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Uscire dall’Euro, ma come?

di Frédéric Lordon

Questo articolo è apparso su “Le Monde Diplomatique” di agosto. Si tratta di un articolo dell’economista Frédéric Lordon. Ho voluto proporvelo in primo luogo perché il suo modo di ragionare è molto differente da certi economisti  italiani. Non ci troverete le facili formulette e la strampalata Area Valutaria Ottimale (sulla quale vi rimando qui a Keynesblog), né l’idea che la “svalutazione competitiva” sia la bacchetta magica. Se amate questo genere di cose sapete dove andare. In secondo luogo perché tratta temi come la sovranità che so interesseranno alcuni. In terzo luogo perché le sue proposte di uscita dall’Euro hanno il merito di essere europeiste. In altri termini non viene buttata l’acqua sporca ed il bambino. In rete è apparsa una versione ridotta e mutilata che faceva pensare che l’autore dicesse delle cose differenti da quelle che, in realtà dice.Questa è la versione integrale (mancano solo le note). Come al solito vi avverto che è un pezzo molto lungo che necessità di pazienza e concentrazione. I passi grassettati sono miei. Buona lettura [Ars Longa].

 

Molti, specialmente a sinistra, continuano a credere che l’euro verrà modificato. Che passeremo dall’attuale euro dell’austerità a un euro finalmente rinnovato, progressista e sociale. Questo non succederà. Basta pensare all’assenza di qualsiasi leva politica nell’attuale immobilismo dell’unione monetaria europea per farsene una prima ragione.

Ma questa impossibilità poggia soprattutto su un argomento molto più forte, che può essere espresso con un sillogismo.

In primo luogo: l’attuale euro è il risultato di una costruzione che, anche intenzionalmente, ha avuto come effetto quello di dare tutte le soddisfazioni possibili ai mercati dei capitali e strutturare la loro ingerenza sulle politiche economiche europee. Inoltre: qualsiasi progetto di trasformazione significativa dell’euro è ipso facto un progetto di smantellamento del potere dei mercati finanziari e di espulsione degli investitori internazionali dal campo dell’elaborazione delle politiche pubbliche.
 Ergo: 1) i mercati non lasceranno mai che si concepisca, sotto i loro occhi, un progetto la cui finalità evidente è quella di sottrarre loro il potere disciplinare; 2) appena un siffatto progetto cominciasse ad acquisire un briciolo di consistenza politica e qualche probabilità di essere attuato, si scatenerebbero una speculazione e una crisi di mercato acuta che non lascerebbero il tempo di istituzionalizzare una costruzione monetaria alternativa, e il solo esito possibile, a caldo, sarebbe il ritorno alle monete nazionali.

A quella sinistra «che ancora ci crede», non resta che scegliere tra l’impotenza indefinita o l’avvento di quel che pretende di voler evitare (il ritorno alle monete nazionali), non appena il suo progetto di trasformazione dell’euro cominciasse a esser preso sul serio! Bisogna poi chiarire cosa intendiamo in questa sede per «la sinistra»: certamente non il Partito socialista (Ps)  che oramai con la sinistra intrattiene esclusivamente rapporti di inerzia nominale, né la massa indifferenziata degli europeisti, che, silenziosa o beata per due decenni, scopre solo ora le tare del suo oggetto prediletto e realizza, con sgomento, che potrebbe andare in frantumi. Ma un così lungo periodo di beato torpore intellettuale non si recupera in un batter d’occhio. E così, la corsa alle ancore di salvezza è cominciata con la dolcezza di un risveglio in piena notte, in un miscuglio di leggero panico e totale impreparazione.

In verità, le scarne idee a cui l’europeismo aggrappa le sue ultime speranze sono diventate parole vuote: titoli di stato europeo (o eurobond), «governo economico», o ancora meglio il «balzo in avanti democratico» di François Hollande – Angela Merkel, sentiamo fin da qui l’inno alla gioia -, soluzioni deboli per un pensiero degno della corazzata Potëmkin che, non avendo mai voluto approfondire nulla, rischia di non capire mai niente. Può darsi, d’altronde, che si tratti non tanto di comprendere quanto di ammettere. Ammettere finalmente la singolarità della costruzione europea, che è stata una gigantesca operazione di sottrazione politica.

Non è che, dicendo «democrazia» queste persone hanno tutt’altra cosa in testa?
In una sorta di confessione involontaria, in ogni caso, il rifiuto della sovranità equivale a un rifiuto della democrazia in Europa. Il «ripiegamento nazionale» diventa allora lo spauracchio destinato a far dimenticare questa piccola mancanza. Si fa un gran clamore per un Fronte Nazionale al 25%, ma senza mai chiedersi se questa percentuale – che in effetti è allarmante! – non ha per caso qualcosa a che fare, addirittura molto a che fare, con la distruzione della sovranità, non intesa come esaltazione mistica della nazione, ma come capacità dei popoli di determinare il loro destino.

Cosa resta infatti di questa capacità in una costruzione che ha scelto deliberatamente di neutralizzare, per via costituzionale, le politiche economiche – di bilancio e monetarie – sottomettendole a delle regole di condotta automatica iscritte nei trattati? I difensori del «sì» al Trattato costituzionale europeo (Tce) del 2005 avevano finto di non vedere che l’argomento principale del «no» risiedeva nella parte III, certo acquisita dopo Maastricht (1992), Amsterdam (1997) e Nizza (2001), ma che ripeteva attraverso tutte queste conferme, lo scandalo intrinseco della sottrazione delle politiche pubbliche al criterio fondamentale della democrazia: l’esigenza di rimessa in gioco e di reversibilità permanenti.
 Perché non c’è più niente da rimettere in gioco, neanche da rimettere in discussione, quando si è scelto di scrivere tutto e una volta per tutte in dei trattati inamovibili. Politica monetaria, uso dello strumento budgetario, livello di indebitamento pubblico, forme di finanziamento del deficit: tutte queste leve fondamentali sono state scolpite nel marmo.
Come si potrebbe discutere del livello di inflazione desiderato quando quest’ultimo è stato affidato a una Banca centrale indipendente e tagliata fuori da tutto? Come si potrebbe decidere una politica budgetaria quando il suo saldo strutturale è predeterminato («pareggio di bilancio») ed è fissato un tetto per il suo saldo corrente? Come decidere se ripudiare un debito quando gli Stati possono finanziarsi solo sui mercati di capitali?
 Lungi dal fornire la benché minima risposta a queste domande, anzi, con l’approvazione implicita che danno a questo stato di cose costituzionale, le trovate da concorso per le migliori invenzioni europeiste sono votate a passare sistematicamente accanto al nocciolo del problema.

Ci si domanda così quale senso potrebbe avere l’idea di «governo economico» dell’eurozona, questa bolla di sapone, che il Ps propone, quando non c’è proprio più niente da governare, dal momento che tutta la materia governabile è stata sottratta a qualsiasi processo decisionale per essere blindata in dei trattati.
 Sotto le apparenze di un gran balzo in avanti tramite la sofisticazione finanziaria, riallacciandosi in questo alla strategia europea dell’ingranaggio “tecnico”, gli Eurobond, dal canto loro non hanno nessuna delle proprietà immaginate dai loro ideatori. La Germania che gode dei tassi di interesse più bassi quando chiede prestiti sui mercati, sa molto bene quanto le costerebbe essere accomunata  ai poveracci del Sud. Se acconsentisse, in cambio del suo impegno alla mutualizzazione finanziaria, chiederebbe di seguire la sua concezione di ideale europeo, ossia un surplus enorme di sorveglianza e ingerenza nelle politiche economiche nazionali – proprio come ha fatto, attraverso i trattati e i patti, al momento di entrare nella mutualizzazione monetaria.

Ciò vuol dire che, lungi dall’alleggerire, per quanto lievemente, le tare politiche della presente costituzione europea, gli eurobond le appesantirebbero  ulteriormente.
Chi può immaginare anche solo per un istante che la Germania acconsentirebbe a entrare nel meccanismo di solidarietà finanziaria di un debito condiviso, ossia a essere automaticamente costretta a pagare in caso di default di un paese qualsiasi, senza esigere, per il tramite di una costituzione rafforzata, un diritto di controllo drastico e permanente, accompagnato da una procedura di messa sotto tutela al minimo scostamento da parte di uno dei «partner»? L’inasprimento dei vincoli di governance automatica e forme di «troikizzazione» generalizzata – messa sotto tutela degli Stati da parte della Commissione, della Banca centrale europea (Bce) e del Fondo monetario internazionale – sono il solo risultato che ci si può attendere dagli eurobond. In altri termini, essi non farebbero che aggravare la crisi politica in cui l’Europa sta già sprofondando

In questa vicenda, la Germania è stata l’artefice principale della sottrazione generalizzata di sovranità, unica soluzione ammissibile ai suoi occhi quando si tratta di condividere un destino economico e soprattutto monetario con altri paesi, che essa ritiene incapaci di esercitare la loro sovranità se non per il peggio. Quindi, neutralizzazione generale! Resta viva e vegeta solo… la sovranità tedesca, che è stata trasposta tale e quale nelle istituzioni economiche e monetarie europee.


Le grida di spavento che accolgono qualsiasi chiamata in causa della Germania si succedono allora talmente stereotipate che finiscono per dirla più lunga su quelli che le emettono che non sull’oggetto in questione. Come spesso accade nelle forme di razzismo all’inverso, che   credono   di   negarsi esse stesse professando delle amicizie troppo sbandierate per essere sincere, i più ossessionati dalla questione tedesca sono forse proprio quelli che, proclamando la loro germanomania, rifiutano qualsiasi analisi. A metà strada tra la filia e la fobia, due poli che non lasciano spazio al ragionamento, vi è la possibilità di portare avanti un’analisi oggettiva delle complessità strutturali, dei retaggi storici e dei rapporti di compatibilità o incompatibilità che ne risultano quando si tratta di far vivere insieme paesi diversi ricercando un grado di integrazione più elevato. In questo caso, bisogna proprio avere i paraocchi per non vedere che la Germania si è costruita una convinzione collettiva attorno alla moneta, che è per essa una posta in gioco così elevata da non poter fare la benché minima concessione in materia. Se ha accettato di entrare nell’euro, è stato solo alla condizione sine qua non di poter dettare la sua architettura istituzionale alla moneta unica, ricalcata sul proprio sistema nazionale. Poco importa che la Germania si sia persa dietro l’idea (falsa) che la sua iperinflazione del 1923 sia stata l’anticamera del nazismo, quando la deflazione del 1931 lo è stata probabilmente ben di più: la Germania ci crede, e agisce conformemente a questa convinzione. Nessuno può rimproverarle di avere la storia che ha avuto, né di raccontarla in un certo modo. Nessuno può rimproverarle di aver concepito una visione singolare di quel che deve essere un ordine monetario, e di rifiutare di entrare in un sistema diverso. Ma si può senza dubbio rimproverare a Berlino di imporre le sue idee fisse a tutti! E se è perfettamente legittimo lasciare che la Germania segua le sue ossessioni monetarie, è altrettanto legittimo non volerle seguire. In special modo quando questi principi monetari non convengono alle strutture economiche e sociali degli altri paesi, e nel nostro caso, ne conducono qualcuno verso il disastro.

Infatti, alcuni Stati membri hanno bisogno di svalutazione; alcuni, di lasciar aumentare il deficit; altri di ripudiare una parte del loro debito; altri ancora di inflazione. E tutti hanno soprattutto bisogno che questi aspetti ridiventino oggetto di deliberazioni democratiche! Ma i principi tedeschi, iscritti nei trattati, lo vietano.
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Che non ci sia modo di sperare nel «balzo in avanti democratico» proposto da Hollande e Merkel è probabilmente un eufemismo. La riattivazione di un progetto federalista rimane un orizzonte molto vago, finche non sarà spiegato in cosa consisterebbe e non ci si darà la pena di esaminarne le condizioni di fattibilità. Occorrerebbe prima chiedere ai partigiani dell’avanzata federalista di illustrarci per quale miracolo la Germania accetterebbe di reintrodurre tutte queste questioni nel quadro di una deliberazione democratica, quando invece si è metodicamente sforzata di escluderle; e poi domandar loro se pensano che un federalismo sempre costituzionalmente impossibilitato a discutere di tali questioni resterebbe ai loro occhi un «balzo in avanti democratico».

Come semplice esercizio intellettuale, ammettiamo pure l’ipotesi di una democrazia federale europea in piena regola, con un potere legislativo europeo degno di questo nome, ovviamente bicamerale, dotato di tutte le sue prerogative, eletto a suffragio universale, come l’esecutivo europeo (di cui comunque non si prevede quale forma potrebbe prendere). La domanda che si porrebbe a tutti coloro che sognano così di «cambiare l’Europa per superare la crisi» sarebbe la seguente: riescono a immaginare la Germania che si piega alla legge della maggioranza europea se per caso il Parlamento sovrano decidesse di riprendere in mano la Banca centrale, di rendere possibile un finanziamento monetario degli Stati o il superamento del tetto del deficit di bilancio? Dato il carattere generale dell’argomento, aggiungeremo che la risposta – ovviamente negativa – sarebbe la stessa, in questo caso lo speriamo!, se questa stessa legge della maggioranza europea imponesse alla Francia la privatizzazione integrale della Sicurezza sociale. A proposito, chissà come avrebbero reagito gli altri paesi se la Francia avesse imposto all’Europa la propria forma di protezione sociale, come la Germania ha fatto con l’ordine monetario, e se, come quest’ultima, ne avesse fatto una condizione imprescindibile…

Bisognerà dunque che gli architetti del federalismo finiscano per accorgersi che le istituzioni formali della democrazia non esauriscono affatto il concetto, e che non c’è democrazia vivente, né possibile, senza uno sfondo di sentimenti collettivi, unico capace di far acconsentire le minoranze alla legge della maggioranza; poiché, in fin dei conti, la democrazia è questo: la deliberazione più la legge della maggioranza.
Ma questo è proprio il genere di cose che gli alti funzionari – o gli economisti – sprovvisti di qualsiasi cultura politica, e che però formano l’essenziale della rappresentanza politica nazionale ed europea, sono incapaci di vedere. Questa povertà intellettuale ci porta regolarmente ad avere questi mostri istituzionali che ignorano il principio di sovranità, e il «balzo in avanti democratico» si annuncia già incapace di comprendere come questo comune sentire democratico sia una condizione essenziale e di come sia difficile soddisfarla in un contesto plurinazionale.

Una volta ricordato che il ritorno alle monete nazionali permetterebbe di soddisfare questa condizione, ed è tecnicamente praticabile, basta che sia accompagnato da alcune semplici misure ad hoc (in particolare il controllo sui capitali), saremo in grado di non abbandonare completamente l’idea di fare qualcosa in Europa.
Non una moneta unica, poiché questa presuppone una costruzione politica autentica, per il momento fuori dalla nostra portata. Ma una moneta comune, questo sarebbe fattibile! Tanto più che gli argomenti validi a sostegno di una forma di europeizzazione restano, a patto ovviamente che gli inconvenienti non superino i vantaggi…

L’equilibrio si ritrova se, invece di una moneta unica, si pensa a una moneta comune, ossia un euro dotato di rappresentanti nazionali: degli euro-franchi, delle euro-pesetas, ecc. Immaginiamo questo nuovo contesto in cui: le denominazioni nazionali dell’euro non sono direttamente convertibili verso l’esterno (in dollari, yuan, ecc.) né tra loro. Tutte le convertibilità, esterne e interne, passano per una nuova Banca centrale europea che funge in qualche modo da ufficio cambi, ma è privata di ogni potere di politica monetaria. Quest’ultimo è restituito a delle banche centrali nazionali e saranno i governi a decidere se riprendere il controllo su di esse o meno. La convertibilità esterna, riservata all’euro, si effettua classicamente sui mercati di cambio internazionali, quindi a tassi fluttuanti, attraverso la Banca centrale europea (Bce), che è il solo organismo delegato per conto degli agenti (pubblici e privati) europei. Di contro, la convertibilità interna, quella dei rappresentanti nazionali dell’euro tra loro, si effettua solo allo sportello della Bce, e a delle parità fisse, decise a livello politico. Ci sbarazziamo così dei mercati di cambio intraeuropei, che erano il focolaio di crisi monetarie ricorrenti all'epoca del Sistema monetario europeo (5), e al tempo stesso siamo protetti dai mercati di cambio extraeuropei grazie al nuovo euro. È questa doppia caratteristica che fa la forza della moneta comune.

Allontanato così il fantasma della convergenza «automatica» delle economie europee, sappiamo che certe economie hanno bisogno di svalutare – a maggior ragione con l’attuale crisi! Ora, il dispositivo di convertibilità interna della moneta comune ha l’immensa virtù di rendere di nuovo possibili queste svalutazioni, ma in un clima di maggior tranquillità. L’esperienza degli anni ’80 e ’90 ha ampiamente dimostrato l’impossibilità di operare aggiustamenti del cambio in piena bufera di mercati finanziari interamente liberalizzati. La tranquillità interna di una zona monetaria europea libera dal flagello dei suoi mercati di cambio rende allora le svalutazioni dei procedimenti interamente politici, dove spetta alla negoziazione tra stati il compito di accordarsi su una nuova griglia di parità.

E non solo le svalutazioni! Perché il tutto potrebbe essere configurato secondo l’International Clearing Union proposta da John Meynard Keynes nel 1944, che, oltre alla possibilità di svalutazione offerta ai paesi con forti squilibri esterni, prevedeva anche di obbligare alla rivalutazione i paesi con forti eccedenti. In un sistema del genere, che vincolerebbe a delle rivalutazioni graduate attraverso una serie di soglie di eccedenti (per esempio del 4% del prodotto interno lordo, poi del 6%), la Germania avrebbe dovuto da lungo tempo accettare un apprezzamento del suo euro-marco, e con questo sostenere la domanda della zona euro, e quindi partecipare alla riduzione degli squilibri interni. In questo modo, le norme che regolano gli aggiustamenti del cambio verrebbero a supplire alla probabile mancanza di buona volontà da parte dei paesi eccedentari. ..


Il catechismo neoliberista grida all’inefficienza» e all’«inflazione» appena sente la parola «svalutazione». Per quanto riguarda l’inefficienza, diciamo che lo spirito deduttivo non è stato il suo forte, dal momento che la svalutazione è proprio quello che tale catechismo continua a preconizzare! A tal punto che reclama una svalutazione interna, attraverso i salari – e la disoccupazione, che esercita una pressione sui salari! – al posto della svalutazione esterna, quella del tasso di cambio. L’aggiustamento strutturale piuttosto che l’aggiustamento di parità tra le monete… Se arrivassero a uscire dall’euro per tornare a correre da soli, i tedeschi se ne accorgerebbero subito, e basterebbero due giorni di rivalutazione del nuovo deutschemark per mandare in fumo un intero decennio di restrizioni salariali…

Quanto all’inflazione, che richiederebbe di preferire il primo tipo di aggiustamento al secondo, è un ectoplasma in un periodo dove la minaccia più forte è data dalla deflazione (l’abbassamento del livello generale dei prezzi), che è almeno altrettanto pericolosa, e che richiederebbe nei fatti una reflazione controllata, non fosse altro che per alleggerire il peso reale del debito.

Ma questo effetto di alleggerimento reale non sarebbe forse dominato dall’incremento del nostro debito esterno per via della svalutazione stessa? Svalutare del 10% contro il dollaro equivale automaticamente ad appesantire del 10% il nostro debito denominato in dollari. Salvo che, come ha dimostralo Jacques Sapir, l’85% del debito francese è stato emesso con contratto di diritto francese e sarebbe ridenominato in euro-franchi, di conseguenza senza alcun effetto in seguito a una svalutazione.

La posta in gioco rappresentata da una moneta comune, in ogni caso, va ben al di là della rinnovata possibilità di svalutazione, che pur essendo, soprattutto nel periodo attuale, una libertà vitale, non rappresenta certo la soluzione universale. Uscire dall’euro così come esso è configurato attualmente, sarebbe non tanto una questione di macroeconomia – anche se in parte lo è sicuramente – quanto di conformità all’imperativo categorico della democrazia, che si chiama «sovranità popolare»


Se a livello di un comune sentire democratico, siamo ancora lontani dalla possibilità di attuare una sovranità popolare in un contesto plurinazionale, allora dobbiamo essere realisti e abbassare un po’ il tiro di sapere con chi perseguirla. Certamente non in ventotto o in ventisette, grandi numeri che sembrerebbero fatti apposta per prevedere il peggio! Sono i rapporti oggettivi di compatibilità che contano, partendo da un grado minimo di omogeneità di stili di vita, di idee identiche, o quanto meno simili in materia di modello sociale, preoccupazione ambientale, ecc. -, e un accordo preliminare sui grandi principi di politica economica. Queste convergenze, per cominciare, sono probabilmente alla portata di un ristretto numero di Stati. E non è falso affermare che possono a volte essere valutate sulla base di indicatori di convergenza… Ma non quelli indicati dal trattato di Maastricht.

Trattandosi per esempio della costituzione di un grande mercato come entità soggiacente alla moneta comune, di esso potrebbero far parte solo le economie che hanno modelli socio-produttivi simili e, di conseguenza, strutture di costi analoghe. Secondo questo principio, in questa nuova Europa economica e monetaria sarebbero ammessi solo quei paesi il cui salario medio o minimo non è interiore al 75% – o un’altra soglia da determinare – della media dei salari medi o minimi degli altri Stati membri. E questa totale rielaborazione della costruzione europea sarebbe l’occasione per finirla sia con il delirio dell’ortodossia monetaria, finanziaria e dell’aggiustamento strutturale generalizzato, che con le nefandezze della concorrenza «non distorta», che però si è adeguata benissimo a tutte le distorsioni strutturali, sociali e ambientali, e che si propone in realtà di lasciarle imperversare con la massima violenza.

Ed è qui che si torna al sillogismo di partenza: l’idea di passare dall’euro attuale a un euro riformato e progressista è un sogno vano. Per deduzione, se è progressista, i mercati finanziari, che attualmente detengono tutto il potere, non lo lasceranno nascere. L’alternativa è quindi la seguente: restare impantanati in un euro liberale solo marginalmente modificato con qualche trovata di second’ordine come il «governo economico» o gli euro-bond, dei rattoppi che non modificano di una virgola la logica profonda della «sottrazione di  democrazia»;  oppure scegliere lo scontro frontale con la finanza, che vincerà, a colpo sicuro… per poi però perdere tutto, poiché la sua «vittoria» distruggerà l’euro e creerà esattamente le condizioni per una ricostruzione da cui, questa volta, i mercati saranno esclusi!

È certo tuttavia che questo ritorno forzato alle monete nazionali, che sarà visto come un fallimento, avrà degli effetti politicamente depressivi che peseranno per qualche tempo su qualsiasi progetto di rilancio europeo. Ecco perché, fermo restando tutto il resto, la probabilità di un tale rilancio a termine dipende in maniera cruciale dal modo in cui si esce dall’euro. Costruire riserve di energia politica europea per attraversare il periodo delle monete nazionali implica la scelta del partito della moneta comune, ossia provocare la deflagrazione dei mercati annunciando questo progetto, ponendolo fermamente come l’orizzonte di una volontà politica di un certo numero di paesi europei, e non presentare il ritorno alle monete nazionali come unico sbocco possibile, e senza via d’uscita, dell’abbandono dell’euro. Se dunque non si sfugge al ritorno alle monete nazionali, il modo in cui ci si ritornerà determinerà la possibilità di ripartirne!

In tutti i casi, salvo la grande anestesia definitiva nell’euro antisociale, ci torneremo. È questo il prezzo da pagare per una costruzione europea incapace di evolvere per essersi privata di qualsiasi grado di libertà. Per le costruzioni troppo rigide, l’unica scelta possibile è quella di resistere finché non si trovano a dover affrontare shock esterni troppo forti, oppure di rompersi: ma non quella di adeguarsi.

L’europeismo protesterà affermando che la sua amata Europa continua senza sosta a fare progressi. Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf), meccanismo europeo di stabilità (Mes), riscatto del debito sovrano tramite la Bce (7), unione bancaria: progressi probabilmente acquisiti un po’ dolorosamente, ma reali! Sfortunatamente, e come prevedibile, nessuno attacca il cuore stesso della costruzione, questo nocciolo duro da cui provengono tutti gli effetti depressivi e antidemocratici: esposizione delle politiche economiche ai mercati finanziari,   Banca   centrale   indipendente,   ossessione   anti-inflazionista, aggiustamento automatico dei deficit, rifiuto di prevedere un loro finanziamento monetario. Pertanto i «progressi» restano secondari, come delle toppe messe alla meno peggio per aggiustare le conseguenze ben più disastrose che il «cuore» granitico e sacralizzato continua a produrre. L’Europa sta continuando a mettere pezze agli effetti senza mai affrontare le cause. Incapace di una revisione di fondo, e inconsapevole del fatto che l’unico futuro che si prepara è la distruzione.

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