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Regimi di cambio, exit strategy dall'Euro e MMT

Intervista a Nadia Garbellini

1. Lei è coautrice con Brancaccio di uno studio che esamina gli effetti derivanti dallo sganciamento da regimi di cambi fissi. Cosa avete concluso dal vostro studio? Sganciarsi da regimi di cambi fissi porta a disastri finanziari, oppure il recupero della flessibilità del cambio, accompagnato da un maggior margine di manovra per la politica fiscale, porta a risultati migliori?

Lo studio che abbiamo condotto riguarda 28 episodi di svalutazioni avvenute contestualmente alla transizione da un sistema di cambi fissi ad uno relativamente più flessibile. Tutti gli episodi analizzati hanno avuto luogo nel periodo 1980-2013.

Va innanzitutto precisato che gli episodi inclusi nel campione da noi analizzato sono assai eterogenei, sia per quanto riguarda le caratteristiche specifiche di ogni paese, sia per l’entità e la persistenza della svalutazione. In particolare, se nei paesi ad elevato reddito pro capite la svalutazione è stata in genere piuttosto modesta e limitata ad uno o al massimo due anni, nei paesi a basso reddito le svalutazioni sono state molto più forti e ripetute negli anni successivi.

Detto questo, abbiamo rilevato che in media la svalutazione ha condotto ad una diminuzione sia dei salari reali che della quota salari, che tuttavia non risulta in alcun modo correlata all’andamento del Pil reale. In altre parole, la tesi secondo cui una riduzione dei salari reali, e della quota del prodotto distribuita ai lavoratori, sia necessaria ai fini della ‘ripresa’ della dinamica del prodotto lordo non sembra avere un riscontro empirico negli episodi da noi considerati.

Un’analisi puntuale dei diversi casi tuttavia mostra, come ho già sottolineato, una notevole eterogeneità. Possiamo prendere ad esempio il caso italiano (l’abbandono dello SME nei primi anni ’90) e la crisi argentina. Se nel nostro paese la dinamica di salari reali e quota salari ha subito un forte rallentamento, a fronte di una performance in termini di dinamica del prodotto lordo tutt’altro che entusiasmante, l’Argentina –dopo la forte battuta d’arresto iniziale– ha visto una ripresa sia di salari reali e quota salari che del Pil. Naturalmente, tali differenze dipendono da precise scelte politiche effettuate nei due paesi. La diversa gestione della politica fiscale –penso in particolare alla dinamica degli investimenti pubblici– ha certamente giocato un ruolo molto importante. Ricordiamo anche che se l’Argentina ha scelto di proteggere il potere d’acquisto dei redditi da lavoro, con precise regole sui salari minimi e sul loro adeguamento, in Italia come tutti sappiamo si procedette all’operazione contraria.


2. L’adozione dell’euro per l’Italia è a tutti gli effetti un sistema a cambio fisso. La politica fiscale è anch’essa resa inutilizzabile dalla costruzione europea e dall’euro. Quali sarebbero gli effetti per l’Italia nel caso dovesse uscire dall’euro? A quanto ammonterebbe il pass-through per l’Italia?

Ovviamente non è possibile determinare con precisione quali sarebbero gli effetti di una uscita dall’euro dell’Italia in termini di cost-push inflation: il pass-through dipenderebbe infatti non solo dal nuovo tasso di cambio, ma anche dalla struttura delle importazioni, dal loro peso sul totale dei consumi –sia finali che intermedi– e dall’eventuale cambiamento di tale struttura.

Possiamo farci un’idea circa l’ordine di grandezza dando uno sguardo ad alcune cifre, prendendo come riferimento i dati relativi al 2011 (Fonte: WIOD). In primo luogo, le importazioni rappresentano il 19.42% dei nostri consumi intermedi. Considerando anche gli effetti indiretti –dovuti al fatto che i paesi da cui importiamo utilizzano come input anche merci prodotte in Italia– tale figura scende al 16.59%. La domanda finale invece è composta da beni importati per il 9.32% – sono importate il 10.69% delle merci destinate al consumo privato, l’1.80% del consumo pubblico, il 13.55% degli investimenti in capitale fisso. In totale, le importazioni rappresentano il 14.22% del valore dei nostri consumi totali.

Ovviamente, molto dipenderebbe dalle decisioni circa le modalità e la gestione di una eventuale uscita.

Quel che è certo è che le politiche attuali, ancor più dopo l’insediamento del nuovo Consiglio dei Ministri, non faranno altro che aggravare ulteriormente la situazione. A preoccupare è, dal mio punto di vista, non solo il nuovo titolare del Ministero dell’Economia e Finanze, ma anche quella di un dicastero tanto importante quanto spesso trascurato: lo Sviluppo Economico. Non dimentichiamoci che dovrebbe essere proprio questo Ministero –insieme a quello per le Infrastrutture!– a delineare le politiche industriali. Mi pare dunque che difficilmente la situazione potrebbe essere peggiore.


3. Lei pensa che l’Italia debba uscire dall’euro? E se si in quale modo? Brancaccio ricorda spesso che esistono modi e modi per uscire, modi di destra e modi di sinistra. Una politica votata alle svalutazioni competitive sarebbe auspicabile?

Brancaccio ha assolutamente ragione: un’eventuale uscita potrebbe essere gestita in molti modi, alcuni dei quali condurrebbero ad un disastro, quanto meno per i lavoratori salariati. Osservando la situazione politica italiana, è facile concludere che in questo momento le condizioni per un’uscita ‘a sinistra’ non esistono. Ci ritroviamo infatti a dover constatare quanto segue: quel che resta della sinistra si rifiuta anche solo di contemplare la possibilità che una simile eventualità possa verificarsi, e dunque non si pone il problema di interrogarsi circa le possibili azioni da intraprendere qualora un’implosione dell’eurozona dovesse avere luogo.

Che cosa si intenda per ‘uscita a sinistra’ è stato già ben spiegato dallo stesso Brancaccio: si dovrebbero in primo luogo prendere delle misure a protezione del potere d’acquisto dei salari; in secondo luogo, sarebbe necessario imbrigliare i movimenti di capitali. Un altro punto, tra quelli sollevati da Brancaccio, è a mio avviso cruciale: uscire dall’euro implicherebbe mettere in discussione non solo la moneta, ma anche il mercato comune. Sono consapevole che tale argomento possa apparire oggi demodè, ma qualche forma di protezione delle industrie nazionali sarebbe indispensabile allo scopo di attuare, finalmente, delle politiche industriali – all’interno delle quali il ruolo dello stato dovrebbe essere cruciale, soprattutto nei settori strategici. Dando di nuovo uno sguardo ai dati, il 53.48% delle importazioni intermedie consiste di quattro categorie di prodotti; se i primi due –prodotti minerari ed estrattivi e metalli– sono materie prime, gli altri due –prodotti chimici e strumentazioni ottiche ed elettroniche– potrebbero essere sostituiti da produzioni domestiche. Il medesimo ragionamento vale per gli investimenti in capitale fisso: le importazioni sono costituite per il 92.35% di strumenti ottici ed elettronici, macchinari e mezzi di trasporto. È evidente che le politiche industriali appropriate potrebbero risultare estremamente efficaci.

Per quanto riguarda le svalutazioni competitive, non credo che porterebbero a dei risultati apprezzabili; viceversa, ritengo che potrebbero accentuare gli squilibri che già caratterizzano il sistema produttivo del nostro paese. Non dimentichiamoci che il modello di crescita export led si è già dimostrato non solo impraticabile, ma anche controproducente.


4. Negli ultimi anni è salita alla cronache, grazie anche a due summit molto partecipati organizzati da Paolo Barnard a Rimini, la Modern Money Theory. Il ricercatore Marco Veronese Passarella si è espresso in termini molto positivi nei riguardi della teoria che non propone nulla di particolarmente nuovo, ma unisce diversi approcci eterodossi, spesso dimenticati o peggio trascurati. Cosa pensa di questa teoria, portata avanti con successo da Wray, Mosler, Forstater, Galbraith etc.?

Premetto che non conosco a fondo ogni aspetto della MMT, e posso esprimere dunque solo un parere superficiale. Detto questo, alcune tesi sostenute dalla MMT sono certamente condivisibili – l’endogeneità della moneta, il fatto che il debito pubblico rappresenti un credito per il settore privato, la necessità di avviare un piano per la piena occupazione. Tuttavia, ci sono anche alcuni aspetti che non mi convincono.

In primo luogo, non sono d’accordo sul fatto che i tassi di cambio dovrebbero essere lasciati liberi di fluttuare. In secondo luogo, ritengo che il ruolo dello stato nella definizione delle politiche di pieno impiego dovrebbe essere più pervasivo di quanto delineato, ad esempio, dal “Programma di salvezza economica per il paese”. Come ho già detto, credo che lo stato dovrebbe assumere un ruolo decisivo, e attivo, all’interno del disegno e della implementazione delle politiche industriali, assumendo il controllo diretto dei settori strategici. E così via.

In conclusione, pur concordando sul fatto che le questioni monetarie abbiano grande importanza, credo che sarebbe necessaria una maggiore attenzione agli aspetti più strettamente connessi all’analisi della struttura sistema produttivo e dunque alla pianificazione del cambiamento strutturale. Probabilmente la mia maggiore perplessità riguarda il fatto che la MMT, dal mio punto di vista, tratta alcune di questioni cruciali con eccessiva superficialità.


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