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Quello che i marxisti non dicono

di Marino Badiale

1. La migliore proposta politica possibile.

Uno degli aspetti più sorprendenti delle discussioni sull'euro è il ritardo o la reticenza nell'assumere la proposta politica dell'uscita da euro e UE da parte del variegato mondo della sinistra radicale, dei marxisti e dei comunisti. Su tratta di un tema sul quale io credo valga la pena di spendere qualche pensiero. Si potrebbe obiettare che occuparsi di un tale mondo, stante la sua residualità e ininfluenza, non serve davvero a nulla. Nonostante la verità di questa osservazione, ritengo lo stesso che le riflessioni che seguono possano essere utili. E' evidente infatti che in Italia e in Occidente stenta moltissimo a coagularsi un movimento di opposizione e contestazione nei confronti della deriva distruttiva e barbarica dell'attuale “capitalismo assoluto”. D'altra parte l'esperienza prova che un tale movimento, che sappia dar vita ad autentiche forze politiche di opposizione, è condizione necessaria per poter contrastare la barbarie incipiente. Ma visto che da anni o decenni ci sono stati, in Italia e probabilmente un po' dappertutto, i più vari tentativi in questo senso, e tutti sono falliti, è probabile che occorra una riflessione non banale sulla natura di questi fallimenti, per sperare di costruire qualcosa che possa sottrarsi a questo destino.

Un esempio eclatante di un tale fallimento è proprio quello del variegato mondo della sinistra radicale, comunista, marxista, che pure aveva ed ha il vantaggio di una tradizione culturale di grande spessore.

Se da questo mondo continuano infatti ad arrivare analisi teoriche generali interessanti e utili, manca completamente la capacità di elaborare una proposta politica sensata. E manca perfino la capacità di riconoscere una proposta politica sensata (come quella dell'uscita da euro e UE) quando ci si imbatte in essa. Nel caso appunto dell'uscita da euro e UE, si tratta di una situazione paradossale, perché, per i motivi che cercheremo adesso di spiegare, essa è realmente la migliore proposta politica che un anticapitalista possa assumere nella situazione attuale.

Prima di provare ad argomentare quest'ultima affermazione, sono necessarie due precisazioni.

In primo luogo, parlando del mondo della sinistra radicale che non prende una posizione chiara di uscita dall'euro non si intende negare, ovviamente, l'esistenza di qualche realtà che invece ha preso una posizione di questo tipo: fra questi, a mia conoscenza, ci sono i Comunisti-Sinistra Popolare di Marco Rizzo, il Campo Antimperialista, il Movimento Popolare di Liberazione, la Rete dei Comunisti (che fa riferimento alla rivista Contropiano), il gruppo che gestisce il sito Marx XXI. Possono ovviamente esserci altre realtà. Il punto è che quelle che ho elencate sono in sostanza eccezioni, almeno fino ad ora, mentre la maggioranza del mondo della sinistra radicale non sembra aver  compreso quello che ho affermato sopra, il fatto cioè che la proposta politica di uscita da euro e UE è la migliore proposta politica che possa essere fatta, oggi in Italia, dal punto di vista di un anticapitalismo radicale.

In secondo luogo, l'affermazione che ho appena fatto, e che nel seguito argomenterò,  necessita di una premessa, cioè del fatto che non è possibile oggi in Italia (e in generale nei paesi avanzati) un progetto politico di rivoluzione, presa del potere e abbattimento del capitalismo da parte di un proletariato rivoluzionario. Se fra i miei lettori c'è qualcuno che non condivide questa premessa, e crede quindi che una rivoluzione comunista sia oggi una concreta possibilità storica, lo prego di interrompere la lettura a questo punto: si tratta di una persona che ha una cosa molto importante da fare, appunto concretizzare la possibilità di una rivoluzione comunista, e non sarebbe giusto che perdesse tempo a leggere un articolo che non gli fornirà nessun aiuto per questo importante compito. Vada a fare la rivoluzione, si abbia i nostri migliori auguri, e quando ci sarà riuscito ci faccia sapere.

Veniamo ora a quanto sopra affermato a proposito di una concreta politica anticapitalistica. Quali dovrebbero essere le caratteristiche di una seria proposta politica di questo tipo, nella situazione attuale?

Come sappiamo tutti (tutti quelli che sono rimasti a leggere questo articolo, dopo che se ne sono andati coloro che credono all'attualità della rivoluzione), non solo non c'è oggi una concreta possibilità rivoluzionaria, ma siamo di fronte, da decenni, ad una massiccia offensiva dei ceti dirigenti del capitalismo mondiale, diretta alla distruzione di tutti i diritti conquistati in precedenza dai ceti subalterni. La classi popolari sono passate, in questi decenni, da una sconfitta all'altra. Non mi dilungo sulla forza e pervasività delle ideologie che sostengono l'attuale capitalismo (l'azienda come modello sociale universale, il consumismo, la competizione), sullo sbandamento, sulla confusione e sulle divisioni delle forze di alternativa, perché sono cose note a tutti. In queste condizioni, è chiaro che le uniche politiche che si possono tentare, con qualche speranza di efficacia, sono politiche di difesa e di limitati contrattacchi, che permettano, in caso di successo, di radunare e rinfrancare le forze di opposizione, mostrando concretamente che, nella guerra che ci hanno scatenato contro, è possibile almeno qualche parziale vittoria.

Se si vuole una concreta proposta politica anticapitalista, essa dovrebbe per prima cosa tentare di contrastare i progetti dei ceti dominanti su qualche punto qualificato: non porsi l'obiettivo della rivoluzione, ma quello del contrasto di qualcuno degli aspetti della situazione  attuale, voluti dai ceti dominanti per meglio piegare la società alle esigenze del capitalismo assoluto. Questo è il primo punto qualificante di una politica di radicalità anticapitalistica. D'altra parte, per avere qualche speranza di successo, una politica anticapitalistica deve collegarsi alla difesa degli interessi dei ceti subalterni. Occorre cioè non solo contrastare i disegni dei ceti dominanti, ma farlo su questioni nelle quali siano seriamente coinvolti gli interessi e i livelli di vita dei ceti popolari, in modo da poter affermare con verità che la vittoria nella battaglia intrapresa può aprire concrete possibilità di miglioramento della vita. Infine, poiché il proletariato in quanto tale è oggi incapace di iniziativa politica e del tutto privo di autonomia ideologica, è chiaro che una tale lotta non potrà farla il proletariato da solo ma avrà bisogno dell'alleanza con altre classi popolari. La battaglia cioè potrà essere vinta solo se sarà una “battaglia di popolo” molto più che una “battaglia proletaria”. Riassumendo, una concreta proposta politica anticapitalistica oggi deve attaccare qualche aspetto importante della costruzione sociale dei ceti dominanti, mostrando che in tal modo si possono difendere gli interessi dei ceti popolari in senso lato (proletari e non).

Sembra del tutto evidente, a chi scrive, che la proposta di uscita da euro e UE è, rispetto a questi requisiti, la migliore possibile, nella situazione data.

In primo luogo, si tratta infatti di una proposta che contesta alcuni degli strumenti che i ceti dominanti si sono dati, negli ultimi decenni, per svolgere il loro attacco, la loro lotta di classe: appunto euro e UE. Sul fatto che euro e UE rappresentino proprio questo rimando al libro scritto con Tringali [1] e, per quanto riguarda l'euro, al libro di Bagnai [2]. Poiché la strategia dei ceti dominanti, in questa fase, mette al centro proprio euro e UE, è chiaro che una proposta politica di attacco a queste realtà è qualcosa che mette in questione aspetti importanti della realtà istituzionale costruita dai ceti dominanti per la guerra di classe che da decenni vanno svolgendo.

In secondo luogo, si tratta di una proposta che permette di impostare una politica di difesa degli interessi dei ceti subalterni. Non mi posso dilungare qui sulle motivazioni di queste affermazioni, e rimando quindi ai due libri citati e ai tanti siti in rete che si occupano di tali questioni [3]. E' comunque ormai sempre più evidente che la minaccia della catastrofe economica che si avrebbe al crollo dell'euro e i conseguenti vincoli europei sono gli strumenti con cui, nei paesi PIGS, viene efficacemente perseguita la distruzione di diritti e redditi dei ceti subalterni, ed è altresì evidente che dentro all'euro e ai suoi vincoli è impossibile un reale mutamento delle politiche economiche di tali paesi. Se si vuole dunque tentare un qualsiasi tipo di politica economica favorevole ai ceti subalterni, l'uscita dall'euro appare condizione necessaria e preliminare. Insisto su questo punto: come abbiamo scritto con Tringali nel libro citato, è certo che l'uscita da euro e UE rappresenta una condizione necessaria, preliminare ma non sufficiente per la difesa dei ceti popolari. Su questo ritornerò nel seguito, discutendo alcuni interventi di Emiliano Brancaccio. Il punto è che la necessità di cui s'è detto è rigida: se si vuole colpire qualche altro punto del fronte di attacco dei ceti dominanti,  per esempio le politiche di austerità o il Fiscal Compact, si arriva comunque al tema dell'euro, sia perché esse vengono giustificate appunto con la necessità di restare nell'euro, sia perché, se si rimane nell'euro, è quasi impossibile rifiutare le politiche di austerità, perché nell'euro si è persa ogni sovranità e ogni possibilità di scegliere la propria politica economica. La proposta politica di uscita dall'euro permette così di unificare le varie proteste che le attuali politiche di austerità stanno facendo crescere, dando ad esse un obiettivo che trascende le singole proteste, e pemette ad esse, se acquisito dai vari gruppi in lotta, un importante salto di qualità e di coscienza.

In terzo luogo, la proposta di uscita dall'euro viene incontro agli interessi di strati popolari più ampi del lavoro dipendente: artigiani, piccoli imprenditori, piccoli commercianti, giovani professionisti senza prospettive, e così via, che subiscono anch'essi in prima persona il tracollo economico del paese conseguente alle politiche di austerità imposte dalla permanenza nell'euro. Questo fa sì che potenzialmente si tratti di una proposta di grande forza, di una battaglia che può effettivamente essere vinta. E dovrebbe essere chiaro come una vittoria in una simile battaglia cambierebbe notevolmente la situazione politica, rinfrancando e irrobustendo le forze degli oppositori allo “stato di cose esistente”. Una battaglia vinta, anche se non è la battaglia finale, ha sempre un effetto positivo sui ceti subalterni, specie nella realtà attuale nella quale tali ceti sono da decenni sottoposti al bombardamento ideologico secondo il quale non vi è alternativa e ogni resistenza ai poteri dominanti è illusoria.


2. Una discussione con Brancaccio.


Sono queste le ragioni per le quali sostengo che la parole d'ordine dell'uscita dall'euro dovrebbe essere fatta propria senza esitazione dagli ambienti della sinistra radicale (marxista e comunista o più genericamente anticapitalista). Questa tesi può essere ulteriormente approfondita prendendo in esame alcuni interventi recenti di Emiliano Brancaccio (qui e qui), per mostrare come, a partire da essi, che pure non assumono in maniera esplicita la posizione dell'uscita dall'euro, si possano capire ancora più chiaramente le ragioni a favore di tale uscita.

In questi interventi, Brancaccio discute le possibili conseguenze dell'uscita dall'euro. Egli argomenta, sia sul piano teorico sia su quello dell'evidenza empirica relativa ad episodi passati di sganciamento di un paese da un regime di cambi fissi, che le conseguenze sui salari possono essere diverse. La conseguenza che ne sembra trarre l'autore è che, piuttosto che schierarsi per la permanenza o l'uscita dall'euro, occorrerebbe pensare a una serie di misure che possano, in caso di deflagrazione dell'eurozona, proteggere i ceti subalterni da ricadute negative. In sostanza, dice Brancaccio, l'uscita dall'euro può essere gestita in modo più favorevole ai ceti subalterni o in modo ad essi sfavorevole, cioè “da sinistra” o “da destra”, per usare le espressioni di Brancaccio.

Pur non credendo più all'utilità delle categorie di “destra” e “sinistra”, non posso che concordare con ciò che dice Brancaccio. Mi pare si possano fare due osservazioni, per sviluppare quanto fin qui detto. La prima è che sembrerebbe possibile sostenere che, per quanto “brutta” possa essere l'uscita dall'euro, la permanenza sia ancora più brutta. Cioè che, se anche l'uscita dall'euro fosse gestita in modo negativo per i ceti popolari, i costi dell'uscita, per tali ceti, potrebbero comunque essere minori rispetto ai costi della permanenza. Questo lo si intuisce anche dai dati che riporta Brancaccio: se davvero la deflazione salariale necessaria per salvare l'euro è dell'ordine del 30% rispetto all'attuale livello salariale, se davvero in Grecia si è avuto un crollo dei salari reali di diciotto punti e un crollo del salario minimo del 44%, allora viene da pensare che perfino l'uscita “da destra” dall'euro sia meno disastrosa, rispetto a simili esiti, per i ceti subalterni. Insomma, per usare il linguaggio di Brancaccio, se si può essere d'accordo sul fatto che è possibile uscire dall'euro “da destra” oppure “da sinistra”, occorre però aggiungere che la cosa più “di destra” di tutte è appunto rimanerci, nell'euro.

Ma l'osservazione più importante è però un'altra. Infatti, è mia opinione che i due articoli di Brancaccio sopra citati mostrino, con grande chiarezza, e forse al di là delle intenzioni dell'autore, l'enorme vantaggio politico per i ceti subalterni, dell'uscita dall'euro. Infatti, cosa fa in sostanza Brancaccio in questi articoli? Egli esamina le conseguenze, sulle diverse classi sociali, di diverse possibili scelte di politica economica, e suggerisce che la sinistra si mobiliti a favore delle scelte di politica economica più favorevoli ai ceti subalterni. Una cosa normalissima, si dirà. Certo, una cosa normalissima, che da decenni in questo paese è impossibile fare. In Italia da decenni non è più possibile una autentica discussione di politica economica, perché non è più possibile decidere alcunché sull'economia: da decenni in Italia i dati fondamentali delle politiche economiche sono decisi altrove. La politica economica è obbligata dai vincoli europei, prima dalla necessità di entrare “in Europa”, poi di entrare nell'euro, poi di rimanerci. Con l'adesione ai vincoli europei e poi all'euro il nostro Paese ha rinunciato ad avere una propria politica economica, all'interno della quale si possano fare delle scelte che, inevitabilmente, favoriranno alcuni e non altri. Ecco dunque l'inestimabile vantaggio dell'uscita dall'euro: quello di riprendere in mano la possibilità della democrazia, della decisione collettiva. Nello scrivere gli articoli citati, Brancaccio è portato a discutere di possibili scelte diverse di politica economica non per motivi ideologici, perché lui è di sinistra o marxista o quant'altro, ma per motivi strettamente logici: infatti uscire dall'euro significa riprendere in mano alcuni strumenti della politica economica nazionale, e nel momento in cui li riprendi in mano, è ovvio che devi porti il problema di cosa farne. Insomma, il fatto stesso che Brancaccio, nello scrivere gli articoli citati, sia portato inevitabilmente a discutere di scelte diverse di politica economica, ci fa capire con tutta la chiarezza necessaria cosa significa l'adesione ai vincoli europei e all'euro: significa appunto la perdita della possibilità di scegliere e quindi lo svuotamento della politica e della democrazia. E simmetricamente ci fa capire cosa potremmo ritrovare, uscendo da euro e UE: appunto la possibilità di scegliere, di decidere e quindi anche di combattere. In una parola, la politica. Ecco dunque la vera natura di euro e UE: si tratta di una espropriazione della politica e della democrazia.

Torniamo allora al discorso iniziale. Avevamo detto che la proposta politica di uscita da euro e UE è la migliore proposta politica possibile, nelle condizioni date. L'esame delle tesi di Brancaccio ci fa intuire che essa è addirittura l'unica proposta politica possibile, perché è l'unica proposta che riapra lo spazio alla politica. Qualsiasi altra proposta politica, se non prevede l'uscita da euro e UE, accetta il fatto che le fondamentali politiche economiche del paese siano decise altrove, non dagli elettori, dal Parlamento e dal Governo di questo paese. E allora si tratta evidentemente di proposte prive di qualsiasi serietà, qualunque sia il radicalismo del quale si ammantano.


3. Obiezioni non convincenti


Speriamo adesso che la tesi che abbiamo esposto all'inizio sia più chiara. Ma se quanto abbiamo fin qui sostenuto è ragionevole, si ripropone la domanda iniziale: perché la sinistra radicale, di ispirazione marxista e comunista, non assume con forza e decisione la parola d'ordine dell'uscita dall'euro? Perché anzi non l'ha sostenuta per prima?

Si tratta di una domanda rispetto alla quale non ho risposte sicure. Ne accennerò solo alla fine di questo scritto, perché dobbiamo prima vedere se nella posizione maggioritaria della sinistra radicale ci siano delle ragioni valide. Potrebbero infatti esserci delle validissime ragioni contrarie all'uscita dall'euro, che fin qui non abbiamo preso in considerazione, a contrastare le ragioni favorevoli che ho sopra esposto, per cui la posizione della maggioranza della sinistra radicale sarebbe il ponderato risultato di un bilanciamento fra ragioni opposte. Ora, non posso naturalmente conoscere tutte le possibili obiezioni elaborate negli ambiti della sinistra radicale. Ne conosco però un certo numero, grazie al fatto che da circa un paio d'anni sostengo in varie occasioni le tesi che ho fin qui esposto. Cercherò di discutere nel seguito alcune di queste obiezioni, senza indicare luoghi precisi, perché non si tratta di polemizzare con specifiche persone o gruppi ma di criticare uno “spirito” diffuso negli ambienti di cui stiamo discutendo.

1
.Un primo gruppo di obiezioni consiste in sostanza nel dire che con l'uscita dell'euro non si cambiano radicalmente le condizioni attuali. Naturalmente, dato che i nostri critici sono in genere persone intelligenti, le obiezioni non vengono formulate in questo modo. Ma nella sostanza a questo si riducono. Si può dire che con l'uscita dall'euro la struttura attuale del capitalismo finanziario rimarrebbe immutata, oppure far  notare che l'uscita dall'euro non toccherebbe l'attuale disposizione dei poteri nazionali e internazionali, per cui l'uscita eventuale verrebbe gestita ovviamente in modo opposto agli interessi dei ceti subalterni, e non toccherebbe neppure la struttura del capitalismo internazionale, con la sua gerarchia di imperialismi in competizione.

Si può iniziare a replicare a queste obiezioni con una domanda: ma se invece si resta nell'euro, questo ci permetterebbe di incidere sull'attuale situazione del capitalismo finanziario, sulla struttura gerarchica degli imperialismi o sul potere dei  ceti dominanti nazionali? Quello che intendo dire è che, se si deve discutere la validità della proposta politica di uscita dall'euro, le conseguenze dell'uscita devono essere confrontate con le conseguenze della permanenza nell'euro, e le obiezioni che vengono formulate contro la proposta dell'uscita devono venire “testate” andando a vedere cosa presumibilmente accadrebbe se invece nell'euro ci si rimane. Ora, è evidente che dal punto di vista delle obiezioni qui esaminate, non cambia assolutamente nulla a restare o a uscire dall'euro: esse quindi non sono obiezioni all'uscita dall'euro.

In realtà, sono obiezioni a qualsiasi politica che sia oggi concretamente proponibile. Esse infatti non tengono conto della realtà di cui abbiamo parlato all'inizio. Siamo in una situazione di profonda sconfitta, che dura da decenni. Stiamo cercando una proposta politica che possa permettere di difendere i ceti popolari e di ottenere qualche limitata vittoria. E' chiaro, è banalmente ovvio, che in queste condizioni non si può pensare di cambiare la struttura del capitalismo internazionale, e neppure di abbattere dall'oggi al domani i ceti dominanti nazionali e internazionali. Non c'è nessuna proposta politica concreta che possa oggi cambiare radicalmente questi dati di fatto. In sostanza, come abbiamo detto sopra le obiezioni che abbiamo esaminato,  riducendole all'osso,  si riducono a dire che con la nostra proposta non si cambia radicalmente la situazione globale. Alla fin delle fini, l'obiezione è che con l'uscita dall'euro non si abbatte il capitalismo.  Ma abbiamo già detto sopra cosa pensiamo di questa obiezione.

Analogo discorso si può fare per obiezioni più semplici e dirette, che in sostanza vogliono dire la stessa cosa: come quella secondo la quale lira ed euro sono in ogni caso strumenti del capitalismo, oppure che, come ci è stato detto in un dibattito pubblico, essendo l'euro un semplice strumento del potere capitalistico, se si abbatte l'euro, allora il potere capitalistico si creerà un altro strumento, e quindi non serve combattere l'euro. Che è come dire che i soldati dell'Armata Rossa non dovevano colpire i panzer tedeschi, perché erano solo strumenti del nazismo e distrutto uno il nazismo ne avrebbe fabbricati altri, e che i vietnamiti non dovevano abbattere i B52 che li stavano bombardando, per gli stessi motivi. Non c'è bisogno, credo, di aggiungere nulla a quanto già detto per criticare questa posizione.

2.
Un secondo gruppo di obiezioni riguarda il fatto che l'uscita dall'euro potrebbe non rappresentare una autentica difesa dei ceti popolari. Essa potrebbe avere effetti negativi proprio sui livelli di vita dei ceti che si vogliono difendere. Possiamo essere brevi su questo punto perché lo abbiamo già trattato discutendo gli articoli di Brancaccio. Ribadiamo il punto: l'uscita dall'euro è condizione necessaria per riprendere in mano la politica economica e quindi per poter fare politiche economiche favorevoli ai ceti subalterni.  A questo possiamo aggiungere ancora la seguente osservazione. E' vero che di fronte all'uscita dall'euro i meccanismi impersonali del capitalismo potrebbero provocare controreazioni negative, e i poteri dominanti nazionali e internazionali potrebbero reagire colpendo il nostro paese in maniera da far pagare ai ceti subalterni il prezzo di una simile scelta. Il punto è, come al solito, che questo vale per qualsiasi proposta politica concreta che si possa fare nella situazione attuale. Nessuna proposta politica concreta può ragionevolmente pensare di abbattere il capitalismo e i suoi gruppi dominanti, nel breve e medio periodo, e quindi qualsiasi cosa si faccia si sarà sempre esposti ai contraccolpi “impersonali” del meccanismo capitalistico e a calcolate ritorsioni da parte dei ceti dominanti. Vogliamo raddoppiare gli stipendi dei lavoratori? Vogliamo investire nella scuola e nell'assistenza sanitaria? Vogliamo bloccare i movimenti dei capitali? Ognuna di queste proposte, e anche tutte assieme, e anche qualsiasi altra cosa si possa proporre che non sia l'abbattimento del capitalismo, lascia in piedi la logica capitalistica con i suoi vincoli, e lascia ai poteri dominanti la possibilità di ritorsioni:  cosicché c'è sempre la possibilità che vengano annullati i vantaggi per i ceti subalterni che si potevano sperare da esse.

Altre obiezioni le abbiamo discusse nel libro con Tringali, sopra citato, e quindi non riprenderò le nostre argomentazioni ma mi limiterò ad enunciarle (mettendo fra parentesi, in pillole, le nostre risposte): abbiamo bisogno di stare nell'UE per non perdere peso geopolitico (è invece proprio restandoci che stiamo perdendo sia peso economico sia peso politico),  la tesi dell'uscita dall'euro è venuta originariamente dalle destre (vero o falso che sia, la cosa non ha ovviamente nessuna importanza), con la proposta di uscita dall'euro si vuole tornare alle svalutazioni competitive (quando invece la proposta serve a difendere il nostro paese dalla svalutazione competitiva che ha operato la Germania grazie all'euro), non bisogna uscire da euro/UE ma bisogna cambiarli (impossibile in mancanza di un soggetto sociale alternativo capace di azione a livello europeo).


4. Conclusioni


Le obiezioni alla proposta di uscita dall'euro, che circolano negli ambienti della sinistra radicale, ci sembrano in generale poco convincenti. Almeno quelle a noi note.

Eccoci allora tornati al problema iniziale: perché la proposta dell'uscita dall'euro non può essere accettata? E proprio da coloro che dovrebbero esserne i sostenitori più convinti? Perché i marxisti non dicono “usciamo dall'euro”?  Come ho detto sopra, non ho risposte precise. Credo si tratti del manifestarsi di alcuni difetti di fondo del mondo della sinistra marxista e comunista, difetti che sono all'origine della sua attuale irrilevanza. Da una parte vi sono quei piccoli partitini che hanno come unica prospettiva politica quella dell'allenza col centrosinistra, e quindi non possono semplicemente accettare l'uscita dall'euro come una possibile proposta politica. Dall'altra vi è l'infinitesimale mondo della sinistra ancora più a sinistra (bordighisti, trotskisti e così via), per la quale il discorso è diverso rispetto ai precedenti, ed è probabilmente legato ad una radicale incapacità di fare politica, e quindi anche solo di pensare a qualcosa che possa assomigliare ad una proposta politica concreta, reale, capace di incidere sul serio nella realtà.

E' mia convinzione che una qualsiasi forza di autentica alternativa debba avere presenti questi limiti della sinistra radicale, marxista e comunista, per poterli superare e non ripeterne gli errori. Cominciando appunto a dire, finalmente, “fuori dall'euro, fuori dall'UE”.

[1] M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell'euro, Asterios 2012.

[2] A.Bagnai, Il tramonto dell'euro, Imprimatur 2012.

[3] Fra i quali http://goofynomics.blogspot.it/, http://tempesta-perfetta.blogspot.it/, http://vocidallestero.blogspot.it/, http://www.appelloalpopolo.it/, oltre ai siti marxisti citati sopra.
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