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lantidiplomatico

"Il Piano Draghi ideato per salvare l'euro e imporre l'Unione Politica non è sostenibile"

Intervista a Piergiorgio Gawronski*

Piergiorgio Gawronski. Economista, pubblicista. In passato ha lavorato all’ufficio studi della BNL, all’OCSE, all’UNCTAD, alla “policy unit” della Presidenza del Consiglio. E’ stato attivista e consulente di numerose Ong in Italia e all’estero (Amnesty International, Observatoire de la Finance). Cura un blog sul Fatto Quotidiano

700x350c50Keynes definì i politici che gestirono la crisi degli anni '30 come dei “pazzi al potere”. Come dobbiamo definire i politici che dal 2011 ad oggi hanno catapultato l'Europa nella disoccupazione di massa, nella povertà diffusa, nella deflazione e nella rinegoziazione di diritti sociali acquisiti per seguire le stesse strategie fallimentari di quegli anni? 

Sembra un andare sopra le righe, ma in realtà è proprio così. In passato, personalmente, nel 2011 li ho definiti personaggi straordinariamente incompetenti e mi riferivo in particolare alla Banca centrale europea, quella stessa istituzione che - Draghi ha coraggosamente ammesso, nel celebre discorso dell’Agosto 2014 di Jackson Hole - ha provocato il disastro attuale. Il presidente della Bce ha, nello specifico, sottolineato che gli spread schizzarono in su “non tanto per i debiti pubblici, bensì per l'assenza di una rete protezione adeguata della Bce”. Già…

Naturalmente ci sono altre motivazioni, oltre all'incompetenza. L’ho scritto in un mio articolo intitolato “La strategia della tensione della zona euro”, dove riportavo un dialogo con un mio caro amico.

Costui, avendo sostenuto per tre anni che l'unica soluzione alla crisi fossero le politiche dell'offerta, un giorno si arrese alle ripetute evidenze empiriche che portavo, si piegò alle mie argomentazioni, ammise che avevamo di fronte una crisi della domanda. Gli chiesi allora: 'Ma perché, dunque, continui a sostenere le politiche dal lato dell'offerta?”. Mi rispose che la crisi rappresentava un'opportunità eccezionale: per cambiare i rapporti politici e le strutture economiche del paese, per imporre le riforme. Questo disegno generale è stato ribadito, del resto, più volte dalla Merkel, e dalla Bundesbank (Bollettino Mensile dell’Ottobre 2012). E’ un progetto politico preciso, che spiega perché Keynes non sfonda tra i politici europei. Anche le prospettive del 2015 mostrano come questo progetto, anche se contrastato e leggermente attenuato, stia vincendo in Europa. E come se ci avessero preso in ostaggio: ‘non vi risolviamo la crisi finché non accettate le nostre riforme strutturali, la nostra visione della società’.

 

Attualmente le autorità delle istituzioni europee hanno scelto una strategia tripartita per far fronte all'attuale crisi: sul piano degli investimenti, il piano Juncker da 315 miliardi (pochissimi dei quali reali, il resto presupposti su quelle stesse logiche di leva finanziaria che hanno determinato la crisi); sul piano monetario, all'interno della Bce si discute sulla possibilità di applicare un vero e proprio Quantitative Easing; infine le cosiddette riforme strutturali. Riuscirà questa strategia scelta a porre fine alla crisi?

Tutte le crisi hanno una fine; il problema è a quale costo. La crisi attuale può finire in due modi. Alzando la domanda al livello della capacità produttiva. Oppure riducendo la capacità produttiva al livello della domanda e facendo, in altri termini, un mare di disoccupazione. In entrambi i casi il tasso d'interesse reale tornerebbe ad equilibrare risparmi e investimenti (oggi i risparmi eccedono gli investimenti). A quel punto potrà iniziare un nuovo processo di accumulazione capitalistica e di investimenti.

Vediamo ora, nel dettaglio, le tre gambe della strategia. La prima è il piano Juncker. Non stanzia neanche un euro in più: si limita a dirottare fondi già destinati ad altre spese. Questo mi pare un tradimento delle promesse elettorali. L'effetto leva, in sé non direi che: “è sbagliato in quanto ha causato la crisi”. E' vero che l'ha causata, ma allora si spendeva troppo! Mentre ora il problema è contrario, e quindi potrebbe essere di beneficio. Il problema vero è che le dimensioni di questo piano sono assolutamente inadeguate alla mole di disoccupazione attuale.

Il Quatitative Easing, dal canto suo, ha alcuni canali attraverso i quali può avere un impatto: il deprezzamento del cambio ad esempio favorisce le esportazioni e contiene la deflazione. Ma in una crisi di domanda così grave la leva monetaria, come ha anche sottolineato Keynes nel Capitolo XV della Teoria Generale, può avere solo effetti marginali. 

Il Qe va poi letto insieme alla terza gamba, vale a dire le riforme strutturali. Draghi a Jackson Hole ha fatto capire di essere disponibile, attraverso il QE, a garantire tassi bassi nel lungo periodo sui titoli del debito in cambio delle riforme. Draghi non può finanziare direttamente, sul mercato primario, i debiti pubblici ma, come in America, può organizzare un gioco finanziario per cui compra titoli sul mercato secondario, non direttamente dagli Stati, e poi restituisce agli Stati emittenti le cedole. Inoltre, il calo dei prezzi sul mercato secondario in teoria dovrebbe influenzare i prezzi sul primario; ma la deflazione ha già schiacciato i tassi al minimo: perciò il QE timido annunciato dalla BCE non potrà fare molto. Qui ci vuole la politica di bilancio.

 

Ma riuscirà Draghi a superare l'ostitlità tedesca sul Quantitative Easing?

L'ostilità tedesca è la grande questione europea di oggi. E credo che i mass media non capiscano ancora i termini della questione. Draghi viene visto a turno come il salvatore della patria, oppure come il servo delle banche d'affari. Ma lui è l’unico vero regista della politica economica in Europa. Il suo obiettivo è quello di salvare l'euro. Obiettivo legittimo, doveroso, dal suo punto di vista. E l'euro è in crisi per due motivi: il primo è l’asimmetria, gli squilibri competitivi tra le nazioni. In mancanza della possibilità di svalutare o rivalutare, tutto il riequilibrio deve avvenire con l'aggiustamento dei prezzi relativi; devono salire in Germania rispetto ai paesi latini. Il secondo è un problema simmetrico: tutta la zona euro soffre di carenza di domanda. Draghi pensa che solo un compromesso politico tra la Germania e l'Europa del Sud può salvare l’Euro. Perciò ad entrambe le parti offre un contentino e chiede un sacrificio.

Draghi chiede che dell'asimmetria si faccia carico il sud. Come? Con le riforme strutturali. Ma a ben vedere è un modo inefficiente e ingiusto! Sarebbe molto più semplice se Germania alzasse i salari e i prezzi, sanando lo squilibrio che lei stessa ha creato: gli aumenti salariali degli anni 2000 furono infatti ben inferiori al 2% indicato dalla BCE. Berlino, da questo punto di vista, non ha solo un problema ideologico verso l'inflazione - che ormai è diventato isteria paranoica  - ma soprattutto un “interesse del creditore”: con i tassi a zero, come quelli attuali, un'inflazione del 2% le infliggerebbe una perdita reale del 2% ogni anno sui suoi cospicui crediti. Oltre alle resistenze della Germania, non posso non vedere che anche Draghi ha un interesse ideologico a promuovere, a imporre le riforme strutturali. E può avvalersi di una Bce che, come lui stesso ha ammesso, può creare una crisi dello spread in qualsiasi momento.  Draghi vuole che prevalga un modello sociale organizzativo flessibile, una diminuzione del Welfare, perché gli piace e perché una moneta unica richiede economie in grado di adattarsi rapidamente agli shock asimmetrici, anche in futuro. 

Come seconda parte del compromesso, Draghi sta chiedendo alla Germania di farsi carico del lato simmetrico del problema: con le politiche fiscali espansive (che sotto sotto darebbero una mano anche a riequilibrare le asimmetrie competitive). Ma la Germania si rifiuta. 

Se mettiamo insieme queste posizioni con: (A) il colloquio che il presidente della Bce ha avuto con Renzi quest'estate, sul quale non è mai stato detto nulla (e anzi Draghi ha ribadito ai giornalisti che resterà riservato); (B) le dichiarazioni recenti di Renzi, secondo cui dopo l'approvazione del Jobs Act l’Italia farà sentire le sue ragioni in Europa; allora ci appare il quadro completo del Piano Draghi: imporre le riforme strutturali nel Sud e poi andare ad organizzare un attacco concentrico sulla Germania per ottenere le politiche espansive. L'euro non è però il fine ultimo. È stato creato per imporre ai cittadini l'Unione Politica Europea, ed è questo l'ultimo stadio del progetto del Governatore. Draghi è il regista di un'ideologia, che in parte si è moderata: con il “whatever it takes”; o quando ha ammesso che siamo in una crisi di domanda; ma che non rinuncia ai suoi obiettivi ultimi: le riforme strutturali e l'Unione politica Europea.

 

In una conferenza tenutasi a Roma lo scorso aprile Lei aveva dichiarato che con un cambio di paradigma l'euro poteva ancora sopravvivere. Ne è ancora convinto alla luce degli ultimi avvenimenti?

Io facevo riferimento in Aprile ad un vero cambio di paradigma, concentrato sull'innalzamento dei salari e della domanda in Germania, oltre ad un diverso ruolo della Bce. Il compromesso di Draghi, al contrario, non è accettabile al Sud: la deflazione interna crea problemi gravissimi come, ad esempio, un aumento del debito pubblico a livelli insostenibili. E ho difficoltà a credere che i popoli del Sud possano e debbano accettare lo smantellamento sociale, la fine di tutele lavorative e diritti acquisiti da decenni. Questo compromesso viene, del resto, rifiutato dalla Le Pen, da Podemos, e da molte altre forze politiche in crescita. Non credo che sarà facile imporlo. Ma devo anche osservare che la controparte ha una forza formidabile: Draghi è presidente della Bce, e la Bce controlla gli spread. Nessun politico può permettersi di mettersi contro la Bce restando nell’Euro: basta una dichiarazione di Draghi che lasci intendere di non essere più disponibile a tutelare i titoli del debito pubblico, per creare una crisi finanziaria. Il governo in questione crollerebbe.

Ma c’è un'altra questione che mi fa dubitare del successo del Piano Draghi: ed è che l'Unione Europea non è nelle carte delle popolazioni europee. Queste, in altri termini, non vogliono maggiore integrazione. Io personalmente non la voglio oggi perché sarebbe un consolidamento illiberale di Trattati neoliberali che non funzionano, ma che verrebbero messi sotto chiave, infliggendo un colpo mortale definitivo alla sovranità nazionale e alla razionalità economica. 

 

E allora come uscire da questa trappola che sta portando il paese in una situazione sempre più insostenibile?

Uscire dall’Euro è molto pericoloso e i politici italiani se ne rendono conto. Ma il problema si pone. Sarebbe meglio chiedere alla Germania di uscire, visto che non coopera e non rispetta i Trattati. Invece, studiare una dissoluzione concordata fra tutti è impossibile, è troppo complesso. Per ora, concretamente, la strategia migliore è restare dentro e tirare la corda, sperando che non si spezzi. Renzi invece ha scelto di seguire la via indicata da Draghi: fare le riforme strutturali per poi chiedere l'espansione di bilancio alla Germania: non basta, non basta! 

Renzi dovrebbe piuttosto affrettarsi a presentare un Piano di completo shake up dell’Eurozona (come quello che ho proposto nel Marzo 2014 sulla Rivista di Politica Economica): una riforma radicale dei Trattati e delle politiche europee, ben sapendo che verrà respinto un minuto dopo dalla Germania. Questo Piano però aprirebbe un dibattito politico, darebbe una prospettiva unitaria agli scontenti – e sono tanti – , creerebbe un movimento d’opinione gigantesco, con il quale la Germania dovrebbe fare i conti. Sul piano interno, Renzi dovrebbe fare come Obama nel 2009-10: espandere il bilancio pubblico in modo sapiente, ed annunciare di voler fare ‘whatever it takes’ per rilanciare l’economia italiana. L’Europa dirà quel che vuole: ma salvando noi stessi salveremmo anche loro. Ma finché il Ministro dell’Economia sarà Pier Carlo Padoan non se ne farà nulla, come egli stesso ha tenuto a far sapere.

L'uscita dalla zona euro, invece, secondo me avverrà solo quando in Francia, Spagna, o in un altro paese del Sud, dovesse vincere - non basta arrivare primi ma bisogna ottenere la maggioranza del Parlamento ed è molto complicato - una forza contraria all'attuale architettura. Allora ci sarebbe una reazione a catena in tutta Europa dalle conseguenze imprevedibili. Sono scenari ancora prematuri, perché il controllo è nelle mani della Bce e delle élite europee. Viceversa non credo, come alcuni ipotizzano, che la Germania staccherà mai la spina. E questo per l'esperienza storica. Le élite del Gold Standard non l’abbandonarono mai! Quelle inglesi furono espulse dai mercati – ma l'euro non è l'oro, e la Bce ha dimostrato di aver una forza protettiva adeguata. Quelle americane o tedesche furono sconfitte da un outsider: Roosevelt, Hitler... Ma una figura del genere in Germania non prevarrà. Perché è il paese che soffre meno: perché avvenga ci vuole una disoccupazione almeno al 15-20%. Berlino, come ha fatto l’Italia con il suo Mezzogiorno dopo l'Unità d’Italia, potrebbe mantenere lo status quo per decenni.

 

Il 25 gennaio in Grecia si vota e una vittoria di Syriza potrebbe portare il paese fuori dall'euro. Eventualità che Berlino ora definisce possibile e “gestibile” per la zona euro. Dopo aver distrutto la capacità produttiva e creato tre cittadini poveri su cinque ora la carcassa greca può essere lasciata al suo destino. Qual è la sua opinione sulla situazione in Grecia in vista delle elezioni e cosa determinerebbe un uscita dal paese dalla moneta unica al resto della zona euro?

Non credo che Syriza voglia o possa decidere di uscire dall’Euro. Il suo sarà un Governo di coalizione. Inoltre il riequilibrio competitivo in Grecia è quasi ultimato, nonostante i danni siano abnormi: che senso avrebbe uscire ora? Tuttavia, una Grecia che annuncia di voler rinegoziare il debito pubblico è una Grecia che si pone fuori dai mercati finanziari, che non è in grado di rifinanziare il debito. Chi ti presta dei soldi, se già annunci che non glieli restituirai? Perciò è una Grecia che si pone nelle mani della Troika. Vedo Syriza avviare una serrata trattativa per ottenere un nuovo sconto sul debito, e basta. Non credo che abbia la forza culturale e politica per innescare il ritorno dell’Eurozona alla razionalità Keynesiana; e credo che ne siano coscienti. La Germania, da parte sua, cercherà di contenere il problema alla sola Grecia. Baderà più all’ideologia che ai soldi. Pagherà, purché non si dica che la crisi è colpa sua, che deve cambiare in Europa, che deve rinunciare al mercantilismo ordo-liberale. Perciò prevedo un accordo. Chi attende con ansia il crollo dell’Euro credo dovrà aspettare, perlomeno la vittoria di Podemos in Spagna.

*Condotta da Alessandro Bianchi e Cesare Sacchetti
(con la collaborazione di @federiconero)
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