circolazione solo per i “lavoratori”, allo scopo di ridurre il costo dello stesso per le grandi imprese monopolistiche), si sarebbe passati, con Maastricht, all’annullamento del concetto stesso di ‘emigrazione’. In realtà, ad onta dell’enfasi con la quale si dichiara che l’Europa “voleva essere ed è ancora uno spazio aperto” (come ovvio incompatibile con l’assenza di prestazioni assistenziali uniformi e di trattamento fiscale analogo) la Direttiva 2004/38/Ce che “regola il diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari a soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri”, al suo punto 2) recita “La libera circolazione delle persone costituisce una delle libertà fondamentali nel mercato interno che comprende uno spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata tale libertà secondo le disposizioni del trattato”. Ma le “disposizioni del Trattato” (che traduce l’Acquis di Schengen) sono in realtà un faticoso e contraddittorio compromesso pieno di clausole di salvaguardia (della stessa esistenza dei welfare nazionali). Al punto 10) recita infatti: “Occorre tuttavia evitare che coloro che esercitano il loro diritto di soggiorno diventino un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo iniziale di soggiorno. Pertanto il diritto di soggiorno dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari per un periodo superiore a tre mesi dovrebbe essere subordinato a condizioni.”

Tutto ciò è poi reso operativo dal dispositivo dell’art.7 della Direttiva la cui lettura è molto istruttiva[12].

Insomma, scendendo dalle nuvole dell’ideologia le cose si complicano, e si complica notevolmente la compatibilità (che infatti è diretta contro) tra solidarietà e redistribuzione e libero movimento senza limiti.

Faccio un esempio:

Immaginiamo un paese 1 ed un paese 2, confinanti; il primo ha un reddito pro-capite “a” ed il secondo “5*a” (cinque volte superiore); hanno lo stesso numero di abitanti e quindi il secondo ha un Pil cinque volte superiore, un bilancio dello Stato cinque volte superiore (per semplicità immaginiamo abbiano la stessa esazione fiscale), e quindi finanzia cinque volte di più i suoi ospedali, le sue scuole, i programmi di case popolari, ha strade migliori, servizi urbani migliori, forme di assistenza al reddito e tutela dalla disoccupazione cinque volte più generosi… mettiamo che i confini venissero veramente e del tutto aboliti ed i cittadini di 1 e 2 avessero su entrambi i territori esattamente gli stessi diritti, ma le tasse continuassero ad essere nazionali. Cosa succederebbe? Un comportamento caro alla teoria economica (razionale) direbbe che tutti i disoccupati, i sottoccupati e chiunque avesse un reddito nel paese 1 inferiore al saldo delle prestazioni sociali del paese 2 avrebbe convenienza a trasferirsi lì per fuirne. Diciamo che un terzo della popolazione di 1 si trasferirebbe liberamente in 2. Come effetto in 2 le tasse per finanziare il welfare dovrebbero salire e si dovrebbe avviare un grande programma di opere pubbliche per accogliere la nuova popolazione.

Nel medio periodo questo renderebbe più povero il paese 2 ed avrebbe effetti di difficile valutazione in 1 (lo spopolamento potrebbe indebolire la società locale e rendere più difficile finanziare i servizi a costi fissi, come quelli a rete, la caduta del mercato interno potrebbe innescare una crisi) e quindi renderebbe difficile conservare il consenso alla politica di apertura e renderebbe molto più difficile restare solidali.

Al contrario di quanto ipotizza la Urbinati la libera circolazione, senza freni e senza controllo, favorirebbe, come in effetti fa, la richiusura identitaria e i nazionalismi.

Nel prosieguo la politologa si esercita nella difesa dell’Euro (anche qui ricondotta a ragioni politiche, ovvero al telos della storia), del patto di Stabilità che “nasce per costringere i paesi non virtuosi (come il nostro), afflitti da corruzione endemica[13] e incapacità gestionale, a tenere sotto controllo la loro spesa”, ma di cui sarebbe stato compiuto abuso.

L’autorazzismo, anzi “il circolo dell’autorazzismo[14] è qui all’opera potentemente, identificando con certezza l’autrice alla ‘tribù della sinistra’ (che più di altre ne è infetta, dai tempi della reazione di Berlinguer al fallimento storico della sua prospettiva), per cui non si connette il fatto che, come dice, “tutte le istituzioni liberali sono pensate in funzione della limitazione del potere politico” (p.67), e che l’Europa è “bloccata in questa concezione di ‘duro liberalismo economico’ fondata sulla concorrenza di tutti i settori e a tutti i livelli” (p.69), con la prevalenza strutturale “dell’Europa della forza su quella del diritto” e la conseguente neutralizzazione dell’autogoverno (e con essa della democrazia).

Chiamo “circolo dell’autorazzismo”:

- La denuncia della minorità di una parte del paese (alla quale ovviamente non si pensa di appartenere, in quanto élite).

- Parte di questo stesso movimento, ed a sé necessario, l’autoattribuzione di una differenza implicita. Di una sorta di eroismo di chi riesce a guardare le cose in faccia, si distingue con ciò per la posizione morale del denunciante, dell’intransigente eroe, che magari ha avuto il coraggio di andarsene.

- I due movimenti creano una espulsione, dell’inferiore, come ex parte di sé, quindi come depurazione preliminare.

- E la creazione, contemporanea, dell’altro. Nel quale sono concentrate le negatività e le brutture, tutto ciò che trattiene e lega.

- Se l’altro non è me, allora dovrò trovare il mio luogo, dovrò trovare “ciò che salva”. E lo farò in un altrove radicale, in un luogo che non è coinvolto in nulla di ciò che denuncio, un altrove mitico. Un luogo di eletti, nel quale sarò al termine di una dolorosa purificazione necessaria, accolto (il paradiso del sogno europeo, eletto a tale funzione sin dai tempi dell’eurocomunismo).

- Una volta posto questo potente schema “bene/male”, chi appartiene, e chi no, al luogo eletto è definito. La strada è chiara e tracciata.

- L’eletto si identifica in un “fuori” radicale, ed il sé dell’aspirante come “chi sta fuori”.

- La focalizzazione è sul negativo (espulso all’esterno). Per poter essere positivo (e superiore).

circolo dellautorazzismo 1

Nel seguito, non prima di essersi spesa per i migranti con un curioso argomento egoista (chiudere a loro alla fine significa chiudere anche alla nostra circolazione), ed aver spezzato la rituale, per ogni liberale, lancia in favore di libera circolazione delle merci e dei lavoratori, il testo si concentra sulle trasformazioni in corso delle società europee. Secondo la sua analisi la società si sta destrutturando e tutti i corpi intermedi stanno soffrendo una acuta crisi di legittimità, per cui emergono una versione estrema dei “partiti pigliatutto” nella forma di partiti populisti che sono una “forma estrema di short-terminism”.

Quindi commenta il fenomeno dei gilet gialli (altra dimostrazione di disgregazione partitica e di orizzontalismo della rappresentanza immediata), quindi l’urgente necessità di forme nuove di aggregazione politica.

Che soluzione riesce a immaginare di fronte a questi problemi, correttamente descritti? La solita. Quella che tutti coloro che accettano le premesse date, senza metterle in discussione e considerando di fatto irreversibile la sconfitta e la trasformazione neoliberale avviata negli anni settanta, propongono: se “la sovranità dello stato nazione, che attraverso il welfare state aveva fatto sognare a molti la possibilità di una coesistenza tra capitalismo e democrazia è oggi un ricordo del passato”, allora alla globalizzazione si può solo rispondere alzando il livello delle decisioni sovrane. Ma, a tutta evidenza, decisioni sovrane ma non democratiche. L’esempio portato, a dimostrazione del suo teorema di impossibilità, è quanto di più debole si possa immaginare: lo Stato sarebbe sconfitto perché nessuno può costringere Amazon, Apple, Facebook, … ovvero chi ci vende le cose che consumiamo[15].

Allora, se questo è vero, bisogna necessariamente stare sotto la protezione dell’Europa (p.90) e in questa approntare politiche sociali a livello europeo (peccato che, come lei stesso ha evidenziato nella prima parte è proprio per neutralizzare e rendere impossibili le politiche sociali che è nato il progetto europeo).

Per il resto ribadisce la solita politica di potenza (l’Europa come arma contro il resto del mondo, p.112) e il sogno di una politica sociale che contenga limiti alle prerogative del mercato, ovvero che abroghi praticamente tutti i Trattati, dal 1957 in avanti. Ovviamente bisogna alla fine avere “più Europa” e una “perfetta unione”, nella quale tutto il repertorio delle riforme che la Ue blocca negli stati nazionali sia realizzato e tutto insieme: politiche occupazionali, redistribuzione attraverso tassazione, ecosostenibilità a danno degli interessi delle multinazionali.

Anche qui, come per la requisitoria di Mario Tronti[16] il progetto europeo è alla fine, malgrado tutta la ricostruzione storica della prima parte quel che non è, e non può né vuole essere: un progetto sfortunatamente incompleto capace di andare verso un superstato imperialmente dominante e socialmente avanzato e progressista. Come avevamo scritto le cose non stanno così: il progetto europeo è piuttosto una strana, ma concreta, struttura multiobiettivo egemonizzata sin dall’inizio dalle forze concrete del grande capitale, prima industriale e poi finanziario, europeo e statunitense. Esso viene montato, un pezzo alla volta, a furia di compromessi faticosi, per garantire il dominio di questo sulle forze che gli resistono, quelle popolari in primis. Quindi è colonizzato dalle volontà di potenza imperiali e fatto strumento del dominio dei paesi più forti, ovvero delle coalizioni sociali dirette al controllo esterno e connesse con il capitale capace di proiezione e la sua logica (proteggere i propri investimenti, garantire i crediti, occupare i mercati, acquisire il controllo dei concorrenti). Coalizioni sociali che sono trasversalmente connesse internazionalmente, si pensano con esercizio di falsa coscienza come ‘cosmopolite’, e dominano attraverso una rete di agenti che per questo si costituiscono ovunque in ‘borghesia’ (‘compradora’). Il progetto europeo realmente esistente, che è quanto più lontano si possa immaginare dai sogni della sinistra, alla quale Mario Tronti e Nadia Urbinati dimostrano di appartenere in pieno, non vuole e non può diventare uno Stato, tanto meno sociale, perché se lo facesse dovrebbe assumersi la responsabilità e pagare il prezzo dei costi di protezione. Esso è perfetto in sé e concluso, può al massimo estendere ancora il controllo senza responsabilità. Ovvero, in termini gramsciani il dominio senza direzione.

Come aveva scritto Peter Mair[17]: l’Unione Europea, semplicemente, non è democratica nel senso abituale del termine e non può esserlo, “se potesse essere democratizzata allora non sarebbe necessaria”.

Il sogno resterà sempre tale.


Note
[1] - Il processo di unificazione europeo è dall’inizio, e per decenni, influenzato e in parte diretto dagli USA. La cosa non può apparire strana, e certamente non appare tale ai contemporanei come Monnet o Schuman; gli Stati Uniti emergono dalle due guerre come egemoni incontrastati del campo occidentale. Nulla si può fare contro di loro senza stare con i sovietici. Come descrive questo articolo di Evans-Pritchard peraltro i documenti recentemente declassificati del Dipartimento di Stato mostrano l’entità dell’impegno dietro le quinte dell’intelligence USA; sin dal 1950 il generale Donovan (capo dell’ASS, poi divenuta CIA) si impegnò ad esempio per promuovere un Parlamento Europeo. Nel 1958 un’organizzazione creata dai servizi americani, l’American Commitee for a United Europe, creata nel 1948, fornisce, ad esempio, il 60% dei fondi al Movimento Europeo (la più importante organizzazione federalista europea nel dopoguerra), i suoi leader Robert Schuman, Joseph Retinger, Paul-Henri Spaak, sono stati tutti connessi con questa linea di fondi, protezione ed influenza. Molti finanziamenti venivano dalla Fondazione Ford e Fondazione Rokefeller, molto attive in linea generale nella politica estera e coloniale americana sin dagli anni trenta ed in particolare nello stesso estremo oriente in cui opera Monnet (un’indiretta documentazione di tale ruolo, che non esplicita il ruolo in Europa, nel libro di Easterly “La tirannia degli esperti”). Ancora l’11 giugno 1965 è disponibile un memorandum del Dipartimento di Stato USA in cui viene consigliato al vice Presidente della CEE di procedere di nascosto a implementare un’unione monetaria, agendo per sopprimere il dibattito fino a che, dice, “l’adozione di queste proposte sarebbe diventata praticamente ineludibile”.
[2] - Si veda Friedrich Hayek, “Le condizioni economiche del federalismo tra stati”.
[3] - La relazione tra Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e le fonti in Italia e Germania del pensiero ordoliberale sono descritte a partire dalla stessa voce di uno dei protagonisti del nostro novecento in questo post: “Luigi Einaudi, ‘Il paradosso della concorrenza
[4] - Friz Scharpf, “La doppia asimmetria dell’integrazione europea”, 2009.
[5] - Al quale, come noto, tutte le sinistre con sfumature diverse si opposero denunciandone il carattere “atlantico”, ed intravedendovi non solo la chiarissima impostazione ordoliberale, ben esplicita nella Relazione di presentazione del Governo alla seduta parlamentare di approvazione (cfr. “25 marzo 1957, il Trattato di Roma, parte prima”), quanto la neutralizzazione dei governi, vista come progresso, e soprattutto, come dirà Napolitano, l’arresto delle riforme sociali nei singoli paesi aderenti. Sono le riforme sociali socialiste ad essere, infatti, il bersaglio. Inoltre viene denunciato, da Giolitti, l’effetto di aumentare gli squilibri economici (concentrando capitali e sistemi industriali, come implicitamente chiarito nella Relazione), con danni particolarmente gravi per il sud Italia (per una brevissima stagione, sotto la spinta del centrosinistra, contrastati dal “programma straordinario”). In uno dei passaggi più significativi chiarisce la differenza fondamentale tra una impostazione liberista ed una socialista: Se si vuole sostituire la protezione determinata da dazi doganali e altre barriere, bisogna introdurre nuove strutture che “possano correggere le cause di fondo che hanno reso necessario il ricorso alle barriere doganali”. Il relatore di minoranza, Berti, evidenzia la dissimmetria dei benefici tra aree e gruppi sociali, e quindi l’effetto distributivo del Trattato a vantaggio dei ceti borghesi e delle aree forti, il carattere ostile al blocco sovietico, la natura antidemocratica dei meccanismi messi in essere. Questo Trattato, secondo il giudizio del PCI, insomma “per la sua natura, intacca alle radici le riforme di struttura della società italiana, rinnega lo spirito che è alla base della nostra Costituzione e del nostro Stato; si propone di spezzare le nostre strutture tradizionali democratiche, di favorire un governo sovranazionale dei monopoli fondato sulla discriminazione e sulla lotta contro le masse lavoratrici e i piccoli produttori”.
[6] - E’ vera, ma tautologica, perché se non ci fossero confini, ovvero un unico Stato ed un unico esercito non ci potrebbe essere per definizione una guerra, al più operazioni di “polizia” e, se del caso, guerra civile. E’ falsa perché le cause della guerra non sono l’esistenza delle nazioni (che sono sempre esistite, per lo più senza guerra), ma molto più specificamente gli squilibri di potenza e le tensioni interne causate dal crollo della struttura della prima mondializzazione (gold standard, interconnessione finanziaria con particolare riferimento ai debiti sovrani, liberalismo). Se così non fosse l’umanità sarebbe solo un’unica, immane, ininterrotta guerra fino a che non si fosse arrivati al sogno di Star Trek.
[7] - Il liberalismo è una filosofia-mondo apparentemente molto austera ed economica, deriva conseguenze completamente antistoriche e antropologicamente insostenibili da un insieme molto limitato di postulati direttamente derivati dal mondo vitale della borghesia commerciale e cosmopolita nel quale è stato incubato. Può essere criticato sotto diversi profili, riprendendo Sandel (es. il classico “Il Liberalesimo e i limiti della giustizia”, 1982) sul piano della natura disincarnata del suo concetto di persona, riprendendo Polanyi (“La grande trasformazione”, 1944) evidenziando la sua insostenibilità sociale, sulla linea di Hisrchman (“Le passioni e gli interessi”, 1975) ricostruendo il rapporto con le passioni egoiste (o ‘tristi’), seguendo Mauss (“Saggio sul dono”, 1923 o “La nozione di persona”, 1938) mostrando la natura del rapporto sociale tradizionale, o con Sahlins (“Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana”), allargare lo sguardo. Ma anche con Charles Taylor, “La topografia morale del sé”, 1988, inquadrare la critica dell’io puntiforme lockiano (alla radice del neoliberismo). E quindi rileggere la ricostruzione dello stesso neoliberismo, come nuova ragione del mondo, condotta nel classico libro di Dardot e Laval “La nuova ragione del mondo”.
[8] - Su questo tema praticamente l’intera disciplina antropologica, ma anche molta filosofia morale, ad esempio autori come Charles Taylor, “Radici dell’Io”, 1989, per il quale risolvere il problema di sapere “Chi sono”, vuol dire “comprendere ciò che per noi è di importanza cruciale. Sapere chi sono vuol dire in un certo senso capire dove sono. La mia identità è costituita dagli impegni e dalle identificazioni che costituiscono il quadro o l’orizzonte entro il quale posso cercare di stabilire, caso per caso, che cosa è buono o apprezzabile, che cosa devo fare, che cosa devo avversare o sottoscrivere. In altre parole è l’orizzonte entro il quale mi è possibile assumere una posizione” (p.43). Ogni io è quindi costituito almeno in parte dalle sue autointerpretazioni, che, però non possono essere completamente esplicite e “è tale solo tra gli altri io”, e dunque “non può essere mai descritto senza fare riferimento a quelli che lo circondano”. Una posizione del tutto opposta alla ricerca normativa dell’”io puntiforme” di Locke o Hume.
[9] - Andre Gunder Frank “Riflessioni sulla crisi economica mondiale”, 1978.
[10] - Si può comunque vedere quanto scritto di passaggio in questo post: “Luigi Einaudi, ‘Il paradosso della concorrenza
[11] - Solo per fare un esempio si vedano le recenti restrizioni imposte dalla Germania, con in alcuni casi espulsioni, per i cittadini italiani privi di risorse e lavoro (cfr. “Respingere o riconoscere: italiani in Germania”).
[12] - Art 7: Ciascun cittadino dell'Unione ha il diritto di soggiornare per un periodo superiore a tre mesi nel territorio di un altro Stato membro, a condizione:
a)
di essere lavoratore subordinato o autonomo nello Stato membro ospitante; o
b)
di disporre, per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti, affinché non divenga un onere a carico dell'assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo di soggiorno, e di un'assicurazione malattia che copra tutti i rischi nello Stato membro ospitante; o
c)
di essere iscritto presso un istituto pubblico o privato, riconosciuto o finanziato dallo Stato membro ospitante in base alla sua legislazione o prassi amministrativa, per seguirvi a titolo principale un corso di studi inclusa una formazione professionale,
di disporre di un'assicurazione malattia che copre tutti i rischi nello Stato membro ospitante e di assicurare all'autorità nazionale competente, con una dichiarazione o con altro mezzo di sua scelta equivalente, di disporre, per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti, affinché non divenga un onere a carico dell'assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il suo periodo di soggiorno; o
d)
di essere un familiare che accompagna o raggiunge un cittadino dell'Unione rispondente alle condizioni di cui alle lettere a), b) o c).
  1. Il diritto di soggiorno di cui al paragrafo 1 è esteso ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro quando accompagnino o raggiungano nello Stato membro ospitante il cittadino dell'Unione, purché questi risponda alle condizioni di cui al paragrafo 1, lettere a), b) o c).
  2. Ai sensi del paragrafo 1, lettera a), il cittadino dell'Unione che abbia cessato di essere un lavoratore subordinato o autonomo conserva la qualità di lavoratore subordinato o autonomo nei seguenti casi:
a)
l'interessato è temporaneamente inabile al lavoro a seguito di una malattia o di un infortunio;
b)
l'interessato, trovandosi in stato di disoccupazione involontaria debitamente comprovata dopo aver esercitato un'attività per oltre un anno, si è registrato presso l'ufficio di collocamento competente al fine di trovare un lavoro;
c)
l'interessato, trovandosi in stato di disoccupazione involontaria debitamente comprovata al termine di un contratto di lavoro di durata determinata inferiore ad un anno o venutosi a trovare in tale stato durante i primi dodici mesi, si è registrato presso l'ufficio di collocamento competente al fine di trovare un lavoro. In tal caso, l'interessato conserva la qualità di lavoratore subordinato per un periodo che non può essere inferiore a sei mesi;
d)
l'interessato segue un corso di formazione professionale. Salvo il caso di disoccupazione involontaria, la conservazione della qualità di lavoratore subordinato presuppone che esista un collegamento tra l'attività professionale precedentemente svolta e il corso di formazione seguito.
  1. In deroga al paragrafo 1, lettera d) e al paragrafo 2, soltanto il coniuge, il partner che abbia contratto un'unione registrata prevista all'articolo 2, punto 2, lettera b) e i figli a carico godono del diritto di soggiorno in qualità di familiari di un cittadino dell'Unione che soddisfa le condizioni di cui al paragrafo 1, lettera c). L'articolo 3, paragrafo 2, si applica ai suoi ascendenti diretti e a quelli del coniuge o partner registrato.
[13] - Sempre la solita bufala propagata da razzisti ed autorazzisti (cfr, “Del rimbalzo delle bufale”)
[14] - Si veda “del circolo dell’autorazzismo: la cattura dei deboli nel sogno europeo
[15] - E’ palese che costringere chi per esistere ha bisogno di una autorizzazione a vendere è la cosa più facile del mondo, se non avviene non è perché gli Stati sovrani sono impotenti, ma perché non sono sovrani. Ovvero perché c’è uno Stato veramente sovrano che le protegge. Basta andare in un paese nel quale questo stato non domina (es. Iran, Cina, Russia) per scoprire che non c’è Amazon, non c’è Facebook, o devono rispettare le regole date.
[16] - Si veda, Mario Tronti, “Il popolo perduto”, 2019.
[17] - Peter Mair, “La fine delle democrazia dei partiti”.
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