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poliscritture

Felice Cimatti: “Cose. Per una filosofia del reale”

di Donato Salzarulo

Cimatti1.- Questo non è il libro del momento. Non è Spillover. Aspettava di esser letto da più di un anno. Pazientemente in fila, fra tante pile di libri da leggere. Non è del momento ma qualcosa ha a che fare con questo momento. C’è chi vorrebbe dare la parola alle Cose. E il virus cos’è?… Avete notato che ho tirato in ballo “cosa” per cercare di definirlo?…Le cose ci assediano. Sono dappertutto. Usiamo cose (scarpe, pantaloni, occhiali, computer…) e mangiamo cose (pasta, riso, pane…). Noi stessi, in ultima istanza, siamo atomi di cose (acqua, carbonio, azoto, calcio, potassio, fosforo…).

Dare la parola alle cose?!… Come è possibile? Le cose non parlano.

Ci sono scrittori, artisti, poeti che hanno cercato, però, di mettersi dal punto di vista delle cose. In un certo senso di farsi cosa, diventare cosa.

A scuola quasi tutti abbiamo letto quella poesia su Natale di Ungaretti che, avendo tanta stanchezza sulle spalle (era in temporanea licenza dalla guerra), invita i suoi lettori a lasciarlo così «come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata». Certo, questa è soltanto una similitudine. Ma la “cosa” è tirata in ballo perché soddisfa il bisogno di solitudine del poeta e il desiderio paradossale di non avere più desideri, voglie, timori. Una pulsione di morte, direbbe forse uno psicanalista, che copre un desiderio di nuova nascita (questa poesia, cielo santo, s’intitola Natale!). Però a me interessa l’uso della parola “cosa” che sembra perdere la sua tradizionale connotazione negativa (come quando diciamo: «non sono mica una cosa!») e si fa, per così dire, oggetto di desiderio.

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il rasoio di occam

“Invocando di vivere, scopro che cerco di morire”. Giorgio Agamben e la pandemia

di Francescomaria Tedesco

Influenza Spagnola 2 1350x1025 1L’autore del frontespizio del Leviatano, Abraham Bosse, disegnò il sovrano nell’atto di unire la moltitudine disunita e sotto rappresentò una città dalle strade deserte. Solo delle guardie e due strane figure dal naso a becco. Sono due medici della peste, ed evocano il virus che più di altri poteva minacciare la città: la guerra civile. Quell’immagine cita Tucidide, lo ricorda Carlo Ginzburg ma lo ricorda anche Giorgio Agamben, che in un testo di stasiologia riprende lo storico greco: la peste di Atene come origine dell’anomia e della rivoluzione[1]. Nel De cive (e anche nel Leviatano) i doveri del sovrano sono tutti riassunti nella massima il bene del popolo è la legge suprema. Due paragrafi dopo, Hobbes chiarisce: “Per bene dei cittadini non si deve intendere soltanto la conservazione, comunque, della vita, ma di una vita per quanto possibile felice”[2]. È, nella lettura di Agamben, il riconoscimento della superiorità di una vita sociale nel senso più ampio, l’unica davvero ‘piena’ (bios), rispetto alla nuda vita, ovvero alla mera sopravvivenza, la vita animale che accomuna gli esseri viventi (zoé).

Ora alla peste della guerra civile e della dissoluzione si è in realtà sovrapposta la peste vera e propria, il cui contrasto minaccia, secondo Agamben, la pienezza della condizione umana. La gestione dell’emergenza, lo stato di eccezione, subiscono – è il pensiero che il filosofo ha espresso in una serie di articoli ora raccolti sul suo blog sul sito dell’editore Quodlibet[3] – un’accelerazione ulteriore, rischiando di trasformarsi da sporgenza ‘normale’ dell’ordinamento politico-giuridico in una nuova normalità in nome della salute pubblica, laddove però essa non è più il conseguimento della felicità per il maggior numero, ma – e forse a dire il vero più hobbesianamente, nonostante quanto dica Agamben, ché nel Leviatano la salus, stante la rappresentanza, si trasforma nella safety del sovrano[4] – la mera sopravvivenza.

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sinistra

Come si vede il mondo1

di Eros Barone

Il rapporto fra astrazione e realtà in alcune correnti filosofico-scientifiche dell’età contemporanea

astrazione e realtà lopera inedita del maestro wang hongjian«...all’analisi delle forme economiche non possono servire – né il microscopio né i reagenti chimici: l’uno e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza di astrazione.»
K. Marx, Prefazione al I libro del Capitale.

«Veritas est adaequatio rei et intellectus» 2
S. Tommaso d’Aquino, De veritate.

1. L’importanza dell’astrazionee il modo corretto di concepirla

Nella storia della cultura l’astrazione è stata spesso svalutata quale ‘nome’ o ‘fantasma’, come se coincidesse con l’astrattezza e come se astrarre significasse di per sé isolarsi dal mondo. In realtà, l’astrarre è, in quanto negazione delle determinazioni del particolare, un processo che genera la categoria: in quanto tale, è per Hegel «l’immane potenza del negativo; esso è l’energia del pensare». 3 Quindi, il concetto è, quale espressione dell’astratto, il frutto specifico del pensiero, che condensa nell’universale i tratti salienti di un enorme numero di concreti. Come suggerisce il riferimento a Hegel, nella storia della filosofia è necessario distinguere due fondamentali concezioni dell’astrazione: una come nome e l’altra come essenza. Sennonché, sia che si tratti della corrente filosofica del nominalismo sia che si tratti della corrente del realismo, sarebbe improprio un rinvio esclusivo alla medievale “disputa sugli universali”, poiché ciò che qui conta è il concepire l’astratto come fondativo, oppure no, della comprensione reale del concreto.

Di conseguenza, sul versante nominalista si situano gli indirizzi di pensiero che negano la conoscibilità reale del mondo, dei suoi processi e dei suoi eventi, svuotando le astrazioni, cioè i concetti, le categorie e le leggi, del loro effettivo contenuto, giacché questi indirizzi ritengono che vi sia una barriera gnoseologica invalicabile tra la conoscenza e la realtà, fra l’astrazione teorica e la concretezza empirica.

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il rasoio di occam

Piccolo Manifesto in tempi di pandemia

di M. Benasayag, B. Cany, A. Del Rey, T. Cohen, R. Padovano, M. Nicotra

Il Collettivo Malgré Tout (“Malgrado tutto”, Francia: Miguel Benasayag, Bastien Cany, Angélique Del Rey, Teodoro Cohen; Italia: Roberta Padovano, Mary Nicotra) propone questo breve Manifesto composto da quattro punti, quattro spunti di riflessione e ipotesi pratiche da condividere con chi fosse interessata/o. Speriamo sia un contributo utile per pensare e agire all’interno dell’oscurità della complessità

filosofia e coronavirus111. Il ritorno dei corpi

Negli ultimi quarant’anni almeno, siamo stati testimoni del trionfo e del dominio incontrastato del sistema neo-liberista in ogni angolo del pianeta. Tra le diverse tendenze che attraversano questo tipo di sistema, una in particolare sembra costituire la forma mentis dell’epoca. Si tratta della tendenza a considerare i corpi come il rumore di fondo che disturba la “recita” del potere, poiché i corpi reali, sempre troppo “pesanti” e troppo opachi, desideranti e viventi sfuggono alle logiche lineari di previsione. Da sempre l’obiettivo perseguito dalle pratiche e dalle politiche proprie del neoliberismo consiste nel deterritorializzare i corpi, virtualizzarli, facendone una materia prima manipolabile, un “capitale umano” da utilizzare a proprio piacimento nei circuiti del mercato. Si richiede che i corpi siano disciplinati, dislocabili senza criterio, flessibili, pronti ad adattarsi (leitmotiv del nostro tempo) alle necessità determinate dalla struttura macro-economica. Nella loro astrazione estrema, i corpi dei migranti senza documenti, dei disoccupati, i corpi non conformi, i corpi annegati nel Mediterraneo o ammassati nei centri di detenzione, in breve, i corpi considerati in esubero diventano semplici numeri, senza valore, senza alcuna corporeità e quindi, in fine, senza umanità.

In ambito tecnico-scientifico questa tendenza si esprime nella formula del “tutto è possibile”, che non riconosce alcun limite biologico o culturale al desiderio patologico di deregolazione organica. E’ ormai una questione di aumentare i meccanismi del vivente, la possibilità di vivere mille anni, se non addirittura di diventare immortali!

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paroleecose2

Dal contagio alla vita. E ritorno

Ancora in margine alle parole di Agamben

di Luca Illetterati

AgamebnI.

In molti hanno commentato il piccolo testo di Giorgio Agamben intitolato Contagio, pubblicato sul blog di Quodlibet l’11 marzo 2020, nonché quello successivo, intitolato Chiarimenti, pubblicato il 17 marzo a seguito di una serie di pesanti critiche. Nel primo Agamben rifletteva sulle devastazioni prodotte dalle norme emergenziali a fronte di quella che chiamava la cosiddetta epidemia. Nel secondo cercava di dare giustificazione a quanto detto, asserendo che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese e le norme che essa ha prodotto mostrerebbe con evidenza che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita, ovvero nella paura di perderla. Il 27 marzo ne è uscito un altro, Riflessioni sulla peste, nel quale in primo luogo cerca di mostrare in che senso la quieta e acritica sottomissione dei cittadini alle norme emergenziali evidenzi una evidente continuità tra la forma di vita da essa imposta con una forma di vita già diventata abitudine prima ancora dell’epidemia e in secondo luogo cerca di evidenziare in che senso la scienza dentro questo clima vada sempre più assumendo il ruolo di nuova religione universale, di nuovo credo al quale affidarsi. Nulla, dunque, che cambi la sostanza del discorso; semmai un suo ulteriore rafforzamento.

Numerosi interventi hanno messo in evidenza l’effetto di quelle righe, soprattutto di quelle dei primi due testi: esse producono una sensazione di meccanicità scontata, frutto dell’applicazione di formule e pensieri che rendono banalmente prevedibile la sostanza del discorso.

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filosofiainmov

Sulla situazione epidemica

di Alain Badiou

download87tPresentazione di Paolo Quintili. Nihil sub sole novum - La novità «antidiluviana» di una pandemia mondiale. Il saggio di Alain Badiou che qui offriamo al pubblico, offre una serie di importanti riflessioni filosofiche che collocano l’evento emergenziale che stiamo vivendo in una dimensione al tempo stesso storica e critica. L’esperienza in corso dell’evento, nei diversi paesi dell’Occidente, in Europa in particolare, è stata affidata a tre «corpi» sociali che ne stanno gestendo l’emergenza: il corpo politico, il corpo medico e il corpo mediatico delle nostre società.

Ora, una parola che venga dal «corpo filosofico» è di grande utilità in quanto ci permette di coglierne la dimensione reale, al di là delle pur necessarie misure prese per arginare il pericolo epidemico. Anzitutto, la sua presunta «novità»: appare tale per la sola ragione che il flagello sta colpendo il pacifico e opulento Occidente capitalista, fino ad oggi al riparo (illusorio) da questi fenomeni. Niente di nuovo sotto il sole (Qoelet, I, 9), sono decenni oramai, che a partire dal virus Ebola, passando per numerosi altri agenti patogeni, influenzali e virali, diversi organismi viventi ostili, generati dall’azione (politico-economica) umana, han fatto strage fuori dell’Europa, e non nel solo Terzo Mondo. Ora si stanno diffondendo nel pianeta intero. Agenti patogeni originati dal mondo animale non-umano, passati e trasmessi all’uomo. La ragione di fondo del fenomeno è ­– non si può più ignorarlo, né nasconderlo – ecologica (vedi il saggio di Sonia Shah, Da dove vengono i coronavirus? Contro le pandemie, l’ecologia, in «Le Monde Diplomatique», n.3 anno XXVII, marzo 2020, pp. 1 e 21) [P.Q.].

Per la prima volta nella storia, si sta vivendo sulla propria pelle, in Europa, una realtà nuova che investe la comunità mondiale intera, dopo che il genere di agente patogeno in questione ha iniziato da gran tempo la sua avanzata per le rotte della mondializzazione.

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voxpopuli

Prolegomeni a una filosofia della verità

di Vox Populi

In contrapposizione al nichilismo e al prospettivismo, il compito di una filosofia dell’emancipazione è quella di lottare per qualcosa: l’esistenza di una verità ne è precondizione, per orientare la guerra contro il capitale

heidegger8764L’articolo affronta temi che orbitano intorno alla verità e al discorso in senso Foucaultiano, partendo dall’«occultamento-svelamento» di determinati aspetti della realtà, all’utilizzo dei discorsi e delle dislocazioni delle fonti di verità nella lotta di Socrate e Platone contro i sofisti e i cinici, allo scopo e ai tipi di critica (immanente e trascendente) infine alla proposta di un maggior ascolto della realtà al fine di potersi collegare in modo più profondo ed efficace con le masse, per dare nuova vita ed energie al movimento rivoluzionario.
L’obiettivo è quello di dotare di nuovi strumenti teorico-discorsivi, come di comprensione, il movimento comunista di cui i tempi moderni hanno bisogno, per criticare il tempo presente e avere la meglio su movimenti di destra e nichilismo giovanile che si sono, in buona parte, saputi riaggiornare.

* * * *

La questione della verità

Al giorno d’oggi uno degli argomenti più bizzarri dello scenario culturale è la verità: coesistono opinioni per cui la verità condivisa non esiste (pertanto assume forma individuale, se non esiste proprio) ma la verità scientifica sì, per altri vale l’inverso, certi non si pongono il problema e altri ci pensano in maniera esclusivamente speculativa e non pratica.

Per noi il problema della verità si pone perché il movimento rivoluzionario deve innanzitutto esser capace di criticare lo stato di cose presente, di connettersi alle coscienze delle persone e di creare qualcosa di nuovo a partire da un panorama culturale storicamente dato: è importante affrontarlo per fissare i compiti più generali e le potenziali modalità con cui realizzarli.

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filosofiesemiotiche

Da Wittgenstein a Marx via Rossi-Landi

di Roberto Fineschi*

wittgenstein and marxIntroduzione

Quando sono stato invitato a scrivere un contributo sul rapporto Marx-Wittgenstein sono stato un po’ esitante. In primo luogo non sono certo un esperto di Wittgenstein, anzi, sono un modesto lettore delle sue opere più importanti e non ho molto di significativo da dire in proposito. In secondo luogo, come esperto di Marx, solo tangenzialmente mi sono occupato di temi legati alla filosofia del linguaggio o alla semiotica. Ho però cominciato a leggere un po’ di letteratura ed ho trovato diversi spunti interessanti, soprattutto nel semiologo marxista italiano Ferruccio Rossi-Landi (ROSSI-LANDI 1968, 1977, 1983) e in altri interpreti (ABREU 2008; GAKIS 2015; KITCHING & PLEASANTS 2002; READ 2000; RUBINSTEIN 1981). Alla luce di questi studi ho forse inteso meglio come trattare il tema e deciso di contribuire.

La prima parte di questo saggio è dedicata alla lettura di Wittgenstein proposta da Rossi-Landi, la seconda all’analisi di come Rossi-Landi cerchi di risolvere attraverso Marx quelle che reputa aporie di Wittgenstein, la terza, infine, a una valutazione critica della questione e al senso di un possibile rapporto Marx-Wittgenstein.

 

1. Il Wittgenstein di Rossi-Landi

La lettura di Wittgenstein da parte di Rossi-Landi è chiaramente influenzata dalla sua intenzione di sviluppare una teoria marxista della linguistica. Il suo scopo non è una ricostruzione critica del suo pensiero, ma fornire un solido fondamento al suo progetto nella stessa tradizione della filosofia del linguaggio (la stessa cosa che cerca di fare nel suo dialogo con Saussure).

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filosofiainmov

La metafisica, la civiltà della tecnica, il nichilismo e le radici della violenza

di Francesco Sirleto

Rileggere Téchne di Emanuele Severino, a più di quarant’anni dalla sua pubblicazione

alberto ruggieri kv U31601288805975wIE 656x492Corriere Web Sezioni“Il nichilismo, pensato nella sua essenza, è piuttosto il movimento fondamentale della storia dell’Occidente. Esso rivela un corso così profondamente sotterraneo, che il suo sviluppo non potrà determinare che catastrofi mondiali. Il nichilismo è il movimento storico universale dei popoli della terra, nella sfera di potenza del Mondo Moderno … Il dominio in cui sono possibili così l’essenza come l’esistenza del nichilismo è la metafisica stessa, purché noi vediamo in essa non una dottrina, o addirittura una particolare disciplina filosofica, ma quell’ordinamento dell’ente nel suo insieme in virtù del quale esso viene suddiviso in mondo sensibile e ultrasensibile, facendo dipendere quello da questo” (M. Heidegger, da La sentenza di Nietzsche: Dio è morto, in Sentieri interrotti).

La lunga citazione tratta da un’opera ben nota di M. Heidegger (Sentieri interrotti, pubblicata nel 1950, come raccolta di vari saggi e conferenze risalenti per lo più agli anni Trenta), assume un particolare significato se ci soffermiamo sull’oggetto di queste brevi considerazioni scaturite dalla “rilettura”, dopo moltissimi anni, di un’opera fondamentale (Téchne, le radici della violenza) di Emanuele Severino, scomparso il 17 gennaio scorso alla venerabile età di più di 90 anni. In questo libro, la cui prima edizione è del 1979, è contenuto l’essenziale di tutto il pensiero elaborato, nella sua lunghissima carriera di filosofo praticante, dall’illustre professore emerito dell’Università veneziana Ca’ Foscari, nella quale fu tra i fondatori della Facoltà di Lettere e di Filosofia. Nella citazione posta in epigrafe appaiono, infatti, alcuni dei concetti che hanno costituto il principale oggetto di riflessione da parte del pensatore bresciano: nichilismo, Occidente, metafisica, ordinamento dell’ente.

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voxpopuli

Hobbes e la Teologia Politica

di Sergio Crescenzi

img 20200212 164446 092Nelle Lezioni sulla Storia della Filosofia, John Rawls, per introdurre la sua interpretazione di Hobbes, dice:

«Lascerò da parte alcune cose, e spiegherò perché. La prima cosa che ignorerò sono gli assunti teologici di Hobbes. Hobbes spesso si esprime come un credente cristiano, e non metto in dubbio né nego che in un certo senso lo fosse, sebbene quando si legge il suo lavoro si capisce perché ci sia stato chi lo ha negato. O ad ogni modo ci si è chiesti come potesse affermare ciò che affermava e allo stesso tempo essere credente, in un qualche senso ortodosso dell’espressione. Perciò intendo lasciare da parte questi assunti teologici ortodossi e assumerò che nel libro ci sia un sistema politico e morale secolare. Questo sistema politico e morale secolare è completamente intelligibile per quel che concerne la sua struttura teorica e il contenuto dei suoi principi anche quando tali assunti teologici vengono messi da parte. In altre parole, non abbiamo bisogno di tenere conto di questi assunti teologici per capire come sia fatto il sistema secolare. Anzi, è proprio perché, o almeno in parte perché possiamo lasciare da parte questi assunti che la sua dottrina rappresentò un affronto all’ortodossia del tempo. Nel pensiero ortodosso, la religione dovrebbe giocare un ruolo essenziale nella comprensione del sistema di idee politico e morale. Se non è così, allora questo già di per sé è un problema. La religione, il pensiero ortodosso, non giocava alcun ruolo essenziale nella visione di Hobbes. Perciò credo che tutte le nozioni usate da Hobbes, come ad esempio la nozione di diritto naturale, di legge naturale, di stato di natura, e così via, possono essere definite e spiegate indipendentemente da qualsiasi retroterra teologico.

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consecutiorerum

Le ambivalenze e i paradossi della rivoluzione dei diritti

Una storia filosofica e politica

di Francesco Fistetti

Abstract: The object of this essay is the paradox of the philosophical and political history that emerged from May 1968. The instances of liberation, born under the pressure of that epochal event and aimed at the destruction of the traditional authoritarian morality (divorce, abortion, feminism, LGBT movements, etc.), have been emptied of their original emancipatory content and caught by the abstract logic of the market. For a sort of irony of history, the revolution of subjective rights has been turned upside down in new forms of subjugation and hierarchy. The ambivalence of this historicalpolitical process is reflected in the poststructuralist and postmodernist philosophical constellation of the socalled “French Theory” (Derrida, Foucault, Baudrillard, Deleuze, Lyotard, Barthes), in which the AngloAmerican “studies” (women studies, queer studies, postcolonial studies, etc.) are inscribed in the decades 1980/1990.

Situationist 768x5761. Il ’68 e la traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici

Per sottolineare le ambivalenze e le contraddizioni del maggio ’68, vorrei partire, in questa mia breve riflessione, dalla definizione che dieci anni dopo Edgard Morin avrebbe proposto sulle colonne di “Le Monde” parlando di “eventosfinge” e confermando la chiave interpretativa che insieme a Claude Lefort e Cornelius Castoriadis aveva offerto nel 1968 con la pubblicazione, quasi un instantbook, di La breccia. Per questi autori – sosteneva Morin – “una breccia non richiudibile si era aperta sotto la linea di galleggiamento del nostro ordine sociale”1. Ma il paradosso che vorrei mettere a fuoco è il rovesciamento che nella storia delle società liberaldemocratiche europee si produce delle istanze di emancipazione e di liberazione in forme di assoggettamento e di subordinazione. Il paradosso appare tanto più singolare se guardato dall’angolo visuale del presente storico in cui viviamo, connotato dagli effetti di lunga durata che quella “breccia” non ha mai smesso di provocare negli Stati nazionali modellati dal “secolo socialdemocratico” o dai cosiddetti “trent’anni gloriosi”.

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losguardo

La cosa e il segno. Su linguaggio, ontologia e Destino*

Davide Grossi intervista Emanuele Severino

Abstract: In this interview we asked Professor Severino, one of the major contemporary Italian philosophers, to investigate aspects of his research regarding the relationship between ontology and philosophy of language. From his theoretical point of view we have investigated some of the central themes of the philosophical speculation suche as the nature of will, the structure of identity and the matter of what is the truth

severino 800x445Introduzione

Emanuele Severino (Brescia, 1929), allievo di Gustavo Bontadini, è uno dei più importanti filosofi del nostro tempo. Accademico dei Lincei, insegna all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È autore di opere fondamentali tradotte in varie lingue. Tra di esse ricordiamo La struttura originaria (1958), Studi di filosofia della prassi 1963), Essenza del nichilismo (1972), Destino della necessità. Katà to chreòn (1980), Il giogo (1989), Oltre il linguaggio (1992), Tautótēs (1995), La gloria (2001), Oltrepassare (2007), La morte e la terra (2011), Intorno al senso del nulla (2013).

* * * *

Buongiorno Professore, Le siamo grati di averci concesso questa intervista. Per noi è un onore avere la possibilità di porgerLe alcune domande relative al rapporto tra linguaggio, ontologia e Destino.

A proposito del contenuto dei Suoi scritti Lei utilizza l’espressione “testimonianza” allo scopo di indicare ciò che non è il prodotto di una volontà o il contenuto di una coscienza. Tuttavia anche la testimonianza è una volontà. In che modo la volontà della testimonianza, pur essendo avvolta dalla fede - dalla volontà di dire e quindi dall’errare -, riesce ad indicare quell’assolutamente altro dall’errore che è il Destino? La verità non può non apparire, perché fintanto che qualcosa appare, appare la sintassi del Destino; ma il modo in cui appare il Destino alla testimonianza è diverso o no dal modo col quale esso appare alla non testimonianza?

Severino: Dunque la domanda contiene molti temi. Cominciamo a dire che il Destino della verità appare ovunque ci sia un ascolto, ovunque ci sia una presenza del mondo laddove intendendo per presenza del mondo non esclusivamente quel che si costituisce solo all’interno di quegli enti che chiamiamo “uomini” o di quell’insieme di enti che chiamiamo “prossimi”.

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sinistra

Storia e libertà

di Salvatore Bravo

846087a2fbedac47e57324d11ba9e8b1Ripensare la storia con Gramsci ed a partire da Gramsci (Ales22 gennaio1891 – Roma27 aprile1937) è un atto di libertà e resistenza, poiché Gramsci vive la storia come il luogo ed il tempo nel quale l’essere umano si umanizza mediante la prassi e la trasformazione comunitaria delle condizioni storiche date. Gramsci resta fedele al suo destino, alla sua formazione hegelo-marxiana per cui la storia non è fatalmente iscritta secondo leggi scientifiche, ma in essa opera il possibile storico, ovvero gli esseri umani possono cambiare la storia nelle circostanze e nelle potenzialità del periodo storico vissuto. La responsabilità storica implica la consapevolezza che l’azione storica necessita della partecipazione e della passione durevoli, in quanto le variabili storiche, le opposizioni, le resistenze reazionarie possono riemergere in qualsiasi momento all’interno del moto rivoluzionario ed all’esterno. La storia umanizza, poiché il soggetto della storia, l’umanità, impara nell’organizzazione di partito ed ideologica a mediare le circostanze con il progetto ideologico. Non vi sono leggi o divinità che presuppongono i fini della storia, ma sono gli esseri umani con la lucida analisi partecipata ed organizzata ad essere il moto della storia. Contro l’utopia Gramsci propone ed oppone la responsabilità dei sottomessi, dei sudditi, che si vorrebbe tali per destino e per sempre. Si è sudditi anche nell’utopia liberatrice che ingabbia la storia in schemi prestabiliti, in quanto si sostituisce al feticismo delle merci il feticismo dei fini. La libertà emancipatrice è nell’atto di porre la storia, nella decisione collettiva capace di dinamizzare le potenzialità e le contraddizioni storiche per mettersi in cammino verso fini stabiliti dalla collettività all’interno di una lettura condivisa del presente e con la chiarezza del modello socio-economico verso cui dirigersi1:

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ospite ingrato

Franco Fortini e le negazioni a basso prezzo

di Emiliano Alessandroni

Intervento presentato al convegno «…un intellettuale, un letterato, dunque un niente». Eredità di Franco Fortini, a cura di Salvatore Ritrovato, Antonio Tricomi e Riccardo Donati, Urbino, 21 novembre 2017

Franco Fortini oooooI. Intellettualismo e Negativo astratto

In tutte le sue battaglie di ordine filosofico e teorico/letterario, Franco Fortini non si è mai stancato di mettere in risalto la disposizione al negativo, dunque al conflitto, che contraddistingue le avanguardie artistiche: «nel termine stesso di avanguardia», sottolineava, vi è una «analogia di carattere militare». Si trattava, in sintesi, di riconoscere un nemico, «stabilire due fronti, cioè suscitare l’avversario, determinarlo, e così bloccarlo».1

Tali correnti estetiche tendono quindi a irrompere dentro il dibattito pubblico assumendo le vesti di una negazione radicale. Ma «una negazione», aggiungeva, di carattere tutto spirituale, concepita interamente «nell’ordine della volontà e della persuasione»,2 confinata, pertanto, entro i tracciati che delimitano la dimensione del soggetto.

La prospettiva e il linguaggio qui adottati sembrano rinviare direttamente a Hegel. Questi, invero, tanto nella piccola quanto nella grande Logica, aveva denunciato l’illusorietà di quel «Negativo astratto (Abstrakt-Negativ3 che, frutto di arbitri individuali, non possiede alcuna relazione con l’oggettività e le forze immanenti del processo storico reale:

Nel fatto, quando il negativo non esprima altro che l’astrazione di un arbitrio soggettivo, oppure una determinazione di un confronto estrinseco, certamente esso non esiste per l’oggettivo positivo, vale a dire che questo non è in lui stesso riferito a una tal vuota astrazione; ma allora la determinazione di essere un positivo gli è parimenti soltanto estrinseca.4

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paroleecose2

Il libro insostenibile. Breve difesa di La distruzione della ragione

di Mimmo Cangiano

la distruzione dell uomo evid

tende a questo fine: dedurre dalla gnoseologia l’«eternità» della società capitalistica

György Lukács

Esiste un motivo centrale e ricorrente, un topos spesso ignorato, che attraversa la letteratura, il cinema, e più in generale un gran numero delle più svariate macchine narrative tardo-ottocentesche e novecentesche. Si manifesta quando, durante la lettura o la visione, all’improvviso l’autore ci svela che le azioni di un personaggio, fatte per ragioni dichiarate come ideologiche, etiche o connesse a una sfera comunque idealistica, collegate soprattutto a motivazioni storiche, collettive, sono in realtà eseguite per puri scopi e motivi personali (siano questi abietti o nobili ora non è importante). È un momento fondante nella ricezione di un plot. È il momento in cui il personaggio si abbassa al livello del fruitore, e il fruitore può riconoscere nel personaggio se stesso. Qui il lettore liberale sorride tranquillizzato, rassicurato nella sua coscienza che niente di collettivo sia realmente possibile, che dietro le grandi narrazioni, dietro i punti di vista totalizzanti, e finanche dietro la Storia, non vi sia altro che l’individuo, coi suoi obiettivi, bisogni e desideri: inevitabilmente separato dai suoi simili. Quel sorriso, per dirla con Gramsci, è il ghigno di Gwynplaine, perché è il momento in cui l’alienazione del lettore dai suoi simili trova conforto, tristissimo conforto, nell’alienazione del personaggio, elevato a simbolo di una condizione che al nostro immaginato lettore liberale neanche appare più storica, ma quasi naturale: questi siamo, “questo schifo qui”, dice se è in fase pessimista o se ha digerito male, il resto è ideologia.