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L’Italexit: un passo avanti per i lavoratori, o una pericolosa deviazione di percorso?

di Pungolo Rosso

img 20200529 192350 805Sebbene la matrice originaria sia di destra, da anni la prospettiva dell’uscita dell’Italia dall’Unione europea e dall’euro ha conquistato molti militanti e diversi gruppi dell’extra-sinistra. L’adesione ad essa è avvenuta, a seconda dei casi, in nome della sovranità nazionale, della sovranità popolare o della sovranità democratica, tre differenti varianti di una stessa tesi: i lavoratori italiani dall’uscita dall’Ue e dall’euro hanno tutto da guadagnare, niente da perdere. In questa area politica dai confini interni fino a ieri piuttosto labili, la nascita di Italexit, il “partito” di Paragone, ex-direttore della Padania (un nome, una garanzia), ex-deputato dei 5S, estimatore della crociata O. Fallaci (hai detto tutto), ha avuto l’effetto di un detonatore. Alcuni avventurieri si sono precipitati a rotta di collo nel nuovo contenitore: lo impone, dicono, il realismo politico (i sondaggi parlano di 6-8% di voti…), e “sporcarsi le mani” è inevitabile se si vuole “fare politica”, inutile specificare di quale politica si tratti. Altri, Nuova direzione ad esempio, si sono tirati fuori dalla partita di Paragone&Co. perché non ci stanno a sostenere l’Italexit se è “solo una soluzione al problema del rango e della posizione del capitale italiano nel contesto della competizione internazionale, e quindi alla difesa del proprio ruolo sub-imperialista”, magari in stretta combutta con gli Stati Uniti; ci starebbero, invece, se servisse a “superare la condizione di subalternità dei lavoratori” e a “subordinare la logica del mercato (…) alle politiche realmente democratiche” (auguri!). Di altri ancora – Rete dei comunisti, Potere al popolo – si sono quasi perse le tracce, appaiono confusi e indecisi a tutto anche se la retorica nazionalista a sfondo sociale continua a farla da padrona nelle loro fila.

Ed infine c’è chi, come D. Moro, animatore del Laboratorio per il Socialismo del XXI secolo, andando al contrattacco rispetto alla deriva di destra, rivendica l’uscita dall’Ue e dall’euro come l’obiettivo da mettere al centro del programma di fase dei comunisti per far avanzare “gli interessi tattici e strategici della classe lavoratrice” in Italia, e addirittura per avanzare verso il socialismoi. Ci concentriamo qui sulla sua posizione perché, tra tutte, è quella che si sforza di legare strettamente la proposta dell’Italexit alla emancipazione della classe lavoratrice. Questo, almeno nelle intenzioni.

Infatti Moro ci tiene molto a presentare la sua come una schietta prospettiva di classe, comunista, e a demarcarla nettamente dalla galassia nazionalista. Inoltre, è l’autore di un pregevole articolo in cui prova che l’Italia non è né una colonia né una semi-colonia della Germania o della Ue; è un paese centrale e imperialista – una messa a punto importante e quasi isolata tra gli Italexitii, che dovrebbe condurre ad un rigetto dell’ipotesi dell’uscita volontaria dall’Ue e dall’euro. Nonostante ciò, però, resta prigioniero di uno schema concettuale, di una visione strategica e tattica, che porta acqua ad un social-nazionalismo che è stato in passato e rimane un avversario del socialismo. Il socialismo internazionalista, il solo che, da Marx in poi, si conosca come autentico.

 

La “sovranità democratica” del secondo dopoguerra? Un mito.

A questo risultato Moro pensa di poter sfuggire distinguendo la sovranità nazionale dalla sovranità democratica. La quasi totalità degli Italexit sostiene che l’uscita dall’Ue e dall’euro è necessaria per riconquistare la sovranità nazionale perduta. Invece, “ciò davanti a cui ci troviamo non è una perdita della sovranità nazionale, ma una delega di alcune funzioni ad organismi sovranazionali che sono peraltro strettamente controllati dagli esecutivi. La Ue è sostanzialmente un organismo intergovernativo basato sulla competitività economica tra Paesi e imprese, dove contano i rapporti di forza tra gli stati”. Ben detto. Grosso modo, è quanto obiettammo all’eurostoppista Cremaschi ricordandogli che la classe capitalistica italiana è stata protagonista della costruzione dell’Ue fin dagli inizi nel suo proprio interesse, dando ai vertici dei vari organismi europei funzionari del capitale di primo livello, Prodi, Monti, il mammasantissima Draghi, etc. Se “cessione di sovranità” vi è stata, è stata da parte di tutti gli stati, Germania inclusa (negli anni di Draghi alla Bce più volte il tedesco Weidmann è andato in minoranza). Ed è avvenuta per favorire la costruzione di una super-entità capitalistica – Ue/euro – che avesse sul mercato mondiale una forza maggiore di quella dei singoli “capitalismi nazionali” e stati nazionali presi isolatamente, e per la sua stazza quantitativa e la forza della sua moneta potesse fronteggiare meglio di essi l’aggressività della vecchia super-potenza in declino e l’incontenibile esuberanza del giovane colosso cinese. Il capitalismo globale compiuto dei nostri giorni è un’arena di mega-capitali e di stati-giganti. Tanto più lo sarà negli ulteriori svolgimenti della crisi del modo di produzione capitalistico nella quale siamo piombati, la più devastante dell’intera storia del capitalismo.

Sgombrato il campo da questo argomento (la riconquista della sovranità nazionale), qual è, allora, l’argomento chiave avanzato da Moro per porre l’Italexit come un obiettivo fondamentale dei comunisti? È la riconquista della sovranità democratica. Giusta l’art.1 della Costituzione, nota, essa dovrebbe risiedere nel popolo. Ed invece, “grazie ai trattati europei, la sovranità è nelle mani del grande capitale monopolistico e multinazionale a base europea, che la impone grazie agli esecutivi e agli organismi europei che da quelli emanano, molto più di quanto accadrebbe in condizioni “normali”, cioè nelle condizioni ereditate dalla fine del fascismo”. Grazie ai trattati europei? Qui si resta sconcertati. Perché la Costituzione “più bella del mondo” ha tolto fin dal suo primo giorno al “popolo sovrano” il diritto di decidere sulle seguenti materie: la proprietà privata dei mezzi di produzione “riconosciuta e garantita dalla legge” (art. 42) e la libera iniziativa economica privata (art. 41), ovvero i due cardini dell’economia di mercato capitalistica; i trattati internazionali (leggi: le alleanze belliche); le materie “tributarie e di bilancio” (la spesa dello stato, i prelievi fiscali sulle classi proprietarie); i provvedimenti di amnistia e indulto (il trattamento dei detenuti politici) – art. 75; il posto della religione nella società e nelle istituzioni pubbliche, con la ricezione del concordato mussoliniano con la Chiesa, che fa della religione cattolica una sorta di religione di stato – art. 7. Vi sembra poco? Benché dei successivi trattati europei non ci fosse al tempo neppure l’ombra, i confini della “normale” democrazia del capitale erano tracciati in modo inequivocabile, con il determinante apporto del Pci di Togliatti. Supponendo per assurdo che il termine “popolo” stia a indicare il solo “popolo dei lavoratori” (in realtà sta ad indicare l’insieme di tutte le classi della società, per prima e su tutte la classe del capitale), a questo famoso “popolo”, al 1947, di sovrano non era rimasta in testa neppure una corona di cartapesta.

Del resto a quella data, è curioso doverlo ricordare, gli accordi di Bretton Woods e di Yalta avevano già tracciato il nuovo ordine economico e politico internazionale. E in Italia a scandire i tempi e i modi della vita sociale e politica erano, in stretta alleanza tra loro, le truppe statunitensi, insediate indefinitamente sul suolo italiano a preventiva garanzia dell’adesione alla Nato, e il capitale monopolistico made in Italy rafforzatosi, nonostante la sconfitta del fascismo, grazie al fascismo stesso. Ovvero: la Fiat di Agnelli-Valletta, i magnati del siderurgico e del tessile, la Confindustria potente e ferocemente anti-comunista di Costa. Questa fu la morsa che si strinse sulla classe lavoratrice e la costrinse per un ventennio a bassi salari, lunghi orari, emigrazione forzata, all’interno e verso l’estero. Un ventennio in cui alla Fiat bastava essere scoperti con l’Unità in tasca per essere licenziati, e fuori dalle fabbriche del gruppo nulla accadeva che la Fiat non volesse. Sarebbe questa la condizione di normale sovranità democratica per cui batterci, e addirittura da “mettere al centro” di un programma comunista di fase? Uscire dall’Ue per tornare a quegli anni bui che solo l’eruzione delle lotte del biennio ‘68-’69 riuscì, per un tratto, a cancellare?

Ma no, ci si può obiettare: il riferimento, è agli anni ‘45-’47 dei governi di unità nazionale, con dentro anche il Pci. In quel biennio la classe capitalistica italiana dovette accettare un provvisorio compromesso sociale e istituzionale con il movimento operaio organizzato perché la fine del fascismo con cui si era identificata per un ventennio, l’aveva messa in forte difficoltà, anche per la presenza in scena di alcune decine di migliaia di proletari e antifascisti armati. Parliamone, se si vuole. Ma il termine “normalità” non si addice a quel periodo che è stato invece, nell’arco degli ultimi 75 anni, un’eccezione dovuta a un contingente rapporto di forza tra le classi opposte non esageratamente sfavorevole alla classe lavoratrice (sola altra eccezione sono stati gli anni successivi all’insorgenza operaia e studentesca del 1968-’69). Anche se non si può sfuggire al dato storico inconfutabile fissato da uno studioso che non è certo della nostra tendenza: “La Resistenza non fu mai servile nei confronti degli Alleati, ma non può esservi alcun dubbio sulla sua essenziale subordinazione” (P. Ginsborg). Dunque: quella fase non-normale finì con una secca sconfitta da cui nacque, come lunga e nemica “normalità”, il regime democristiano. L’attuale stato miserevole delle forze di classe non può indurci a idealizzare quel momento. Specie se si ambisce a fissare, come Moro dichiara, “una posizione comunista autonoma” dalle forze del capitale, esattamente quella che allora mancò. Sennonché, rilanciando il mito della “sovranità democratica” post-fascista, anche lui, come quelli da cui vuole distinguersi, finisce con il sognare per il futuro il ritorno a un passato che dovremmo sperare che non ritorni, se è vero che il generoso sacrificio dei nuclei più combattivi del proletariato del centro-nord (35.000 morti, 21.000 mutilati, 9.000 deportati) finì disperso nella lunga era di reazionaria normalità democristiana. Tanto per dirne una, proprio in quel frangente storico che Moro tende a idealizzare, il governo costituente a guida Dc-Pci varò quell’amnistia che permise a un’ampia porzione della vecchia nomenclatura fascista di riciclarsi in alcuni gangli vitali della repubblica “nata dalla resistenza”. Tale riflesso condizionato passatista avvicina, ed è una vicinanza scomoda, ai raccontatori di barzellette che presentano l’uscita dall’euro come la sorgente dei grandi miracoli: “Usciamo dall’euro per tornare ad essere un paese normale”iii. Costoro prescindono da un particolare tutt’altro che insignificante: lo sconquasso globale del sistema sociale capitalistico in cui siamo. E mostrano una paurosa insufficienza proprio in quella “analisi concreta della situazione concreta” dello stato attuale del capitalismo globale, e dell’Ue e dell’Italia al suo interno, che gli Italexit amano rimproverare a noi internazionalisti rivoluzionari. Stolti, straparlano di “ritorno alla normalità” alle soglie di un’era di sconvolgimenti senza precedenti!

 

L’Unione europea “in concreto”: cioè dentro il capitalismo globale

Dunque, secondo Moro, nell’Europa della Ue e dell’euro la sovranità sarebbe nelle mani del grande capitale monopolistico “grazie ai trattati europei”… un momento! Sarebbero i suddetti trattati, ad impedire “di far fronte alla crisi [tema A] e soprattutto di rispondere al peggioramento delle condizioni del lavoro salariato, a partire dai suoi settori più deboli quali quelli precari e sottoccupati [tema B]”. Un altro momento! Qui si fa una doppia operazione che porta fuori strada, fuori dalla realtà. Si dà un’esagerata importanza ai trattati rispetto alle immodificabili leggi di funzionamento del capitalismo fino al punto che sarebbero i trattati a dettare queste leggi e a determinare i rapporti di forza tra le classi, non queste/i a conformare quelli (un rovesciamento della realtà ricorrente in tutti gli Italexit). In secondo luogo, si isola l’Ue dal resto del capitalismo globale e della sua evoluzione. Indicativo è il modo in cui Moro riferisce del famigerato documento programmatico della Trilateral, La crisi della democrazia. Dal suo testo si può capire che esso abbia stigmatizzato “l’eccesso di democrazia” nella sola Europa; invece la Trilateral si riferisce all’intero Occidente: Stati Uniti, Europa, Giappone. Altrettanto generale è il rimedio suggerito da Huntington&Co.: la restrizione della democrazia – soprattutto della possibilità dei “cittadini” di condizionare gli eletti per avere la garanzia che saranno coerenti con le promesse fatte, dando soddisfazione ai loro bisogni e alle loro aspettative; il predominio degli esecutivi sui parlamenti; la governabilità ottenuta anche a mezzo di nuove normative anti-sciopero, etc. Questo processo di centralizzazione del potere politico in chiave anti-proletaria è un tratto distintivo dell’evoluzione statuale dell’ultimo mezzo secolo che, lungi dal limitarsi all’Ue, riguarda l’intero Occidente ed anche i nuovi capitalismi emergenti, a cominciare dalla Cina, o riemergenti (la Russia). Non a caso, per limitarci al mondo occidentale, questo processo non si è avviato all’interno del perimetro attuale dell’Ue; si è avviato negli Stati Uniti di Reagan con il licenziamento in tronco degli 11.000 controllori di volo in sciopero e il ricorso all’esercito contro di loro, e nel Regno Unito della Thatcher, il più euro-scettico dei paesi europei, con il pugno di ferro dello stato contro il possente sciopero dei minatori. Le radici di questa evoluzione delle regole e dei modi d’azione degli apparati di governo della società a scala europea ed extra-europea stanno nella sotto-struttura economica: nella crisi di metà anni ‘70, nella lunga fase di caduta del saggio di profitto, nella stringente necessità dei vecchi capitalismi di semplificare la sovrastruttura statuale per confrontarsi con i nuovi capitalismi caratterizzati da meccanismi decisionali rapidi e accentrati. Tutti processi che riguardano la “concreta” totalità del capitalismo globale nel suo insieme, come “unità di molteplici determinazioni”.

Sono cose ripetute di quando in quando pure da alcuni Italexit che poi, però, d’improvviso, perdono per strada questi elementari elementi di analisi quando vengono a presentarci le loro ricette “socialiste” o “progressiste” declinandole sempre al chiuso dei confini nazionali, cioè in modo nazionalista. Nello scritto che stiamo commentando, poi, sorprende che si parli di “grande capitale monopolistico e multinazionale a base europea”, quando non si può non avere presente che negli ultimi 50 anni si è affermato ovunque, dunque anche all’interno e al di sopra dell’Ue, il potere dittatoriale del capitale finanziario, più apolide e, se possibile, dispotico del capitale industriale. Quel capitale finanziario che ha nelle sue mani gli stati anche attraverso i titoli del debito pubblico, che gli Italexit si illudono di poter moltiplicare all’infinito senza alcuna conseguenza politica – ed accade invece l’esatto contrario: più cresce il debito di stato, maggiore è il potere del capitale finanziario, maggiore l’alienazione dello stato a favore dei suoi creditori. È la situazione attuale degli stati dell’Ue e dell’Italia, specie dopo il varo di Recovery Fund, Mes, Sure, etc., una catena di montagne di nuovi debiti accollati alle next generations della classe lavoratrice.

Insomma: pur con le differenze già indicate, anche Moro si rifugia nel mito di un passato molto romanticizzato, un passato che non può tornare, e non guarda in faccia il presente in cui siamo immersi per quello che realmente è. L’aspetto più clamoroso di questa fuga dall’analisi concreta della situazione concreta contemporanea è proprio l’analisi a dir poco monca e scivolosa che si fa dell’Ue. Perché anche in questo scritto l’Ue ci appare nelle sue istituzioni, odiosissime anche per noi; nei suoi odiosissimi trattati (a cominciare dal securitario, razzista accordo di Schengen); nelle sue infinite raccomandazioni anti-proletarie in materia di pensioni, spesa sanitaria, sussidi di disoccupazione, blocco degli aumenti salariali, etc. – tutto vero e denunciato pure da noi che riteniamo l’Ue immodificabile, una istituzione nemica della classe lavoratrice da abbattere insieme con l’apparato di potere del capitalismo nazionale che ad essa è intricato. Il punto è che si guarda alla realtà dei paesi appartenenti all’Ue con due ottiche completamente diverse; quando si rimane nei confini italiani, si colgono oltre la classe capitalistica e il suo stato, anche gli antagonismi sociali, il lavoro salariato, i precari, i sottoccupati, i disabili, etc.; mentre non appena si varca con la mente i confini nazionali, i rapporti sociali evaporano con le rispettive società, e davanti agli occhi restano soltanto gli stati e i capitalisti. E non ci si domanda mai: e i proletari, i salariati, i precari, i sottoccupati, i disabili tedeschi, francesi, olandesi, etc., maschi, femmine o altrimenti diversi, come sono stati trattati dai loro governi e dalle istituzioni europee negli ultimi venti, trenta, quaranta anni?

 

L’Unione europea “in concreto”: ovvero, come se la passa il lavoro salariato in Germania?

Nel testo di Moro non c’è traccia di una questione di così vitale importanza. E allora ci sembra quanto mai opportuno ripercorrere alcuni passaggi storici concreti di quanto è successo in Germania per verificare se per i proletari tedeschi l’internità del loro paese all’Ue sia stata per caso benevola. Limitandoci all’ultimo ventennio, l’era dell’euro, troviamo: l’erosione e la frammentazione della contrattazione collettiva con un crescente numero di imprese uscite dai contratti nazionali e una copertura sindacale quasi insignificante nei settori dei servizi in maggior espansione (alberghiero, ristorazione, comunicazioni, etc.); la moltiplicazione a livello aziendale delle cosiddette “clausole di apertura” (Öffnungsklauseln), peggiorative rispetto ai contratti nazionali. Una crescente flessibilità degli orari di lavoro, con compensazione salariale parziale o nulla, e in molti casi la cancellazione di fatto delle 35 ore strappate a metà anni ‘80; una costante espansione dell’area del lavoro precario e la contemporanea restrizione del lavoro restato tutto sommato garantito; il ricorso sistemico agli appalti e alla creazione da parte delle imprese maggiori, di società figlie coperte da accordi diversi da quelli vigenti nelle società capofila; la diffusione del lavoro interinale e a progetto anche nel cuore dell’industria più sindacalizzata, la metalmeccanica, dove nel 2013 i contratti di questo tipo coinvolgevano più del 30% degli occupati.

E su scala generale, la riduzione di circa 10 punti percentuali della quota-salari rispetto alla quota-profitti, i salari medi reali in flessione, l’imponente allargamento dell’area dei bassi salari (anche sotto i 4 euro l’ora), con quasi l’80% degli 8 milioni di mini-jobber coinvolta – non a caso i sindacati hanno salutato come una loro vittoria l’introduzione, nel gennaio 2015, del salario minimo di 8,50 euro l’ora, salito nel 2020 a 9,35 euro lordi, un livello comunque inferiore a quello di Lussemburgo, Francia, Irlanda, Paesi Bassi, Regno Unito. Con l’introduzione dell’Hartz IV sono stati fusi i due sistemi di sostegno alla disoccupazione (Arbeitslosengeld, Arbeitlosenhilfe) e l’assistenza sociale (Sozialhilfe), con pesanti tagli ai benefici, specie per i disoccupati di lungo periodo e per coloro che in precedenza ricevevano aiuti tramite il Sozialhilfe, l’inasprimento dei requisiti di accesso ai versamenti, la riduzione secca dei periodi di copertura, la moltiplicazione di controlli personali asfissianti (gli assistenti sociali frugano anche nei frigoriferi), l’introduzione di dure sanzioni – “un nuovo sistema attraverso il quale i disoccupati vengono disciplinati e puniti”, sono le parole sincere di Hartz, l’architetto n. 1 di tutto ciò. Le altre leggi ispirate alla benemerita Commissione Hartz (I, II, III) hanno de-regolamentato il lavoro interinale e ristretto la protezione dai licenziamenti.

Quanto poi alla ‘riforma’ del sistema pensionistico, nulla è stato risparmiato ai lavoratori tedeschi: è stata innalzata l’età pensionistica che arriverà nel 2029 a 67 anni (per i nati dopo il 1964), sono stati eliminati i regimi speciali, è stato ristretto l’accesso al godimento delle pensioni di invalidità. Come sorprendersi se in questo contesto il tasso di occupazione delle persone tra i 55 e i 64 anni è passato, in Germania, tra il 2000 e il 2012, dal 37% al 61,5%, un balzo senza pari in Europa? Con una anomalia che dice tutto, a chi vuol capire: in Germania nel 2012, per la prima volta, il numero delle persone attive tra i 60 e 65 anni è stato superiore a quello dei pensionati. Il danno è stato maggiore per le donne, svantaggiate anche nelle fasce di età giovanili dove si sono estesi a macchia d’olio i contratti atipici – le donne se ne ‘accaparrano’ più del 70%, un quasi-monopolio di cui farebbero volentieri a meno. Il che ha portato la stessa Dgb a sottolineare come, se le misure di “modernizzazione” del mercato del lavoro in Germania hanno comportato la relativa tenuta dei livelli occupazionali, hanno però peggiorato di molto il ‘livello qualitativo’ dei lavori (l’Index Gute Arbeit), che si è degradato fino al punto che il pacchetto dei provvedimenti Hartz ha introdotto nella legislazione tedesca gli Ein-Euro-Jobs, i lavoretti da 1 euro l’ora, offerti dalle amministrazioni pubbliche e dalle associazioni come delle buone “opportunità” per rientrare nel mercato del lavoro (vi viene in mente qualcosa di ‘italiano’?). Pure in Germania, quindi, lo spostamento complessivo dei rapporti di forza tra capitale e lavoro salariato è stato, negli ultimi decenni, massiccio. Lo si può misurare dal dimezzamento del tasso di sindacalizzazione, passato dal 36% del 1991 al 18% del 2011, con timidi segnali di ripresa settoriale negli anni successivi, oppure dall’abbattimento della percentuale dei lavoratori coperti da accordi collettivi, tracollata dal 76% del 1998 al 46% all’ovest, e dal 63% al 39% all’est (al 2017).

Insomma il test tedesco, fatto guardando alla condizione della classe del lavoro salariato, non lascia dubbi: le politiche sponsorizzate dall’Ue – attenzione, però: decise dagli esecutivi tedeschi – si sono abbattute con tutta la loro durezza anche sul proletariato tedesco. Ed è indicativo che nel dibattito pubblico innescato nei primi anni duemila dai socialdemocratici di Schroeder e Clement si siano chiamate in causa, oltre le stringenti raccomandazioni dell’Ue (“l’Europa ce lo chiede”), anche quelle dell’Ocse dei primi anni ‘90 particolarmente sanguinarie in materia di tagli alle indennità di disoccupazione (“è la competitività sul mercato mondiale che lo richiede”). Nel che si evidenzia una volta ancora che separare le vicende e le decisioni dell’Ue dal contesto globale in cui l’Ue e i singoli “capitalismi nazionali” europei sono chiamati a competere (poiché non c’è solo una competizione dentro l’Ue), è operare una cattiva astrazione che porta a proposte politiche pericolose proprio per quella autonomia di classe che, nelle intenzioni, si vuole favorire.

 

O nazione e nazionalismo, o classe e internazionalismo: una terza via non c’è.

Per la quasi totalità degli Italexit le politiche europee sono il frutto avvelenato di un “ordoliberismo tedesco” punitivo verso i capitalismi dell’Europa del Sud, e quindi anche verso i lavoratori italiani. Questa presentazione delle politiche europee in chiave nazionalista è mistificante perché:

1) le politiche “neo-liberiste” non hanno nulla di specificamente tedesco. Sono state adottate anche fuori dell’Ue e molto fuori il perimetro occidentale per una necessità del capitale globale (e non solo di quello europeo) di incrementare la sua valorizzazione abbassando, se non abbattendo, il valore della forza-lavoro – chi conosce i dati reali della Cina sa che questa è la tendenza che si sta affermando sul lungo periodo anche lì, conflittualità operaia permettendo, si capisce. È perciò una colossale balla che l’attacco al salario diretto, indiretto e tutto il resto sia un’esclusiva dell’Ue dovuta all’euro e ai trattati – chiedete ad un tale Luttwak che oltre vent’anni fa, in La dittatura del capitalismo, constatava che i salari statunitensi stavano iniziando a “convergere lentamente con quelli del Terzo Mondo”.

2) Con tempi e modalità differenti, le politiche raccomandate dalle istituzioni dell’Ue hanno colpito l’intera classe lavoratrice europea – la loro funzione è anche quella di creare un tessuto normativo comune per lo sfruttamento della forza lavoro, unificando, almeno fino ad un certo punto, il mercato unico anche da questo punto di vista, ciò che crea delle precondizioni oggettive più favorevoli ad una risposta comune dei lavoratori dei 27 stati. Se questa risposta finora è mancata, non è perché sia impossibile, ma per il basso livello di conflittualità operaia e sociale che ha caratterizzato gli ultimi due decenni in pressoché tutti i paesi europei.

3) Il meccanismo centralizzatore/polarizzante dello sviluppo disuguale/combinato che opera tra i capitali e gli stati dell’Ue a favore dei più forti, opera nello stesso tempo anche dentro i singoli paesi. Opera quindi pure in Italia a favore dei capitali e dei territori più attrezzati per la produzione di valore. Negli ultimi vent’anni si è attenuato o allargato il divario tra il Nord e il Sud? Chiedetelo alla Svimez, e vi alluvionerà di prove sull’allargamento della forbice (perché allora non pensare ad una Sudexit?).

4) Non è affatto vero che i trattati europei impongano politiche “neo-liberiste” a senso unico: l’Ue e la Bce, davanti allo scoppio di una crisi di proporzioni incognite, hanno dato corso a piani di spesa straordinari (superiori ai 1.000 miliardi di euro per l’Ue), alla sospensione dei vincoli del Fiscal Compact, e ad una creazione di moneta pressoché illimitata, sia istituzionale che privata. Il 4 giugno il PEPP (Pandemic Emergency Purchase Program) della Bce è stato portato a 1.350 miliardi di euro per acquisti di titoli da effettuare entro giugno 2021. E già si era mossa in questo senso la Bce con Draghi.

5) Le politiche dell’Ue si abbattono con una particolare violenza (leggi: guerre a ripetizione, a bassa o alta intensità, sostegno incondizionato ai regimi anti-operai più efferati) non sui capitalismi del Sud Europa, ma sulle masse sfruttate di Medio Oriente, Africa nera e del Sud del mondo in generale – ecco un’altra cosuccia da cui gli Italexit da nazionalisti e neo-colonialisti quali sono, prescindono.

Moro non intende accodarsi ai portatori (insani) di questa visione e della relativa propaganda nazionalista. Lo ripete più volte. Ma sta di fatto che, posto davanti a due possibili alternative: o una “via di uscita” per i soli lavoratori italiani, o una “via di uscita” comune per i lavoratori di tutta l’Unione europea, la sua scelta cade sulla prima delle alternative, allo stesso modo di tutti gli altri Italexit. Una tale scelta contiene almeno implicitamente la tesi che l’Ue e l’euro sarebbero utili al capitalismo germanico, non a quello italiano, per cui bisognerebbe far leva sull’interesse (nazionale o democratico, cambia ben poco) schiacciato e sacrificato per… avviare la lotta per il socialismo. Altrimenti perché porre l’Italexit come passaggio obbligato? Ma in questa maniera rientra dalla finestra la tesi dell’Italia colonia/semi-colonia scacciata dalla porta. Il che si deve anche alla non sciolta sovrapposizione tra le categorie di nazione e classe. Quando traccia una sua “via d’uscita”, infatti, non è chiaro a cosa Moro si riferisca esattamente: al “far fronte alla crisi” [tema A] oppure al “rispondere al peggioramento delle condizioni del lavoro salariato, a partire dai suoi settori più deboli quali quelli precari e sottoccupati” [tema B]? I due temi, e i relativi obiettivi, non coincidono. Segnano anzi due direzioni opposte: l’una la nazione, la difesa degli interessi nazionali in un fronte interclassista con la massa non proprio filo-operaia dei piccoli accumulatori di capitali scontenti, un fronte nel quale i salariati fanno da portatori d’acqua ai piccoli/medi accumulatori di capitali – è la via sostenuta da “strateghi” tipo Rizzo, ripresa pari pari dalla tradizione togliattiana del blocco con i ceti medi e della “democrazia progressiva”; l’altra la classe, la difesa degli interessi della classe lavoratrice in un fronte di classe, da costruire, con i lavoratori di tutta l’Unione europea. Infatti il soggetto del “far fronte alla crisi” [tema A] non può che essere il capitalismo nazionale, che per Moro e per noi è imperialista; e questo soggetto ha già scelto, d’intesa con l’asse franco-tedesco, per l’inflazione del debito degli stati e la creazione di un debito unitario europeo (proprio quello che secondo i più fessi Italexit non ci sarebbe mai stato), con l’impegno di tornare il prima possibile alle regole del Fiscal Compact. Aiutarlo a “far fronte alla [sua] crisi” non è affar nostro. Ciò che deve preoccuparci è come rispondere al “peggioramento delle condizioni del lavoro salariato”. Questo è il nostro problema. Ed è esattamente in relazione a tale compito che chiediamo: perché mai oggi la battaglia per uscire dall’Ue e dall’euro sarebbe un passaggio obbligato della nostra lotta?

Tra le classi sociali di cui è composta la società italiana, la maggiore agitazione anti-euro e anti-Ue è stata in questi anni nei settori di piccola borghesia accumulativa, i quali però sono lungi dal saper/voler andare fino in fondo. Quindi, con il grande capitale contrario (almeno per il momento) e il magma dei piccoli capitalisti oscillante, l’onere di questa battaglia anti-Ue per l’Italexit spetterebbe per intero sulla classe lavoratrice italiana, che dovrebbe prepararsi ad uno scontro all’ultimo sangue, data la contrarietà della classe dominante, del suo stato e delle istituzioni europee. Poiché non c’è stato negli ultimi 40 anni un solo momento di lotta spontanea della classe operaia italiana contro l’Ue, per avere qualche chance di vincere una simile battaglia, bisognerebbe mettere in piedi una lunga azione di ‘coscientizzazione’ dei lavoratori, che dovrebbe avere al suo centro il seguente messaggio: il primo nemico dei lavoratori italiani non è in Italia, è fuori dall’Italia, è l’Ue, con la sua arma di annientamento euro. Automaticamente, è inutile girarci intorno, la denuncia della classe capitalistica nazionale, quella così ben rappresentata oggi dal nuovo presidente di Confindustria Bonomi, passa in secondo piano – accade così in tutte le varianti dell’Italexit, anche quelle a parole socialisteggianti (come Nuova direzione). Questo, ancora una volta, fa a cazzotti con la definizione dell’Italia come paese imperialista – qualifica corretta, che impone ai comunisti, categoricamente, da sempre, la consegna: il nemico principale è nel nostro paese!

Ecco perché il D. Moro che ricerca una prospettiva di classe, comunista, e l’identifica nell’attuale contingenza con l’Italexit, appare prigioniero di uno schema strategico-tattico che è in stridente contraddizione con alcuni suoi validi convincimenti, a cominciare da quelli sulla natura dell’Ue come organismo di coordinamento tra nazioni e sulla natura imperialista del capitalismo italiano. Infatti se si sostiene, come in altri testi, che l’uscita dall’euro sarebbe positiva perché consentirebbe una “seria politica economica anticiclica”, utili svalutazioni competitive, la fine dell’autonomia della Banca d’Italia, attribuendole il ruolo di prestatore di ultima istanza, etc. – viene da chiedersi: a cosa si mira, alla salvezza e al rilancio del capitalismo nazionale (imperialista) con le mitiche politiche keynesiane, o alla difesa immediata dei lavoratori collocata dentro una prospettiva anti-capitalista, socialista, rivoluzionaria? E se non ci si vuole confondere con i nazionalisti, come mai, in un orizzonte che si vuole di classe, è assente qualsiasi parola d’ordine che valga come appello al proletariato di tutto il continente a lottare insieme contro i fondamenti della costruzione europea? Insomma: o nazione e nazionalismo, o classe e internazionalismo, una terza via non c’è.

 

Il “caso Grecia”, e l’ipotesi di un’uscita obbligata dall’UE

A suo tempo l’eurostoppista Cremaschi (che deve ancora una risposta “approfondita” alle nostre critiche) pensò di poter liquidare la nostra posizione classista raffigurando gli internazionalisti come dei bambocci che stanno, cronometro alla mano, in attesa dell’ora x in cui, è sicuro, tutto salterà in aria in simultanea. Se non ricordiamo male, si offrì di regalarci 1.000 orologi per stare sincronizzati sull’ora decisiva, e non ha mantenuto neppure questa promessa. Anche Moro commette l’errore di rappresentare la posizione internazionalista in modo caricaturale: “chi pensa che il problema è il capitalismo e non l’Ue si condanna alla irrilevanza politica, perché rimane su una posizione astrattamente teorica che non tiene conto dei rapporti economici e politici reali, cioè della situazione concreta. Infatti, oggi il capitalismo europeo ha nella Ue e nell’euro un elemento costitutivo decisivo”.

Che il capitalismo europeo abbia nella Ue e nell’euro un elemento costitutivo decisivo è un dato di fatto talmente evidente da risultare banale. Vorremmo sapere dove e chi lo ha negato, per farci insieme una risata. Così come ci piacerebbe sapere cos’è una posizione “astrattamente teorica” dal momento che il concetto ci è ostico. Ma andiamo al dunque: ciò di cui abbiamo parlato finora è il concreto accodamento di tanti elementi della extra-sinistra italiana alla proposta forgiata qualche decennio fa dalle destre europee più accesamente nazionaliste di un’uscita volontaria dall’Ue (e poi dall’euro) come via per la rinascita delle singole nazioni “oppresse” dalle istituzioni europee, per riconquistare la sovranità nazionale e monetaria perduta – primatista nel tempo e nei contenuti schiettamente reazionari il Front National di Le Pen padre. Abbiamo da svariati anni denunciato questo accodamento e il suo camuffamento “progressista” o “socialista”, ma ci siamo al contempo confrontati con un’altra ipotesi: quella di un’uscita obbligata, forzata, dall’Ue e dall’euro, che abbiamo legato allo sviluppo e alla radicalizzazione della lotta delle classi lavoratrici. Lo abbiamo fatto nel 2014 in relazione al caso greco, quando ancora non c’era stato il clamoroso voltafaccia di Tsipras, ed era ancora in piedi il movimento di lotta proletario e popolare contro la brutale austerity imposta dalla Trojka a nome e nell’interesse degli stessi capitalisti greci. In quella circostanza abbiamo ragionato su una prospettiva strettamente collegata alla “situazione concreta” esistente in Grecia, in un modo tutt’altro che “astrattamente teorico”, questo:

«In assenza – e così è, al momento – di significativi movimenti di lotta nel centro-nord d’Europa, è comprensibile la tentazione che ha preso, ad esempio, i compagni di Antarsya in Grecia, di mettere assieme un obiettivo di lotta sacrosanto da un punto di vista di classe come la cancellazione del debito di stato con la proposta di “uscire dall’Unione europea e dall’euro, e tornare alla dracma svalutandola del 50%“. In una situazione di terribile isolamento, è comprensibile che si cerchino delle soluzioni “particolari”, “greche”, ma resta egualmente sbagliato. Immaginare che i lavoratori e i giovani greci possano venir fuori dagli attuali tormenti imbarcandosi (con salari tagliati del 50 o poco meno percento) dentro una scialuppetta-dracma in oceani in tempesta come quelli d’oggi, e ancor più di domani, è del tutto illusorio. Il nostro compito non è quello di far esplodere l’euro in mille pezzi per metterci al riparo dalle “nostre” vecchie monete che il tempo ha affondato; è quello di lavorare a ricomporre i “mille pezzi” in cui è scomposto oggi il nostro campo, il nostro fronte. E il maggior contributo all’intero movimento di classe in Europa (e fuori) è venuto dalle lotte in Grecia quando hanno saputo sollevare problemi comuni e indicare nemici comuni con l’assedio al proprio parlamento, con la lotta ai propri governi, con la denuncia di massa dei crimini della Trojka e del sistema bancario internazionale, con il rifiuto del Fiscal Compact, con la forte rivendicazione dell’annullamento del debito e l’avvio di un processo di audit di massa, con le risposte militanti al risorgente neo-fascismo e la solidarietà ai lavoratori immigrati aggrediti…

«Se in Grecia o altrove il movimento proletario e popolare diventerà così forte da imporre al governo nazionale misure di politica economica e sociale ritenute incompatibili dai poteri forti che dettano legge in Europa perché antagoniste agli interessi del capitale; e tanto più se in Grecia o altrove il movimento proletario acquisterà tanta forza e tanta autonomia politica da prendere il potere per sé, annullare i diktat europei, decidere misure di emergenza a tutela dei lavoratori, prendere misure coercitive contro le forze borghesi interne, possiamo dare pressoché per certo che tra le misure di ritorsione di Bruxelles e della Bce ci sarebbe la minaccia o la decisione di espulsione dall’euro e dall’Unione, nel tentativo di circoscrivere e stroncare l’effetto-contagio della ribellione proletaria e popolare. Ma una simile cacciata dall’euro, avverrebbe in un contesto di scontro di classe infuocato in cui una tale decisione degli odiati super-poteri europei potrebbe diventare, per il suo segno di classe, un boomerang che si ritorce contro chi l’ha lanciato. E la resistenza ad essa, in Grecia o altrove, lungi dall’avere un segno nazionalista, assumerebbe una chiara valenza internazionalista, sarebbe davvero un’altra storia…».

Non abbiamo nulla da aggiungere a quanto scrivemmo allora se non l’invito a non sparare contro le posizioni internazionaliste, almeno le nostre, senza conoscerle, senza studiarle, come noi facciamo per quelle altrui. Non abbiamo mai detto: “il problema vero è il capitalismo, e non l’Ue”, una simile opposizione sarebbe insensata. Ci siamo, invece, occupati da molto sia dell’Ue che dell’euro. Senza scansare le enormi difficoltà che si dovranno affrontare perché l’internazionalismo classista torni ad essere, come un secolo fa, la linea politica d’azione dell’intero movimento proletario. E le abbiamo inquadrate così:

«I lavoratori di tutti i paesi europei, in misura molto differenziata e al tempo stesso comune, stanno soffrendo dentro l’euro e dentro l’Unione per le politiche anti-proletarie delle istituzioni europee, della Bce e del Fmi (la giustamente stramaledetta Trojka). E soffrirebbero altrettanto nel caso in cui avessero successo le prospettive di uscita volontaria dall’euro di Anguita&C., della Rete euro-afro-mediterranea, della Le Pen o di Salvini/Grillo.

«L’alternativa tra “morire per l’euro” o “tutto pur di sfasciare l’euro” è un’alternativa tra due soluzioni entrambe capitalistiche, entrambe fondate sullo schiacciamento dei/delle proletari/e di tutti i paesi europei, e a maggior ragione di quelli dei paesi extra-europei dominati dai capitali europei. Noi la rifiutiamo. E contrapponiamo ad essa la prospettiva della lotta comune tra i lavoratori del Sud, dell’Est e del Nord dell’Europa alle politiche anti-proletarie di Bruxelles, della Bce, del Fmi e dei governi europei.

«Ci sono fondamentali obiettivi comuni da propagandare e perseguire dovunque con la lotta. Contro le politiche della Trojka. Contro il debito di stato, per il suo annullamento. Contro la ‘regola di piombo’ di Draghi. Contro il taglio dei salari, diretti e indiretti, la disoccupazione, la precarietà, l’allungamento degli orari di lavoro, l’intensificazione del lavoro, la distruzione dei contratti nazionali di lavoro e della organizzazione operaia nei luogi di lavoro. Contro il Fiscal Compact. Contro il risorgente militarismo europeo e la Nato. Contro lo sfruttamento differenziale, le bestiali discriminazioni, il razzismo di stato e fascistoide nei confronti dei lavoratori immigrati. E potete aggiungere senza sforzo, naturalmente, tutti i corrispettivi “per”…

«Non ci sfugge che esiste nell’Unione europea, e va accentuandosi, una polarizzazione territoriale tra capitali che si ripercuote anche sulle condizioni di esistenza e di lavoro dei salariati e sugli indici di disoccupazione e di povertà. Non ci sfugge che i colpi subìti dai proletari dell’Est Europa sono più violenti di quelli subìti dai proletari dei PIIGS; né che all’interno stesso dei PIIGS i colpi subìti dai proletari e dai giovani greci sono più violenti di quelli abbattutisi sui proletari e i giovani italiani. Vediamo bene che i colpi subìti dai proletari dei PIIGS sono più violenti di quelli subìti dai proletari tedeschi o olandesi. Ma quando leggiamo che i “lavoratori dei paesi centrali più forti del Nord Europa (…) per ora sembrano fuori dalla crisi sociale che attanaglia il resto del continente”iv, ci chiediamo se si tratti solo di (colpevolissima) disinformazione, e/o anche di quel velenoso spirito anti-tedesco diffuso nella sinistra, anche “radicale”, che serve esclusivamente a rafforzare le distanze, l’estraneità e la contrapposizione tra i proletari e le proletarie del Nord e del Sud dell’Europa. Né più né meno di quella propaganda sciovinista tipica dei mass media e dei governanti del Nord Europa secondo cui nel Sud dell’Europa non si farebbe altro che prendere il sole mangiando a sbafo dello stato e dell’Europa-che-lavora.

«C’è una stratificazione materiale storica dentro il proletariato europeo che ha prodotto stratificazioni ideologiche e psicologiche profonde. Ma proprio perché questo problema è reale, ci vuole a nostro avviso il massimo dell’impegno nel tessere i fili unitari dentro il nostro campo di classe, rifuggendo da tutte le “facili” soluzioni che, invece, approfondiscono delle distanze già di per sé, allo stato attuale, ampie e molto pericolose. Sappiamo che è estremamente arduo far sentire ai proletari di casa nostra, ad esempio, le lotte in Grecia, in Spagna, in Slovenia, in Francia, in Bulgaria come lotte integralmente nostre, ma questo ci tocca fare se crediamo, e noi lo crediamo, che non c’è soluzione possibile a questa crisi all’interno del capitalismo globalizzato che non sia l’accentuazione della concorrenza e la guerra fratricida tra proletari.»

 

E in Italia?

Dunque noi puntiamo tutto sulla ripresa della lotta di classe del proletariato e degli sfruttati, qui in Italia, in Europa e nel mondo – e sul fatto che il pieno dispiegamento delle conseguenze della crisi la incentiverà. Non siamo noi che possiamo determinarla. Possiamo, con percentuali infinitesime allo stato attuale, favorirla o ostacolarla. La proposta di mettere al centro del programma “di fase” la battaglia per l’uscita dall’euro senza dubbio la ostacola, perché immette nella classe lavoratrice veleni nazionalisti, e favorisce la subalternità del lavoro salariato agli interessi nazionali. Questi elementi di nazionalismo anti-tedescov sono particolarmente perniciosi in un paese come l’Italia che è parte da più di un secolo della gang dei paesi imperialisti, e tuttavia, non essendo tra quelli al vertice, si serve dell’eterno ritorno dei piagnistei alla Giovanni Pascoli sulla “grande proletaria” defraudata dalle nazioni più potenti, per lucrare qualche libbra in più di carne viva libica, o serba, o arabo-islamica, o etiope, albanese o sud-africana, sud-americana o cinese, o bielorussa, o quel che sia. Inoltre la propaganda per l’Italexit immette nella classe lavoratrice una suicìda fiducia nello stato capitalistico nazionale come l’attore buono, attento alle necessità sociali, a differenza del capitale ‘privato’ insaziabile e anti-sociale. Questo accade da decenni. E nessuna declinazione ‘alternativa’, di sinistra, può neutralizzarla. L’escamotage della riconquista della “sovranità democratica” non risolve il problema. Anzi. Perché si tratta comunque dello stato democratico, lo stato del capitale, lo stato borghese. E non si può invocare l’autorità di Lenin, specie del Lenin di Stato e rivoluzione, per incartarvi qualche verità di nuovo conio del XXI secolo che in un modo o nell’altro ne attenui il carattere di classe, e gli attribuisca una qualche veste di neutralità.

Certo, lo stato del capitale deve tener conto della forza delle altre classi, del rapporto di forza esistente tra la classe che lo comanda, la classe lavoratrice e le mezze classi. Ma visto che si parla di “materialismo” (storico, crediamo), c’è da prender atto che la tendenza storica della democrazia capitalistica è alla sua blindatura, e nell’ultimo ventennio a ricorrere sempre più spesso allo “stato di eccezione”. O no? L’abbiamo davanti agli occhi in questa crisi del covid-19, come abbiamo in mente la stretta repressiva operata dallo stato contro le lotte proletarie lungo l’intero corso della “prima repubblica”. Per cui, fermo restando che nei paesi del ‘centro’ qual è l’Italia non verrà mai meno del tutto la funzione di integrazione dello stato borghese verso settori della classe lavoratrice, non è però il caso di almanaccare troppo intorno allo stato come “luogo di mediazione tra le classi sociali”. Meglio prendere atto che o si realizzerà sul campo un radicale cambiamento dei rapporti di forza tra classe del capitale e classe lavoratrice, o ci aspetta (i lavoratori della logistica ne sanno qualcosa) un incremento della repressione statale. La potente ripresa della lotta di classe è la chiave di tutto. Rispetto ad essa l’Italexit volontaria è un escamotage controproducente sotto ogni aspetto, perché veicola in una classe lavoratrice dai livelli di attività e di coscienza già molto bassi, l’illusione di poter venire fuori dalla sua attuale condizione chiudendosi entro i propri confini nazionali e rifugiandosi nelle braccia del “proprio” stato borghese – tutto, insomma, fuorché l’auto-attivazione, l’auto-organizzazione, la lotta per i propri distinti obiettivi, per la propria liberazione.

Noi della Tendenza internazionalista rivoluzionaria rivendichiamo di avere contribuito a tracciare una prospettiva politica “concreta” alternativa a quella dell’Italexit centrata – lo ripetiamo – sulla ripresa in grande dell’iniziativa di classe, che ha iniziato a prendere corpo nel Patto d’azione per un fronte di classe anticapitalista promosso dal SI Cobas. Questa iniziativa ha formulato un programma di lotta che ha al centro tematiche di fondamentale ed esclusivo interesse della classe lavoratrice. La lotta per la riduzione generale dell’orario di lavoro a parità di salario, sulla linea del “lavorare tutti, lavorare meno, lavorare meno, lavorare tutti, per il (solo) lavoro socialmente necessario”, che è una risposta non solo all’aumento della disoccupazione ma anche alla necessità impellente di mettere in discussione l’enorme massa di produzione inutile e dannosa che ci appesta (e favorisce ogni genere di malattie). La lotta per aumenti salariali sganciati dalla presenza, dalla produttività e dalla competitività, e per il salario garantito ai disoccupati, se non verranno attuate misure di riduzione drastica degli orari di lavoro. La lotta per imporre la patrimoniale del 10% sul 10% più ricco della società per finanziare le priorità di spesa sociale più urgenti, che ammontano a centinaia di miliardi solo in Italia, con un prelievo forzoso sugli espropriatori e i profittatori del lavoro salariato, invece di scaricare sulle schiene di chi lavora altre centinaia di miliardi di debito di stato. Inutile, adesso, richiamare tutti i singoli punti della piattaforma che si sforza di raccogliere e unificare le spinte di lotta, all’oggi estremamente tenui e circoscritte, rivolgendosi all’enorme massa delle sfruttate e degli sfruttati, autoctoni e immigrati. Questo è niente più che un inizio, con forze assai modeste, ma ci teniamo a sottolineare che la prospettiva e le rivendicazioni-chiave formulate hanno tutte un respiro almeno europeo, e un bersaglio europeo – l’Ue.

Per noi la lotta al padronato, al governo, allo stato italiani va assieme alla lotta contro le istituzioni europee. La prospettiva, il programma, il piano di lotta in cui ci riconosciamo servono a svelare ai milioni di lavoratori, precari, disoccupati, oppressi di ogni genere che il capitalismo italiano, il governo italiano, lo stato italiano, non sono vittime dell’Ue, ma sono a tutti gli effetti artefici e protagonisti di questa istituzione ultra-capitalistica. L’opposizione e la lotta alle politiche dell’Ue passa quindi necessariamente attraverso la lotta al nemico che è “in casa nostra”, non attraverso l’assoluzione, esplicita o implicita, dello stato nazionale in quanto presunta vittima dello “strapotere di Bruxelles” o di Berlino. L’alternativa al nazionalismo o al social-nazionalismo delle tante versioni dell’Italexit è la lotta comune dei lavoratori europei contro i propri governi e le istituzioni europee, per buttarli giù tutti. E stiamo lavorando intensamente per arrivare a prime iniziative di propaganda e di lotta a questa scala anche contro la politica estera guerrafondaia e colonialista dell’Ue. Se non fosse esplosa la crisi sanitaria, ne avremmo già realizzata una, a fine marzo scorso, a sostegno delle nuove sollevazioni arabe in corso, la cui vittoria indebolirebbe molto i nostri nemici.

Conosciamo l’obiezione a questo programma d’azione: campa caval che l’erba cresce. Per intanto, illustri inventori di scorciatoie, la sola cosa certa è che tutta l’agitazione Italexit “di sinistra” degli ultimi anni, con le aperture di credito ai “compagni di strada” 5S e leghisti, ha solo accentuato la paralisi e la decomposizione ideologica e organizzativa delle sezioni dell’extra-sinistra che l’hanno adottata, a esclusivo vantaggio del polo “rosso”-bruno che ne sta raccogliendo i frutti. E per quanto la si voglia condire di intenzioni socialiste o comuniste, non potrà portare alcun beneficio alla causa della rinascita del movimento autonomo della classe. Questa rinascita dipende, al 99%, da fattori che non siamo noi a controllare. Si darà per esplosioni improvvise (preparate da un lungo lavoro sotterraneo, spesso solo di piccoli gruppi o perfino soltanto teorico) come le sollevazioni arabe del 2011-2012 e del 2018-2020, i movimenti sociali che hanno scosso l’America del Sud lo scorso anno, o il movimento del giovane proletariato statunitense nero, bruno, bianco nato dall’assassinio di George Floyd, esplosioni che incideranno anche sui programmi e sui piani di lotta. Finora in Italia e in Europa abbiamo visto poco. E in assenza di un’esplosione generale del conflit


to di classe nulla di rilevante è possibile. Ma ci si può e ci si deve preparare a quando le esplosioni avverranno, incardinando i piccoli contingenti di militanti e le avanguardie di lotta già oggi disponibili a farlo su una prospettiva politica che nulla conceda al nazionalismo, e tutto impegni per la globalizzazione delle lotte e dell’organizzazione di classe.

 

29 agosto, Tendenza internazionalista rivoluzionaria

P.S. – Ci sarebbe da discutere almeno un altro paio di questioni.

La prima è molto spinosa per tutti gli Italexit, e riguarda le prevedibili, o scontate, conseguenze concrete di un’eventuale uscita dall’euro, con l’immediata e violenta svalutazione della moneta nazionale, anche a prescindere dalla ‘volontà’ di dar vita a svalutazioni competitive, l’immediato rincaro dell’import (a cominciare dalle fonti di energia), la svalutazione dei salari, etc. Per ora ci limitiamo a registrare il silenzio di tomba di tutti gli Italexit sulle conseguenze della Brexit, che avrebbe dovuto far decollare il Regno Unito con l’aiuto fraterno degli Stati Uniti ed invece…

La seconda è la tesi implicita/esplicita presente in tutte le argomentazioni Italexit secondo cui l’ambito politico nazionale italiano sarebbe in sé più “progressivo”, più favorevole alle necessità dei proletari, non solo dell’ambito europeo, ma anche dei singoli contesti nazionali francese, tedesco, spagnolo, etc. Il che è tutto da dimostrare.

Ci risentiamo presto.


Note
i Ci riferiamo all’articolo La collocazione dell’uscita dall’UE nella strategia per il socialismo, pubblicato su “L’Ordine Nuovo” e su “Sinistra in rete”.
ii Cfr. L’Italia paese centrale e imperialista, pubblicato su “L’Ordine Nuovo” e su “Sinistra in rete”.
iii È il titolo di un pezzo di Thomas Fazi, comparso su “Il Paragone”.
iv È scritto testualmente questo nel documento della Rete dei comunisti intitolato “Fuori dall’Unione Europea. Una proposta politica per il cambiamento” – Forum euromediterraneo, Roma 30 novembre/1 dicembre 2013.
v Cfr. D. Barontini, Da oggi in poi ci governa Berlino, comparso su “Contropiano”.

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Mario Galati
Saturday, 12 September 2020 08:53
Per tre motivi, ovviamente, e non due.
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Mario Galati
Friday, 11 September 2020 23:42
Non credo di dover controbattere a Schuster per due motivi: il primo è che io non sto affrontando alcuna discussione con lui sul merito degli argomenti dell'internazionalismo, del sovranismo, dell'UE, ecc., dato che non ho articolato alcun ragionamento prendendo posizione su di essi. Se egli, e altri, hanno potuto polemizzare su questo è perché hanno la cattiva e sleale abitudine di inventarsi posizioni di comodo da attribuire all'interlocutore per poter polemizzare tirando fuori i loro argomenti scontati e pronti all'uso. Forse non lo fanno in cattiva fede, ma perché non concepiscono e non comprendono posizioni che fuoriescono dai loro schemi binari;
dipende da ciò anche il secondo motivo, che consiste nel semplice e lampante fatto che non ho cambiato alcuno schieramento e posizione, da sovranista a internazionalista, come assurdamente si afferma, reiterando il solito vizio di mettere in bocca all'interlocutore posizioni che non ha mai espresso;
Il terzo è che non ho la propensione a discutere con chi si lascia sfuggire la sgangherata espressione di uno Stalin "reazionario", per la quale soltanto controbatterei rassegnato "perdona loro perché non sanno quello che dicono".
In merito al reale movimento comunista cui mi sono riferito, non è il richiamo all'espressione di Marx, quanto il riferimento all'effettivo movimento comunista novecentesco del quale, peraltro, Stalin è stato esponente di punta.
Il seguito delle citazioni neanche lo leggo.
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Schuster
Friday, 11 September 2020 15:06
Galati, fosse per me, preferirei altri approcci. Giuro. Ma tu mi costringi. Le miei citazioni marxiane sono dettate dall’argomento della discussione (quella tra noi due), cioè il tuo presentarti dando patenti di marxismo mentre ti schieravi con le posizioni sovraniste. Ora decidi invece di cambiare linea : basta cercare l’introvabile sovranismo in Marx (ci hai provato, ma da intelligentone hai finalmente capito che diventerebbe un percorso doloroso) e cambi discorso. La butti in caciara insomma. Va bene.
Ora, io se mai sono “oltraggioso” dello stalinismo, non del “movimento comunista” ( che non ha nulla a che fare con il reazionario Stalin ), ne lo sono (ammesso che abbia significato esserlo) con il “movimento reale” (il rovesciamento dell’assunto idealistico hegeliano).
Poi , a proposito del tuo Lenin “profondamente nazionale” (ammesso che sia di Gramsci) mi devi aiutare a capire cosa intendeva Lenin quando diceva :

“L’idea di assicu¬rare a tutte le nazioni la possibilità di autodeterminarsi corrisponde per lo meno alla prospettiva di un regresso dello sviluppo dal livello di grande capitalismo a quello dei piccoli stati medievali o anche a quello di molto precedente il XV e XVI secolo” ( Lenin, Il proletariato e il diritto di autodeterminazione, p. 375, Opere, XXI )

“Il marxismo sostituisce a ogni nazionalismo l'internazionalismo, la fusione di tutte le nazioni in una unità superiore. (...) Il proletariato non può appoggiare nessun consolidamento del nazionalismo, anzi, esso appoggia tutto ciò che favorisce la scomparsa delle differenze nazionali, il crollo delle barriere nazionali, tutto ciò che rende sempre più stretto il legame fra le nazionalità, tutto ciò che conduce alla fusione delle nazioni” ( Lenin – 1914 , Opere - Editori Riuniti, 1976 - pag 289 )

“Le patrie borghesi esisteranno finché la rivoluzione internazionale del proletariato non le distruggerà. Il terreno per questa rivoluzione esiste già”( Lenin, I südekum russi, in Opere, XXI, p. 108, Editori Riuniti, 1966 )

“La borghesia aizza gli operai di una nazione contro gli operai di un’altra, cercando di dividerli. Gli operai coscienti, comprendendo l’inevitabilità e il carattere progressivo della distruzione di tutte le barriere nazionali operata dal capitalismo, cercano di aiutare a illuminare e a organizzare i loro compagni dei paesi arretrati.” ( Lenin - ivi, pag 308 )

“La liberazione dall’oppressione del capitale non avviene e non può avvenire senza un ulteriore sviluppo del capitalismo, senza la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso. E proprio a questa lotta il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il mondo, spezzando il ristagno e l’arretratezza della vita locale, distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi nelle più grandi fabbriche e miniere dell’America, della Germania, ecc.” ( Lenin – ivi pag 320 )

“Nella nostra lotta per il vero internazionalismo e contro il “jingo-socialismo” citiamo sempre nella nostra stampa l’esempio dei leader opportunisti del P.S. in America, che sono a favore di restrizioni sull’immigrazione di lavoratori cinesi e giapponesi (specialmente dopo il Congresso di Stoccarda del 1907 e contro le decisioni di Stoccarda). Pensiamo che non si possa essere internazionalisti e allo stesso tempo a favore di queste restrizioni. E affermiamo che i socialisti in America, specialmente i socialisti inglesi, che appartengono alla nazione dominante e degli oppressori, che non sono contrari a qualunque limitazione dell’immigrazione, contro il possesso delle colonie (Hawaii) e per l’integrale libertà delle colonie, ebbene tali socialisti sono in verità dei jingoisti.” ( Lenin , 1915 , Letter to the Secretary of the Socialist Propaganda League )

Ecc.Ecc.Ecc.
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Mario Galati
Friday, 11 September 2020 03:30
Vedo che Schuster insiste nella trattazione citazionista degli argomenti e trascura il movimento storico reale. Con l'aggravante che, quando cita il movimento storico reale, non fa che esorcizzarlo perché non rientra tra i suoi dogmi astratti, schematici, non dialettici ed errati. Ecco allora un fiorire di "stalinismo", come sinonimo di nazionalismo di sinistra (con non velato accostamento al nazionalismo di destra, al fascismo, in puro stile anticomunista da guerra fredda non estraneo al trozkismo). Il vertice viene raggiunto con lo "stalinista ...feticista della Nazione come un fascista qualunque".
Con uno che getta nella discussione frasi così sconsiderate e oltraggiose del movimento comunista reale, frasi da emerito ignorante, non è il caso di discutere, come avevo ben intuito prima.
Un piccolo e insignificante marxista e comunista di nome Gramsci disse che Lenin era internazionale perché profondamente nazionale. Ma la vostra logica binaria elementare non riesce a comprendere il rapporto dialettico tra particolare e universale: al particolarismo gretto e limitato riescono ad opporre soltanto uno speculare universalismo astratto, un cosmopolitismo borghese imbellettato da internazionalismo.
Per il resto vedo che l'abitudine di confutare argomenti e posizioni messe arbitrariamente in bocca al contraddittore è inestirpabile, altrimenti Schuster non verrebbe a polemizzare con me usando un concetto di Marx che ho segnalato proprio io, ossia, che la forma della lotta di classe può anche essere nazionale, ma il contenuto deve essere sempre internazionale. Ma è proprio questo che non riuscite a capire quando polemizzate con certe posizioni: in concreto, qual è la forma di lotta di classe necessaria e opportuna in un dato contesto? È su questo che si basano alcuni antiUE. Liquidare il tutto bollandoli rozzamente e arrogantemente come veri e propri meschini socialsciovinisti (che esistono), è facile e stupido. Per gente come i miei contraddittori non esistono problemi e ragionamenti. Tutti è facile e chiaro e via, a testa bassa come i tori.
E poi, illustre citazionista marxista internazionalista, ho forse detto o pensato che le due o tre citazioni di Marx richiamate sono citazioni nazionaliste? Il fatto che tu lo pensi e lo scriva (e che scorrettamente e, forse, inconsciamente tu lo proietti su di me) dimostra la tua totale incomprensione del rapporto dialettico nazionale-internazionale e particolare-universale. E conferma tutto Il tuo schematismo.
Mi sono lasciato prendere la mano e non ho osservato il riserbo che mi ero proposto; ma non del tutto, dato non sono entrato nel merito delle mie posizioni. Ma nonostante ciò, tu e i tuoi accoliti siete riusciti ad imbastire una polemica sul nulla, attribuendo arbitrariamente all'interlocutore posizioni non espresse, per ripetere le vostre litanie-invettive, suonandovela e cantandovela da soli.
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Schuster
Thursday, 10 September 2020 20:02
per il resto sono d'accordo con i commenti di Arek e Moreno.
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Schuster
Thursday, 10 September 2020 17:05
Galati a te non interessa "il merito degli argomenti". Le citazioni marxiane antinazionaliste sono centinaia ; quelle apparentemente nazionaliste ( ma non lo sono affatto in realtà; poi spiego ) sono 2 o 3. E’ su queste che la posizione nazionalista cerca un sostegno dottrinario ed è poi su queste ( decontestualizzate e rese a-storiche ) che pretende e concentra l’attenzione. Tutte le altre citazioni marxiane ( cioè le centinaia di citazioni, dall’economia alla filosofia, antinazionaliste marxiane ) vengono liquidate come “borghesi”, “liberali”,”antimarxiste”, “anticomunisti”,“da internazionalisti della chiacchera”. Sono fatti così, vogliono giocare in casa . Che classe ! E’ il loro solo scopo e il loro metodo (di scuola stalinista) : timbrare, bollare, dare patenti, per urlare che i veri e soli comunisti, i veri e soli marxisti, i veri e soli detentori del Verbo sono loro : gli stalinisti, i nazionalisti di sinistra ( un ossimoro.. ). Atteggiamento notoriamente rivelatore..
Ma rispondiamo comunque. Vediamo quindi queste posizioni marxiane ( che vengono strumentalizzate come ) nazionaliste. Marx sostenne l’autodeterminazione nazionale di Irlanda e Polonia. Lo fece perchè era un feticista della Nazione come un fascista qualunque o uno stalinista ? Chiaramente no : quelle indipendenze erano per lui funzionali alla rivoluzione mondiale ( che per Marx non è un atto, ma un processo ) : per lo stesso scopo era a favore dell’unione doganale dello Zollverein , che cancellava l’indipendenza di 38 stati tedeschi ; per lo stesso scopo si oppose al movimento d’indipendenza nei Balcani e a quello dei Cechi.
Passiamo poi ai passi che seguono: “Gli operai non hanno patria. (…) Ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch’esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia” (Marx, Il Manifesto del partito comunista). La lotta di classe si svolge nell’ambito nazionale (in questo senso essa è nazionale) ma non ha obiettivi nazionali. Tutt’altro. La forma è nazionale, ma la sostanza politica è, e non può che essere, internazionalista, ossia radicalmente antinazionale. La nazione è qui concepita da Marx come spazio sociale e geopolitico imposto ai dominati dai vigenti rapporti sociali, nonché come sezione dell’auspicato Partito comunista mondiale. Ma sono gli stessi autori del Manifesto a chiarire, qualche pagina prima, il senso della loro affermazione: “Sebbene non sia tale per contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però, all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima di tutto con la sua propria borghesia”. Non è tale per contenuto. Più chiaro di così ! Se non bastasse (contro qualsiasi feticizzazione e reificazione della Nazione da parte di Marx ), nel 1872 quello stesso passaggio viene non a caso corretto da Marx : “Di fronte all’immenso sviluppo della grande industria degli ultimi venticinque anni e alla corrispondente organizzazione in partito della classe operaia, di fronte alle esperienze della Comune di Parigi, durante la quale il proletariato per la prima volta ha detenuto il potere politico per due mesi, questo programma è oggi parzialmente superato. In particolare la Comune ha fornito la dimostrazione del fatto che la classe operaia non può semplicemente impossessarsi della macchina statale così com’è e metterla in moto per i propri scopi” ( Karl Marx , Il Manifesto comunista, Prefazione all’edizione tedesca del 1872 ) Questione ulteriormente sviluppata ovviamente in altri testi ( da L’indirizzo inaugurale dell’Internazionale a La guerra civile in Francia o alla Critica del programma di Gotha ).
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Mario Galati
Thursday, 10 September 2020 01:19
Mako, non Mamo, com'è ovvio.
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Mario Galati
Thursday, 10 September 2020 01:18
Mamo, potrei anch'io consigliarti di studiare; ma non lo faccio, poiché dubito dell'efficacia e dell'utilità dello studio in uno come te che non capisce ciò che legge.
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Mako
Thursday, 10 September 2020 00:33
Mario g farfuglia nel suo brodo senza ne leggere ne tirare argomenti validi...Arek ti ha risposto! e ti ha segnalato un Blog e dei documenti seri...Almeno studia! Mario g, ritorna tra i banchi su daiiii....
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Mario Galati
Wednesday, 09 September 2020 08:19
Bravo Schuster, che si limita alla cronaca sintetica, pretesamente ironica, degli altrui interventi: entrare nel merito degli argomenti gli riesce un po' meno e fa prima a divincolarsi con delle boutades.
Quanto ad Arek, il cui canale informativo sembra essere unicamente Il Pungolo Rosso, sta usando il solito artificio retorico di mettere in bocca all'avversario posizioni che non ha espresso per poterle confutare. Potrebbe risparmiarsi questo girare a vuoto.
Entrambi appartengono all'ufficio patenti di internazionalismo e marxismo e continuano a ribaltare le posizioni proiettando questo loro atteggiamento sugli interlocutori.
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Arek
Monday, 07 September 2020 22:07
Internazionalisti della chiacchiera”...

Mario Galati ha calato (secondo lui) l’asso: gli internazionalisti sono chiacchieroni, a differenza dei loro contestatori, i pro-Italexit che, invece, sono gente concreta e pongono domande concrete. Ma ha preso un granchio. Perché tra i promotori della Tendenza internazionalista rivoluzionaria, con cui mi sento solidale, ci sono alcuni fondatori del SI Cobas, l’esperienza di sindacalismo più combattiva e multinazionale dell’ultimo decennio, la più incriminata e repressa dallo stato e dalle polizie padronali private, vedi TNT, e altri compagni e compagne che nella loro vita tutto hanno fatto e fanno fuorché chiacchiere.

Non sto svelando un segreto. Già Alfonso aveva messo in guardia il prof. AlsOb sul suo sciocco sarcasmo: “sai benissimo che questi compagni sono impegnati in numeri ben superiori alla tifoseria calcistica”. Ovvero: attento, stai facendo una figuraccia. Evidentemente c’è chi interviene nella discussione, e non solo non legge il testo da discutere, su cui non dice neppure una parola; non solo non sa nulla di quelli che scrivono; non solo non si informa; ma non legge neppure i commenti di quelli che l’hanno preceduto… che serietà!

Le domande che pone Galati sulla UE, sulla sua natura ovviamente reazionaria, hanno già avuto una inequivocabile risposta dagli stessi compagni tre anni fa, quando analoghe domande furono poste da Giorgio Cremaschi: chi vuole, può leggere qui:

https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/9158-il-cuneo-rosso-cremaschi-i-suoi-1-000-orologi-e-la-truffa-sovranista-di-eurostop.html

Infine sempre sull’insopportabile canzone delle “chiacchiere” e del presunto concreto: perché gli amanti della concretezza non ci parlano mai del grandioso successo che la Brexit ha rappresentato per i lavoratori britannici? Dopotutto è il primo caso di uscita dall’UE, in modo da poter spiccare il volo verso il benessere dei tempi andati, e poi incamminarsi verso il socialismo. Anche su questo caso, non oggi che il “sovranista” Johnson è stato calpestato da Trump su Huawei come il suo tappetino facendo perdere al suo paese un bel mazzo di miliardi di sterline (chi li pagherà?); non ora che il governo britannico del dopo-Brexit può vantare al suo attivo il doppio record del massimo crollo del pil e del massimo di morti da covid-19 in Europa (appartenenti alla famiglia reale?); non oggi che ha perso ben venti punti di popolarità perché la truffa comincia ad essere toccata con mano da ampi settori degli strati, anche popolari, che ne erano stati illusi; non oggi che è stato contestato per il suo brutale ultra-liberismo anche dagli studenti universitari; non oggi che già si parla della sua possibile destituzione da parte dei conservatori per i flop a catena del miracolo Brexit; ma tre anni fa, sempre su “Sinistra in rete”, i compagni del Cuneo rosso avevano scritto questo post:

https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/10128-redazione-di-il-cuneo-rosso-brexit-la-festa-appena-cominciata-e-gia-finita.html

Comunque, se Galati e altri intendono confrontarsi seriamente con le posizioni della TIR, possono andare su www.ilpungolorosso e troveranno lì un po’ di materiali utili. Ma forse chiedo troppo.
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Schuster
Monday, 07 September 2020 19:06
Una nuova ermeneutica ? Una commedia, una tragedia ? Non saprei... E' la storia di uno che arriva, si mette sul pulpito, e inizia a dare patenti di fedeltà alla dottrina ( e lo fa tra l'altro con occhio da falco e fiuto da segugio: impavido si schiera subito con il simpatico Riccardo; perchè solo un distratto, un infedele, o un apolide pagato da Soros, non coglierebbe la lampante fedeltà alla dottrina di Riccardo...). Senonché inevitabile arriva poi il cortocircuito : se la prende con le risposte "dottrinarie", con le citazioni dal Libro. Così non vale, cosi si trucca la partita - dice. Eppure le citazioni sono lapalissiane ( compresa la sua ) e ce ne sarebbero altre cinquecento..Ecco che inizia a temerlo anche lui : si agita, sbraita e sbatte la porta. Non senza però un colpo di reni, una trovata geniale. Butta li indignato una nuova ermeneutica : la fedeltà alla dottrina non si evince dalle citazioni dottrinarie, troppo astratte, ma con il discorso indiretto libero.
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Nap
Monday, 07 September 2020 18:44
Ormai credo di averle viste tutte : Salvini che cita Simone Weil, CasaPound che cita Gramsci o Pasolini e ora i sovranisti che citano Marx.. Siamo messi bene, molto bene.
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Paolo Selmi
Sunday, 06 September 2020 23:48
"La poesía no pertenece a quien la escribe sino a quien la necesita" (La poesia non è di chi la scrive ma di chi ne ha bisogno, Antonio Skarmeta, Ardiente paciencia, 1983)

Cari compagni,

A dirlo è Mario Jiménez-Ruoppolo, il postino di Neruda, al vate che, fra i serio e il faceto, stava partendo con un cazziatone in piena regola per plagio delle sue "metafore" (la suocera della versione italiana resta comunque insuperabile..) al fine di conquistare il cuore della bella Beatriz-Beatrice.

Peraltro, "Ardente paciencia" nasce, come titolo, da un brano del discorso di Neruda stesso in occasione del premio Nobel da lui vinto per la letteratura nel 1971:
https://archivochile.com/Homenajes/neruda/de_neruda/homenajepneruda0004.pdf

"Hace hoy cien años exactos, un pobre y espléndido poeta, el más atroz de los desesperados, escribio esta profecia: A l’aurore, armés d’une ardente patience, nous entrerons aux splendides Villes. (Al amanecer, armados de una ardiente paciencia, entraremos a las esplendidas ciudades). Yo creo en esa profecía de Rimbaud, el vidente. Yo vengo de una oscura provincia, de un país separado de todos los otros por la tajante geografía. Fui el más abandonado de los poetas y mi poesía fue regional, dolorosa y lluviosa. Pero tuve siempre confianza en el hombre. No perdí jamás la esperanza. Por eso tal vez he llegado hasta aquí con mi poesía, y también con mi bandera.

En conclusión, debo decir a los hombres de buena voluntad, a los trabajadores, a los poetas, que el entero porvenir fue expresado en esa frase de Rimbaud: sólo con una ardiente paciencia conquistaremos la espléndida ciudad que dará luz, justicia y dignidad a todos los hombres. Así, la poesía no habrá cantado en vano."

"Armés d’une ardente patience"... Armati di un'ardente pazienza, Neruda che cita Rimbaud per parlare di pazienza ardente, rivoluzionaria. Ventun anni dopo quel discorso, con un Cile profondamente cambiato, in peggio.

Non entro nel merito del rapporto fra citazione e contesto iniziale e finale della stessa, fra traduzione e tradimento (entrambi peraltro con la stessa radice). Per noi che viviamo da questa parte dell'emisfero terrestre, è da oltre duemila anni che che sentiamo qualcuno partire con "sta scritto", e qualcun altro ribattere "sta scritto [...] ma sta anche scritto" e via discorrendo, finché qualcuno non finisce in croce o sul rogo.

Da tutt'altra parte dell'emisfero terrestre, grosso modo mezzo millennio prima, qualcuno che noi conosciamo come Maestro Kong affermava: "trasmetto e non creo, credo e amo gli antichi"(述而不作,信而好古, Dialoghi (論語 ) 7.1). Non sono io a dirlo, non è farina del mio sacco... io trasmetto soltanto (e mi salvo la testa in un periodo in cui il filo delle spade era saggiato quotidianamente per molto, molto meno di una semplice obiezione, o presunta tale, a qualche venerabile wang 王, o re che dir si voglia).

In entrambi i casi i soggetti in questione, anch'essi "armés d’une ardente patience" (ed entrambi, peraltro, sconfitti in vita), sapevano benissimo che "citare" i Classici significava "usarli", non come Jiménez-Ruoppolo per conquistare la bella Beatriz-Beatrice. ma per un fine più alto: "riscrivere" radicalmente, profondamente il proprio presente parlando un linguaggio a esso familiare e, al contempo, orientandolo verso un futuro completamente differente, rivoluzionario, per l'appunto.

Chiudo con un'osservazione e un esempio. Oggi viviamo in un'epoca dove immagini, parole, segni fanno il giro del mondo in tempo reale. Questo turbocapitalismo globalizzato e globalizzante attraversa, buca, forse è il caso di dire bombarda l'etere quotidianamente. I significanti sono variegati come tutte le sfumature dello spettro visivo, i significati sono, grosso modo, sempre gli stessi (... a proposito, dove avrò messo quel paio di occhiali da sole che mi aveva dato quel predicatore quel giorno... e qui entriamo nello stracult: https://www.youtube.com/watch?v=xRzIOqBvmd4).

"Essi vivono" è del 1988. Oggi, a trent'anni di distanza, chissà cosa vedrebbe il nostro amico disoccupato palestrato guardando un palmare, o un "reality"... si è tutto vorticosamente avvitato su se stesso, accelerando tempi e modi di produzione e riproduzione di significanti, al punto che non faccio in tempo a dire a mia figlia che i "me contro te" sono una cagata per fare milioni di dollari (d'altronde, con un contratto con la WB e royalties ovunque, dalle patatine alle calzature, il giro di affari è quello e la valuta anche), che ne son già spuntati fuori altri. E altri, e altri ancora, varianti locali, regionali, nazionali, transnazionali che, a vederli con quegli stramaledetti occhiali da sole, riproducono sempre lo stesso messaggio. Non ti akkiappo con questo, ti akkiappo con qualcos'altro, ma ti akkiappo.

Continuare a ragionare solo in termini di critica puntuale è quanto di meglio possa accadere, dal loro punto di vista: mentre tu perdi tempo a smontare x, magari ti incazzi con qualcuno perché lo smonta diversamente da te, loro escono con y e z. E intanto il tempo passa. Facciamo, purtroppo, il loro gioco. E non elaboriamo il nostro progetto, non lo concretizziamo, non cerchiamo neppure di attualizzarlo rispetto a modelli comunque esistiti, perché "due mani teniamo": o facciamo una cosa, o un'altra.

Neruda chiude riprendendo l'espressione felice di Rimbaud ma trasferendola in un contesto che, probabilmente, Rimbaud non si sognava neppure: "sólo con una ardiente paciencia conquistaremos la espléndida ciudad que dará luz, justicia y dignidad a todos los hombres. Así, la poesía no habrá cantado en vano."

Ecco, non togliamo nulla all'analisi di classe, ovvero in grado di cogliere e definire gli elementi di sfruttamento e alienazione in un dato processo, in una data sequenza di processi, fino a giungere al lato sistemico complessivo e globale, analisi rigorosa e critica dell'esistente. Non togliamo nulla neppure alla ricerca e all'elaborazione teorica ma anche pratica di alternative concrete, laddove sia possibile praticare modelli socioeconomici, a livello locale, circoscritto, ma comunque non testimoniale; questo, al netto di tenere nel dovuto conto che oggi, con gli strumenti informatici a disposizione per la gestione ed elaborazione pressoché simultanea di dati e varianti processuali, è possibile persino simulare situazioni complesse, creare modelli di pianificazione e realizzazione assai vicini (e sempre più vicini) a quelli realizzabili concretamente, utilizzare quindi a nostro vantaggio quell'ambiente virtuale che oggi è patrimonio esclusivo dei moderni padroni delle ferriere.

In questo senso, dire "non togliamo nulla" è usare un eufemismo... praticamente non togliamo nulla perché, a ben vedere, non c'è quasi nulla da togliere, siam conciati malissimo sui versanti appena elencati.

Sicuramente, l'appetito vien mangiando e lavorare seriamente e su vasta scala su tali versanti metterebbe in campo idee, risorse, dimensioni progettuali, conclusioni attualmente impensabili. Che sui futuri libri di storia saranno, senza dubbio, presentati magari come la "necessaria conseguenza", il "necessario sviluppo", il "risultato storicamente necessario" del mazzo che ci saremo fatti... col risultato che qualcuno dei posteri penserà anche che l'acqua bolle a 100 gradi e raggiunto un dato x di incazzatura si è fatto il socialismo... sicuramente "anche", ma non "solo".

Oltre, però, a quanto finora neppure immaginato, o pensato realizzabile, occorrerà sempre più essere in grado di cogliere immagini, messaggi, idee forti in grado di sintetizzare i fondamenti del socialismo che vogliamo costruire. Che è l'esatto opposto di "narrative", o come è reso da noi narrazione. Non abbiamo nulla da raccontare. Abbiamo qualcosa per cui lottare. E se uno si prende il Covid perché ha fatto il minchione nel locale di Briatore, o lo ha preso sul posto di lavoro in quanto la sua casa di riposo è stata riempita, all'epoca, di degenti asintomatici che gli ospedali non sapevano più dove mettere, NON E' LA STESSA COSA. E chi lo dice mente sapendo di mentire.

Premesso questo, queste "immagini, messaggi, idee forti" sono come fiumi carsici: non si sa da dove nascono, scompaiono, riappaiono da altre parti, nel nostro caso - del mondo intero, magari dopo anni. Il linguaggio cinematografico è pieno di "omaggi" e "citazioni". Studiarle, a volte aiuta a capire certe dinamiche comunicative su cui noi oggi, sempre in vena di eufemismi, "latitiamo".

Il caso, con cui chiudo, è il seguente:

"Il mondo è diviso in due, amico mio: quelli che hanno la corda al collo e quelli che la tagliano. Solo che il collo dentro la corda è il mio, sono io che rischio, perciò la prossima volta voglio più della metà."

"Gli speroni si dividono in due categorie: qualcuno passa dalla porta, e qualcuno dalla finestra."

"Vedi, il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica, e chi scava. Tu scavi"

La combo, per chi volesse fare un ripasso veloce è qui:
https://www.youtube.com/watch?v=tm2shFwH2GM

Premesso che il NOSTRO western è quello che prediligo rispetto all'originale, e che per questo non lo abbinerò mai alla parola che insieme a pizza, mafia, mandolino ci rende spregiativamente celebri nel mondo, faccio mie le parole di Furio Scarpelli, che insieme a Leone e a Vincenzoni scrisse la sceneggiatura de "Il buono, il brutto, il cattivo":
https://www.youtube.com/watch?v=ZnJ_7OhGVcw

Quello di Leone, il western disincantato, sudato, lumpen in tutti i sensi, costituiva probabilmente la descrizione più prossima di quello che era realmente stato quel momento storico. All'interno dell'epos, del teatro classico a cui attinse a piene mani, e di un linguaggio di cui padroneggiava con sapiente maestria tutti i codici esistenti, inventandone lui di nuovi e dando lezioni al mondo intero.

Molte delle battute, di cui quelle sopra riportate costituiscono alcune "perle", sono frutto della penna di Luciano Vincenzoni (1926-2013), come è possibile dedurre anche da come parlava normalmente, raccontando per esempio di come era riuscito a salvarsi dalla fame e ad andare sotto contratto da De Laurentiis:
https://www.youtube.com/watch?v=XzJJBRZIWWg
Sembra uno dei suoi film, delle sceneggiature da lui scritte. Un borghese che descriveva, in maniera disincantata, un mondo in crisi, uno spaccato di società che conosceva molto bene, essendoci stato sino ad allora, con un linguaggio volutamente sfacciato e irriverente, in grado di spaccare, con pochi tratti di penna, ipocrisie su cui si erano consumati chilometri di celluloide.

1988. URSS. Il kazako Rashid Nugmanov dà in pasto alle cineteche di 15 fusi orari IGLA (Игла - l'ago): un film che parla di tossicodipendenza, di medici a capo di traffici di NARKOTIKI, di malavita, di antieroi raccattati dall'ambiente rock sovietico degli anni Ottanta, a cui affida anche la colonna sonora. Di lì a poco sarebbe finito tutto: alla fine della proiezione, e col senno di poi, possiamo tranquillamente affermare che lì era GIA' finito tutto. Che l'antieroe VIKTOR COJ, capo del gruppo rock KINO, esprime un movimento di RESISTENZA verso una corruzione che appare dilagante, non una vittoria su di essa. Le analogie col western di Leone cominciano a individuarsi. E la citazione arriva, e non poteva non arrivare:

https://www.youtube.com/watch?v=wrOMHHql9HI

Arrivato ad Alma-Ata per prendere dei soldi da Spartak, Moro lo cerca ovunque e lo trova al posto di lavoro, in un oleodotto. Mentre il primo si nasconde, invano, salendo su una condotta, il secondo lo stana subito e, dopo averlo chiamato e avegli fatto capire di non continuare a fare lo gnorri, esordisce con:
"Люди в мире делятся на две категории: одни сидят на трубах, а другим нужны деньги, на трубе сидишь ты!"
(Al mondo le persone si dividono in due categorie: quelli che siedono sui tubi, e quelli che han bisogno di soldi. A sedere sul tubo sei tu...[quindi caccia il grano!])

Ebbene, oggi questa frase calco di una frase cult ed entrata nella leggenda della filmografia sovietica a sua volta, al punto che è un aforisma comunemente usato nel discorso comune sembra diventata, come un fiume carsico emerso dopo oltre trent'anni, una delle frasi più pericolose da pronunciare IN UN CERTO SENSO... e in fatti, chi la pronuncia, la pronuncia IN QUEL SENSO! Chi oggi siede sull'oleodotto? Oligarchi, funzionari statali della Gazprom... quei quattro gatti. E il resto della popolazione? fan la fame e han bisogno di soldi. Contesto di destinazione completamente diverso dal contesto iniziale, frase che inizialmente era non più di un calco di una grande penna italiana, e che oggi invece descrive in maniera disarmante, lapidaria, la situazione di un paese dove quattro se la spassano seduti sui tubi dell'oro nero e dell'oro blu, mentre il resto è in miseria a contendersi le briciole. Al punto che il "politico" (Edinaja Rossija) appare come il "garante", a metà fra intercessione e imposizione, delle briciole da mettere sul piatto. Chi l'avrebbe immaginato trent'anni fa?

Che l'ardente paciencia sia con noi! E buona settimana a tutti!

Paolo Selmi
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Mario Galati
Sunday, 06 September 2020 18:00
Ci mancava il solito fanatico dottrinario che spara citazioni, selezionandole accuratamente, naturalmente, a conforto dei propri dogmi astratti, e anche chi si accoda riempiendosi la bocca dell'insulto-tabù con il quale spera di censurare il pensiero.
"Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle loro lotte, non è il successo immediato, ma l'unione sempre più estesa degli operai. Essa è agevolata...omissis... Basta questo semplice collegamento per concentrare le molte lotte locali, aventi dappertutto uguale carattere in una lotta nazionale, in una lotta di classe".
"Sebbene non sia tale per contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all'inizio, per la sua forma, lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia".
Le pagine di questi passi cercatevele nelle edizioni che preferite, così, magari rileggerete il Manifesto e forse capirete qualcosa di più rispetto alle citazioni prêt à porter che rappresentano il vostro unico bagaglio teorico, a quanto pare.
Quanto rimanga valido ancora oggi di questa posizione sarebbe da vedere, ma i citazionisti selettivi si astengano da semplici operazioni di taglia e incolla.
Da internazionalisti della chiacchera non vi siete mai posti troppi problemi, né sul piano teorico, né su quello storico. Tutto è facile nella vostra logica binaria elementare. O una cosa è nazionale o è internazionale. Com'è rassicurante andare a letto con queste semplici e granitiche certezze.
Consiglierei di leggere "Sugli stati Uniti di Europa", di un certo nazionalsciovinista di nome Lenin.
Quanto al merito degli argomenti e delle litanie stigmatizzanti sul presunto nazionalsciovinismo, sulla questione immigrati, e su tutto l'armamentario esposto alla bisogna, non perdo neppure tempo ad entrare nel merito. Comunque ne ho scritto spesso su questo sito, se si vuole sapere (ma non ha alcuna importanza) come la penso.
Ci sarebbero tante questioni da discutere e anche argomenti da contrapporre alla posizione presumibilmente neokeynesiana di Riccardo (per es. l'attuale sostenibilità o meno di un certo tipo di controllo statale, data la differenza della posizione e dislocazione del capitale rispetto al passato), ma discutere con un certo tipo di commentatori è una pura perdita di tempo.
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Mario Galati
Sunday, 06 September 2020 18:00
Ci mancava il solito fanatico dottrinario che spara citazioni, selezionandole accuratamente, naturalmente, a conforto dei propri dogmi astratti, e anche chi si accoda riempiendosi la bocca dell'insulto-tabù con il quale spera di censurare il pensiero.
"Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle loro lotte, non è il successo immediato, ma l'unione sempre più estesa degli operai. Essa è agevolata...omissis... Basta questo semplice collegamento per concentrare le molte lotte locali, aventi dappertutto uguale carattere in una lotta nazionale, in una lotta di classe".
"Sebbene non sia tale per contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all'inizio, per la sua forma, lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia".
Le pagine di questi passi cercatevele nelle edizioni che preferite, così, magari rileggerete il Manifesto e forse capirete qualcosa di più rispetto alle citazioni prêt à porter che rappresentano il vostro unico bagaglio teorico, a quanto pare.
Quanto rimanga valido ancora oggi di questa posizione sarebbe da vedere, ma i citazionisti selettivi si astengano da semplici operazioni di taglia e incolla.
Da internazionalisti della chiacchera non vi siete mai posti troppi problemi, né sul piano teorico, né su quello storico. Tutto è facile nella vostra logica binaria elementare. O una cosa è nazionale o è internazionale. Com'è rassicurante andare a letto con queste semplici e granitiche certezze.
Consiglierei di leggere "Sugli stati Uniti di Europa", di un certo nazionalsciovinista di nome Lenin.
Quanto al merito degli argomenti e delle litanie stigmatizzanti sul presunto nazionalsciovinismo, sulla questione immigrati, e su tutto l'armamentario esposto alla bisogna, non perdo neppure tempo ad entrare nel merito. Comunque ne ho scritto spesso su questo sito, se si vuole sapere (ma non ha alcuna importanza) come la penso.
Ci sarebbero tante questioni da discutere e anche argomenti da contrapporre alla posizione presumibilmente neokeynesiana di Riccardo (per es. l'attuale sostenibilità o meno di un certo tipo di controllo statale, data la differenza della posizione e dislocazione del capitale rispetto al passato), ma discutere con un certo tipo di commentatori è una pura perdita di tempo.
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Moreno
Sunday, 06 September 2020 16:51
Una ola e un sorriso per il simpatico e puntuale commento di Schuster .
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Moreno
Sunday, 06 September 2020 16:43
Ottimo articolo. Come si fa a non comprendere come in un ambito imperialista la nozione borghese di sovranismo nazionale, oltre ad essere l’immediato rifugio per le pulsioni xenofobe e reazionarie, si contrapponga alla libera circolazione del lavoro salariato nel’Unione Europea e quindi anche ad una possibile futura unificazione del mercato della forza lavoro a livello continentale : cosa che sarebbe un indubbio vantaggio per la forza lavoro dal punto di vista dei rapporti di classe. Come fanno, questi sovranisti di sinistra, a non accorgersi che nel 2020 l’attuale proletariato è per lo più di origine “straniera”, che è escluso dai diritti di cittadinanza nazionali, e che le posizioni nazionaliste reiterano questa esclusione ? Come fanno a non accorgersi che in realtà un nazionalismo di sinistra non può esistere e che è un’invenzione ideologica con cui si veste di nuovo l’estrema destra e che è praticamente identica a quella a cui aderì, nel 1914, un militante socialista che si chiamava Mussolini ?
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Riccardo
Sunday, 06 September 2020 16:26
Allora, le prime affermazioni si sono rivelate errate. L'URSS non è riuscita ad eliminare i problemi nazionale interni ne esterni, vedi come è avvenuta la dissoluzione della stessa e la ancor più vicina a noi Jugoslavia. I compagni hanno sbaraccato da tempo e non sono più in grado allo stato attuale di influenzare alcunché. Di fatto gli ultimi 100 anni si sono premurati di chiarire la fallacia di certe posizioni, che piaccia o meno. Non si può ragionare come se fossimo a cavallo tra l'ottocento e il primo novecento come se l'ultimo secolo non fosse esistito.
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Schuster
Sunday, 06 September 2020 16:00
Ci mancava chi viene a dare patenti di "marxismo" schierandosi neanche troppo larvatamente con i socialsciovinisti ..Infatti me lo ricordo Marx quando diceva "prima i proletari italiani" ( aggiungendo – giurano i socialsciovinisti - "ejaeja-alalalà" )... O forse, più che Marx, erano Fusaro e Bombacci ? Non lo so; vediamo un po' le fonti, appunto, “marxiste”.. :

“La borghesia ha giocato nella storia un ruolo altamente rivoluzionario(..)Con grande dispiacere dei reazionari essa ha sottratto all'industria il suo fondamento nazionale.(..) L’isolamento e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l'uniformità della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni d'esistenza. Il dominio del proletariato li farà scomparire ancor di più” ( K.Marx – IlManifesto del Partito Comunista )

“Questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda. (…) Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in “una volta” e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che esso comunismo implica” (Marx-Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, pp. 33-34, Editori Riuniti, 1972).

Oppure, per dirla con Lenin :

“La borghesia aizza gli operai di una nazione contro gli operai di un’altra, cercando di dividerli. Gli operai coscienti, comprendendo l’inevitabilità e il carattere progressivo della distruzione di tutte le barriere nazionali operata dal capitalismo, cercano di aiutare a illuminare e a organizzare i loro compagni dei paesi arretrati.” ( Lenin , 1913 , “Capitalism and Workers’ Immigration” )

“Il marxismo sostituisce a ogni nazionalismo l'internazionalismo, la fusione di tutte le nazioni in una unità superiore. (...) Il proletariato non può appoggiare nessun consolidamento del nazionalismo, anzi, esso appoggia tutto ciò che favorisce la scomparsa delle differenze nazionali, il crollo delle barriere nazionali, tutto ciò che rende sempre più stretto il legame fra le nazionalità, tutto ciò che conduce alla fusione delle nazioni” ( Lenin – 1914 , Opere - Editori Riuniti, 1976 - pag 289 )
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Riccardo
Sunday, 06 September 2020 12:02
A Mario Galati.
Grazie.
Il problema che mi pongo non è di favorire lo sciovinismo, ma prendendo ad esempio Chavez e Maduro (con tutte le critiche che si possono fare a quest'ultimo) oppure del tentato colpo di stato in Turchia (contro Erdogan e sia chiaro non sono di certo dalla sua parte) con forze USA presenti nel territorio turco, per mantenere una certa indipendenza e dare alla politica la possibilità di implementare nuove strategie, non si può fare a meno di prendere in mano questi esempi. Poi il campo di discussione è vasto. Io ho posto solo il problema. Di certo però fino ad oggi le strategie intraprese mi paiono un tantinello fallimentari. Qui si parla di probabilità di successo di una strategia rispetto ad un altra e la conseguenza di dirottare le risorse verso quella che dia maggiori possibilità di vittoria. Comunque visto quel che sento in giro non sarà un nostro problema, ma quello delle future generazioni. Forse.
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Mario Galati
Saturday, 05 September 2020 15:26
Scusate se intervengo in questa discussione alla fine e perciò, forse, indebitamente. La mia impressione è che, a prescindere dalla correttezza o meno della posizione di Riccardo, i suoi interlocutori spesso gli contrappongono una posizione astratta e pregiudiziale, con sconfinamenti nella pedanteria alla Manfurio e con gusto tutto postmoderno, molto poco marxista, per le spigolature di particolari, dettagli, "ecc.".
Prima di attribuire patenti di nazionalismo rossobruno (poiché forse è questo il retropensiero di tanti) occorrerebbe rispondere agli argomenti proposti e smontarli, dimostrando che, se non soggettivamente, almeno oggettivamente, le sue posizioni sono tutt'altro che rivoluzionarie. Egli sostiene che lo spazio UE è un ostacolo alla lotta di classe dei lavoratori e che lo spazio nazionale è più adatto, come dimostrerebbe l'esperienza ultradecennale. Sul piano marxista non sarebbe affatto un'eresia e, tralasciando tutto il resto, basterebbe semplicemente rileggersi il Manifesto dei comunisti per confermarlo. Il punto, però, non è confermarlo o smentirlo in astratto, ma nelle concrete condizioni che si danno in questa fase storica. E poi, non sarebbe poco marxista non considerare l'architettura istituzionale come un elemento influente e attivo nella lotta di classe? E l'UE che tipo di architettura è rispetto alla lotta di classe dei lavoratori? È indifferente, è favorevole o è un ostacolo, ossia, uno strumento della borghesia europea per il suo dominio? Ma tutto questo ancora non è sufficiente, poiché occorre considerare i rapporti internazionali. Una rottura con l'UE avverrebbe nel segno degli USA e ancora di più contro la Cina? E poi, come già rilevato, avverrebbe in questa fase sempre sotto il segno dei padroni, liberista e reazionario; sotto un segno sciovinistico corporativo? Qui, come già rilevato, sta il pericolo: la priorità della critica all'UE andrebbe ad ingrossare la piena reazionaria populista sciovinista (eterogenesi dei fini) e a favorire gli USA a discapito della Cina.
Ma se qualcuno riscontra questo senso particolarista socialsciovinista nella posizione di Riccardo non è contrapponendogli uno speculare universalismo astratto, cosmopolitico, e pregiudiziale che si può pensare di criticarlo.
Ripeto, non sto dicendo se Riccardo abbia ragione o meno, ma quale tattica e strategia hanno in mente i suoi interlocutori? Pensano che la rivoluzione sia un processo spontaneo e simultaneo internazionale e che non bisogna prendersi la briga di occuparsi delle forze armate e dei servizi segreti, per dirla con Riccardo?
Io preferirei meno supponenza e pretenzioso autoreferente intellettualismo e più serietà nel trattare le questioni.
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Alfonso
Saturday, 05 September 2020 09:56
Ringraziando Signor Riccardo per avere stimolato questo papiro, grazie soprattutto a tutti coloro che non hanno abboccato alle due questioni reiterate da, appunto, Riccardo. Lì si tocca l'amore, tema assai delicato, e come mette in guardia Paolo Conte, mai scivolare in Parole d'amore scritte a macchina. Ad maiora
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Riccardo
Saturday, 05 September 2020 09:31
Perdindirindina, tutto questa analisi deriva da una sola parolina: eccetera? Vedo comunque che non si affrontano i due punti che avevo espresso: forze armate e servizi segreti. Se per ogni discussione dobbiamo tirare fuori il martiologio dei popoli oppressi non si finisce più e non perché
la questione non sia importante, ma perché bisogna cominciare ad invertire la rotta fattivamente e non sulla carta con dotte disquisizioni su singoli termini e parole. Comunque non sono laureato in papirologia. E questa discussione non sta approdando a niente, a parte qualche lezione di psicologia spicciola.
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Alfonso
Saturday, 05 September 2020 08:26
Signor Riccardo, cominciare con un Gesù e terminare con un Amen potrebbe trarre in inganno, se non fosse che ad esser precisi Lei comincia con un Ohhh e termina con "il caso di dirlo". Meglio, no? Visto che Le piace partire da concetti, occhio con quello di "irrilevante": è una condizione sociale che riguarda miliardi di esseri umani, gran parte dell'esercito proletario mondiale (sa, coloro che non hanno altra risorsa che vendere la propria forza-lavoro per campare), quindi La invito a non sentirsi solo e abbandonato. Si guardi intorno, diriga lo sguardo a chi Le risponde con uno sguardo, e noterà che la Sua presa di coscienza di un fatto reale, che sta ovviamente a fondamento della consapevolezza di chi vorrebbe rappresentare l'esercito proletario mondiale o alcune dei suoi reparti, marca una distinzione, La rende responsabile, La spinge a dire la Sua. E questo rende distinti; non differenti, ma distinti, di diverso colore. Viene prima la irrilevanza, a partire da intere generazioni, porzioni crescenti di continenti, condizioni di salute, per le quali chi porta al Mercato la propria merce, l'unica che ha, non trova compratore, non riesce ad affermarsi come persona, di conseguenza perde quello che fa essere umano, l'unica necessità che gli o le rimane è, caso di dirlo, Amen. Prima deve passare il purgatorio della indifferenza, distoglie lo sguardo da tutto, con l'intermezzo di cercare nel reale la conferma ai preconcetti che gli o le sono stati propinati. Lei dice che la sinistra "è diventata totalmente irrilevante". Se parla della sinistra borghese, non direi. Magari! Se parla del proletariato, ossia della stragrande maggioranza dell'umanità, si tratta di una questione di vita o di morte. Qualcuno potrebbe permettersi il lusso di godersi la irrilevanza, essere accantonato e chiudersi nel proprio feticismo, nel proprio cinismo, non prendere partito, e se riesce ancora a respirare godersi la indifferenza. Lei, Riccardo, mi pare non possa permettersi questo lusso, la Sua angoscia non glielo permette. Se sbaglio, mi corregga.
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Riccardo
Friday, 04 September 2020 23:36
Signor Alfonso, mi faccia capire, si attacca al mio uso di una parola? Vedo comunque che le obiezioni principali su: forze armate, servizi segreti, eccetera vengono tranquillamente accantonate. Perché bisogna mettere in evidenza una parola sola ECCETERA e il significato arbitrario che lei ne da!!! Da qui si capiscono molte cose, anche perché la sinistra è diventata totalmente irrilevante. Beh... Amen. È proprio il caso di dirlo.
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Alfonso
Friday, 04 September 2020 22:43
Signor Riccardo, ci racconti per favore dello stato d'animo che Lei attraversa quando etichetta milioni di esseri umani, ha presente, quelli che appartengono alla Sua stessa specie o almeno presumo, con un "ecc" dopo Libano e Bolivia. Quando digita quelle tre lettere, come si sente? Lo dica, Riccardo, forse le passa l'angoscia, almeno per un po'.
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Riccardo
Friday, 04 September 2020 22:04
Quello che ho letto nei commenti precedenti conferma che la soluzione è solo nazionale. A livello internazionale non accadrà niente di significativo. Gli esempi di Libano, Bolivia ecc. confermano che la sinistra deve dotarsi di una seria politica nei confronti di forze armate e servizi segreti per tenere testa alle potenze straniere. È questo in effetti il lato lasciato sguarnito dalla sinistra. Del resto cosa avrebbe fatto Stalin senza armata rossa contro la Germania? A proposito di grandi alleanze tra oppressi alle ultime elezioni della repubblica di Weimar nel 1933 i partiti di sinistra presero circa 1/3 dei voti, alle prime elezioni libere della repubblica federale tedesca i socialdemocratici presero circa 1/3, bene, come si è comportato questo terzo durante lo sterminio o l'invasione dell'URSS?
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Paolo Selmi
Friday, 04 September 2020 08:39
" Ascusa sciur padrun sa l'em fat tribuler
i eran li premi volti ca 'n saievum cuma fer."
(Sciur parun, canto popolare)
Le mondine non "sapevano come fare"... ma neanche tanto i padroni. E commisero errori madornali, alla fine del primo conflitto mondiale. E un partito organizzato, militanti temprati da decenni di lotte, sconfitte e repressioni, unendo tattica e strategia, riuscì a portare a casa il punto. E lo tenne per i successivi settant'anni. Segnando una delle pagine più gloriose di quella che noi vorremmo, vogliamo essere una lotta di liberazione mondiale, Internazionale, per l'appunto. Proprio ieri, tra l'altro, da quelle parti si celebrava il giorno della Vittoria sul Giappone fascista (3/9/1945): leggevo, anche per quell'avvenimento, come a livello storiografico si sia sempre tentato, invano da quelle parti, con successo da queste, di sminuire l'entrata in campo contro il Giappone dell'Armata Rossa, ma tant'è, giusto per inciso e in riferimento a tanti altri discorsi che sento in giro, leggo sui libri di testo su cui dovrà studiare mia figlia, e su cui immagino già i cinema che farò quando le proverò la lezione, perché non li farò passare, neanche mezzo, e vedo su Raistoria. Ma tant'è. Al tempo, direbbe qualcuno.

Aggiungo velocemente che i padroni hanno imparato, e velocemente, "come fare". Fino a oggi. Oggi l'unica arma che gli è rimasta è far sfiatare la pentola a pressione ogni tanto e legnare, sfiatare e legnare, alternativamente, tirando in ballo la "sicurezza" e dando sempre la colpa a quei poveri cristi che le stanno prendendo. Lo stesso in fase offensiva: blocco padronale avversario, o nemico, faccio sfiatare un po' da loro, e mentre loro sono impegnati a legnare assumo artificialmente le difese dei legnati. In ogni caso, guerra fra poveri e più poveri, funziona sempre.

Per il resto, navigazione a vista e lucro ovunque e dovunque possibile. Se sia un segno positivo o negativo non lo so, lo ammetto. Dall'altra parte non vedo un partito, una forza, un blocco, in grado attualmente di prendere la situazione e giocarla a proprio vantaggio per ribaltare la situazione.

Sicuramente non nascerà nulla spontaneamente. Come non lo è nato nel 1917. Quei settant'anni andrebbero studiati meglio, specialmente oggi. Certe dinamiche potrebbero esserci utili.

Scappo al timbro.
Buona giornata a tutti

Paolo
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Arek
Thursday, 03 September 2020 23:01
Volevo dire a Marku: hai colto la questione politica più importante, la critica al nazionalismo sociale che ritorna, a destra e a sinistra. E, è sicuro, lo capitalizzerà, già lo sta capitalizzando, la destra. E' un classico, come tu ricordi. Anche Alfonso, mi pare, ha colto il punto. Come Giuseppe, che però dà ragione a Moro. Ok, ci sta, è una discussione aperta.
AlsOb, invece, non vuole pronunciarsi sulla questione politica posta dallo scritto: Italexit sì, o Italexit no? Chi sa perché, parla d'altro. Di sport, di sette, di folklore, di Pancho Villa, strano che abbia dimenticato la madonna pellegrina. Parla con l'aria di chi si crede un grande uomo. Con disprezzo verso i comuni mortali. E' un professorone? Probabile. Comunque, affermare senza dimostrare è un metodo squalificante per chi lo usa. Ad esempio, vorrei sapere perché "non c'entra molto Marx" con quanto sostengono i compagni della TIR quando affermano: "Noi puntiamo tutto sulla ripresa della lotta di classe del proletariato e degli sfruttati, qui in Italia, in Europa e nel mondo - e sul fatto che il pieno dispiegamento delle conseguenze della crisi la incentiverà. Non siamo noi che possiamo determinarla. Possiamo, con percentuali infinitesimali allo stato attuale, favorirla o ostacolarla". A me sembra un'affermazione seria. E in linea con la tesi marxiana che sono le crisi a generare le condizioni più favorevoli alla rivoluzione sociale, e non la propaganda e l'agitazione dei piccoli gruppi rivoluzionari, anche se questi possono svolgere un utile lavoro preparatorio.
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Arek
Thursday, 03 September 2020 22:58
Riccardo, guarda: proprio un secolo fa - tra il 1917 e il 1927 - c'è stata una prima prova della rivoluzione proletaria a scala internazionale. I padroni non lo dimenticano mai, molti compagni smemorati sì. Siamo stati battuti, questo è risaputo. La sconfitta è stata terribile, ma la rivoluzione non è scomparsa. E' passata nei continenti colonizzati. Certo, con altri contenuti e obiettivi. Si è trattato però di moti rivoluzionari, e - alla distanza - utili alla causa della rivoluzione anti-capitalista. Da un po' di tempo il capitalismo stesso sta, con i suoi disastri economici, ecologici, bellici, sociali, e con le sue convulsioni, creando le condizioni per un secondo grande scontro epocale. Potremmo essere di nuovo sconfitti. Intanto, però, facciamo gli scongiuri e prepariamoci. Ma l'unica cosa certa, secondo me, è che in un'economia così globalizzata e con lo scontro titanico in atto tra grandi potenze che si disputano anche l'ultimo quadratino di terra, di sottosuolo, di aria, di cielo, di luna, di marte, in questo sconquasso dell'ordine internazionale che è già in atto, è del tutto impensabile (a meno di non far uso di funghi allucinogeni) che ogni paese possa essere lasciato tranquillo a "risolvere i suoi problemi a casa sua". Non lasciano "tranquilli" il Libano, la Siria o la Bolivia, figurati l'Italia. Tu non credi alle favole, però la tua sembra proprio una favola.
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Riccardo
Wednesday, 02 September 2020 21:23
Ad Arek, di crisi ce ne sono state parecchie in questi ultimi 100 anni e non c'è mai stata una rivoluzione mondiale e non ci sarà nemmeno in futuro. Troppi e diversi gli interessi. E la questione europea chiarisce proprio questo. Dove è questa unità d'intenti tra gli sfruttati? Ah sì, come quell'operaio olandese che chiedeva a Rutte di non dare soldi agli italiani. Ogni paese dovrà risolvere i problemi a casa sua.
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Arek
Wednesday, 02 September 2020 19:50
Riccardo, l’analisi è lucidissima, c’è poco da fare. E riguarda la critica dell'Italexit, come strategia e come tattica, e del nazionalismo "sociale", anche se alcuni commenti fanno finta di non capirlo e parlano d'altro, chi sa perché.
La prospettiva delineata è difficile. I compagni che scrivono sono i primi a dirlo. Ma puntano, mi pare, su due fattori: il carattere devastante, storico, di questa crisi; la rinascita del movimento proletario anche in Europa dentro questa crisi. In altre parti del mondo già ci sono i primi segni di questa rinascita, a cominciare dagli Stati Uniti.
Chi non li vede, è cieco. Questo, al di là delle vittorie o delle sconfitte immediate.
In un mondo così globalizzato, c’è una prospettiva di liberazione dell’umanità lavoratrice diversa dall’internazionalismo rivoluzionario? Io sto con loro, anche perché so che quelli che scrivono non stanno in poltrona ad aspettare i miracoli.
A Ricardo dico: tu chiami favole le rivoluzioni sociali che per me e quelli come me sono le "locomotive della storia". In effetti siamo molto lontani.
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Alfonso
Wednesday, 02 September 2020 18:26
Caro AlsOb, lasciami riprendere da quanto accenni riguardo il debito e le generazioni. Come lorsignori dovrebbero aver ormai straimparato, il proletariato non onora il conto lasciato sospeso dallo stato di cose presente. Diventa importante distinguere la storica parola d'ordine "facciamogliela pagare" da "la crisi la paghino i padroni", in quanto la seconda assume che una sola via esista, quella del capitale, per risolvere la crisi. A quale tipo di società serve una coscienza dei rappresentanti della classe operaia che non si riconosce nel movimento nel suo complesso, e nelle sue avanguardie (sai benissimo che questi compagni sono impegnati in numeri ben superiori alla tifoseria calcistica, ma sono sempre affascinato dalle tue provocazioni) si evoca tattica come fosse strategia, e viceversa? Ah, marku, apodittico, poiesis meglio che praxis. Grazie
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michele castaldo
Wednesday, 02 September 2020 18:19
Si, ammettiamolo, come movimento ideale che si rifà al Manifesto di Marx-Engels, stiamo in difficoltà; pertanto ripetere certe tesi che si richiamano a un soggetto, il proletariato classe rivoluzionaria che disarcionerebbe la borghesia e instaurerebbe la sua dittatura, non convince nessuno e non aiuta a riflettere per capire le linee di tendenza attuali.
Partiamo pertanto dalla tesi di fondo che il Pungolo rosso qui e altrove espone e che qualche commento chiama in causa « Dunque noi puntiamo tutto sulla ripresa della lotta di classe del proletariato e degli sfruttati, qui in Italia, in Europa e nel mondo – e sul fatto che il pieno dispiegamento delle conseguenze della crisi la incentiverà. Non siamo noi che possiamo determinarla. Possiamo, ...».
Dunque siamo in presenza di un soggetto positivista, il proletariato, che vien fuori dalla ripresa della lotta di classe in Italia, in Europa e nel mondo.
Vien spontanea la domanda: in base a quali criteri dovrà riprendere la lotta di classe?
Se la risposta è, come sostiene l'articolo, per la crisi capitalistica, il soggetto storico non è il proletariato, no, ma il modo di produzione che entrando in crisi impoverisce oltremodo le masse proletarie e le spinge alla lotta "rivoluzionaria".
Se così stanno le cose non si dovrebbe puntare sulla ripresa delle lotte, no, ma sulla crisi del modo di produzione, il che molta differenza fa.
E' una questione di lana caprina, è un voler spaccare il capello in quattro? No, è un voler correggere un errore teorico che sta a monte di una teoria cui la storia ha dato torto e se ne accorse lo stesso Engels scrivendo: «La storia ha dato torto a noi e a quanti come noi scommettevano sulla non tenuta del capitalismo» (Ci sarebbe già molto da dire, ma ci scosteremmo dall'oggetto in questione). Engels parlava al plurale, dunque alludeva a Marx, e lo stesso Moro in vecchiaia non avrebbe ripetuto le tesi ideologiche del Manifesto.
Sulla Patrimoniale, siamo sinceri: il Pungolo rosso insieme a altri gruppi sostengono l'azione del Si Cobas, al quale va il merito di essersi fatto attrarre dalle necessità - in modo particolare - dei lavoratori della Logistica, un settore molto particolare, fatto di precarietà, caporalato e razzismo col silenzio complice delle maggiori Confederazione Cgil, Cisl e Uil. Sicché la proposta della Patrimoniale vien fatta dal Si Cobas e condivisa dai gruppi di sostegno che cercano di costituire « La tendenza Internazionale o internazionalista ». Si tratta di una proposta - quella della Patrimoniale - che è solo ideologica, senza nessunissima possibilità di essere presa in considerazione. Perché la si fa? Per essere MASSIMALISTI, chiedere cioè quello che nessuno ha il coraggio di chiedere, cioè stare fuori dal coro e fregiarsi così della patente di rivoluzionari. Peggio ancora la si fa con dei calcoli per non indebitare ulteriormente lo Stato e sostenere la spesa pubblica.
Il tutto è campato in aria, perché per imporre una Patrimoniale di una certa portata occorrerebbe un movimento di massa perlomeno pari a quello dei migliori giorni degli anni '70 del secolo scorso. Dunque questi gruppi guardano al passato in un continuum a ripetere, senza capire la differenza tra quegli anni e questi. Proprio quando essi stessi dicono di puntare sulla ripresa della lotta di classe che si scatenerà grazie alla crisi del capitalismo. Altrimenti detto, cari compagni: cercate di dare una certa logica nelle analisi e nei risvolti politici, perché la questione dell'Italexit non può essere affrontata dal punto di vista ideologico, perché a questo livello vale tutto e il suo contrario.
La domanda è molto semplice: il modo di produzione procederà inesorabilmente verso una crisi catastrofica, che non è come quella degli anni venti, cioè di un capitalismo che cresceva. In una crisi catastrofica non è certo che avremo un proletariato che si compatta sul piano internazionale come l'appello di Marx del Manifesto, no, ma stiamo già avendo un INTERLUDIO TORBIDO, basta guardare a quanto sta avvenendo negli Usa per un verso, in Germania per l'altro verso, o in Bielorussia per un senso ancora diverso. E non siamo ancora entrati nel pieno di una crisi economia paurosa dovuta alla pandemia.
In Europa ci troveremo di fonte a un ceto medio che sarà una variabile impazzita, mentre c'è il rischio che il proletariato, proprio perché non vede l'uscita dal capitalismo volga lo sguardo al capitale, al capitalista e al capitalismo come i girasoli guardano il sole.
Pertanto inviterei quanti seriamente sentono gli interessi degli oppressi e sfruttati a guardare meno a ieri e molto di più a quello che REALMENTE VA MATURANDO IN QUESTA CRISI del modo di produzione capitalistico.
Altrimenti si rischia di lavorare per il re di Prussia. Tutto qua.
Michele Castaldo
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Fecondo Giuseppe
Wednesday, 02 September 2020 16:49
Ha ragione Moro, mi dispiace.
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AlsOb
Wednesday, 02 September 2020 15:07
>>>Dunque noi puntiamo tutto sulla ripresa della lotta di classe del proletariato e degli sfruttati, qui in Italia, in Europa e nel mondo – e sul fatto che il pieno dispiegamento delle conseguenze della crisi la incentiverà. Non siamo noi che possiamo determinarla. Possiamo, ...>>>
Con tutta la buona volontà di comprensione questi assomigliano a una folclorica setta che agita qualche slogan per darsi un senso o identità, (nella più benevola delle ipotesi), allo stesso modo, coerentemente e magari con maggiore successo, potrebbero promuovere una tifoseria calcistica. Marx non c'entra molto.
Anche come ripetitori dell'economia volgare sono scarsi, una patrimoniale non serve a finanziare alcunché e che il debito gravi sulle generazioni future è un un poco una mitologia per la diseducazione delle classi inferiori.
Ma viva pancho villa e la rivoluzione sempre!
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Riccardo
Wednesday, 02 September 2020 12:42
La storia ci ricorda che quando si fanno delle analisi e dei progetti è bene avere i piedi ben saldi per terra e le favole lasciarle ai fratelli Grimm. Il commento di Marku ci conferma che il mondo è complesso. Ergo meglio non farsi illusioni.
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marku
Wednesday, 02 September 2020 10:34
https://it.wikipedia.org/wiki/Partito_Nazionale_Fascista

https://it.wikipedia.org/wiki/Nazionalsocialismo

maledetta la Storia
si maledetta, perchè studia il nostro passato
e leva agli smemorati di oggi
l'alibi
a ripetere gli orrori di ieri

quanti socialisti, quanti comunisti e quanti ananrchici
aderirono al fascismo
che permeava di nazionalismo
e di riscossa dei lavoratori
corporartivisti
quella che in realtà era una politica
ispirata e finanziata
dalle elites borghesi
industriali ed a quei tempi anche agrarie.

il nazional socialismo nasce come
risposta
autoritaria e razzista
proprio in contrapposizione
all'internazionalismo socialista
Come ogni nazionalismo poi esasperato
affondè nello sciovinismo
ed infine
in aperta contrapposizione bellica
con gli altri imperialismi
su base nazionale e capitalista,
divenne fabbrica di distruzione e morte

dio, patria e famiglia

oggi declinato
in dio, patria & costituzione

Che sia benedetta la Storia
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Riccardo
Wednesday, 02 September 2020 10:34
Fra l'altro sarebbe già qualcosa se una singola rivolta andasse in porto in uno stato. Figuriamoci rivolte globali che avrebbero inevitabilmente risvolti solo locali. A forza di aspettare la rivoluzione mondiale la gente semplicemente abbandona il campo. La stessa UE è l'esempio palese che quanto scritto dal pungolo rosso è solo un a vaga speranza di un'unione del proletariato che la storia si è ampiamente premurata di smentire. Ma se si crede alle favole, si può dare per certa qualsiasi cosa basta lottare. Beh la lotta non basta. L'Italia se rimarrà nella UE semplicemente diverrà un grande mezzogiorno spartito tra le varie consorterie e un popolo totalmente allo sbando. Come peraltro si sta già vedendo. Ma tanto un giorno ci sarà la rivoluzione mondiale a risolvere tutto.
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Riccardo
Wednesday, 02 September 2020 10:18
Il resto sono tutte le rivolte finite nel nulla perché prive di una direzione negli ultimi decenni.
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Alfonso
Tuesday, 01 September 2020 20:28
Ma non sia timido, Riccardo, ci parli "del resto". Ci dica anche quello che sa delle rivoluzioni, rimuova l'etichetta di "arabe" e sveli al mondo, vada alla radice. Sempre che non le costi troppa fatica rimuovere la lapide che ha messo con quel "andate a finire".
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Riccardo
Tuesday, 01 September 2020 18:39
Ohhh Gesù... A leggere quanto scritto basta aspettare il principe Filippo che grazie alle tre fatine che infondono un incantesimo alla sua spada (di verità: ça va sans dire) sgomina il drago!

https://youtu.be/Ai7O6kTI66M

E a parte questo, le rivoluzioni arabe come sono andate a finire? Per non parlare del resto!

E per quanto riguarda gli affari europei, come mai in una zona senza confini, con elezioni (anche se di un finto parlamento) europee non c'è uno scampolo di unità tra i proletari ecc. dovrebbe adesso, come d'incanto, nascere questa enorme unità d'intenti? Grazie all'azione di piccoli gruppi? E chi guida poi quello che dovrebbe nascere?

Perché poi chiamare in causa chi va con Italexit e non chi fino ad ora ha tanto parlato di questa unità degli europei oppressi senza portare uno straccio di fattibilità politica per una nuova Europa?
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