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petiteplaisance

Lukács: filosofia e ordine del discorso

di Salvatore Bravo

La «passione durevole» di György Lukács per la filosofia è finalizzata a trascendere i condizionamenti del capitalismo che vuole anestetizzare la corrente calda del pensiero critico perché nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi dell’emancipazione

lukakcs 1200x799 768x511La libertà di pensare ed agire secondo coscienza non è solitudine

László Rudas (1885-1950) direttore della Scuola centrale del Partito comunista ungherese, membro dell’Accademia ungherese delle scienze e difensore dell’ortodossia marxista, rappresenta la “disposizione” dei burocrati a rinchiudersi in rassicuranti caverne concettuali dalle quali giudicare e condannare coloro che deviano dal cammino stabilito dalle confraternite del pensiero unico ed unidirezionale. La filosofia per sua “natura” è uscita dalle caverne, è attività creativa e logica, è legein attività significante capace di generare concetti nuovi su tradizioni pregresse per trascenderle in nuove configurazioni speculative.

La distanza tra László Rudas e G. Lukács ben simboleggia l’incomprensione intellettuale che vi può essere tra il burocrate di partito ed il libero pensatore, il quale è parte di una storia politica, ideologica, filosofica, ma nello stesso tempo è sempre volto verso l’esodo, poiché “la vita come ricerca” lo porta a divergere dagli schemi, dai paradigmi del potere. L’ortodossia marxista non poteva perdonare a Lukács la sua inesausta aspirazione teoretica, la fedeltà a se stesso, quale condizione imprescindibile per poter aderire ad un progetto politico.

La libertà di pensare ed agire secondo coscienza non è solitudine, non è iattanza intellettuale, ma autonomia senza solitudine. Il potere è corrente fredda che congela l’ideologia, stabilisce il grado di purezza degli intellettuali, ed il livello di dissenso che si può tollerare.

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filosofiainmov

Democrazia inquinata

di Antonio Martone

democrazia digitale 5 1024x682Doppio inquinamento

Esiste un inquinamento ambientale, e per fortuna se ne parla: purtroppo, se ne parla soltanto poiché il capitalismo post-industriale ha pur bisogno di “gestire” le proprie contraddizioni più palesi (al fine di addomesticarle) ma qualche volta – almeno – se ne discute. Tuttavia, la questione dell’inquinamento è molto più ampia. Occorre sottolineare, infatti, che gli elementi tossici che possono investire l’uomo non si limitano agli agenti inquinanti esterni. A fronte della spazzatura e di rifiuti di ogni tipo che ormai impregnano l’ecosistema, esiste infatti una psico-sfera umana “impasticcata”, al punto da richiedere cure urgenti. Il vuoto che molti cercano di colmare con droghe, psicofarmaci, con un atteggiamento aggressivo e prevaricante nei confronti degli altri o, più in generale, con la propria falsa coscienza andrebbe affrontato politicamente come il problema centrale del nostro tempo. E, invece, non si fa. È palese a tutti, anzi, che si vada nella direzione contraria.

È chiaro, peraltro, che fra le due forme di inquinamento esista un nesso strettissimo. È del tutto ovvio, per fare un esempio immediatamente comprensibile, che gli abitanti delle periferie del mondo, assediati da ecomostri di ogni tipo, privi di spazi pubblici e di aree ove sia possibile prender parte ad un’intesa sia pur minima con il dato naturale, e dove ammalarsi di cancro è più facile che mandare i figli a scuola la mattina, difficilmente potranno contare su una salute “psichica” degna di questo nome.

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Intellettuali, parola e potere

di Salvatore Bravo

Cultura1Ruolo degli intellettuali ed il suo destino

Il ruolo degli intellettuali ed il suo destino sono indissolubilmente legati alla democrazia. Nella fase attuale del capitalismo assoluto la palese decadenza degli intellettuali, ormai organici alla società dello spettacolo, coincide con la fase regressiva ed autoritaria della “democrazia della finanza”. La democrazia nel suo significato ideale è attività decisionale e consapevole dei popoli, è pensiero condiviso, attività creatrice e dialettica mediante la quale i popoli si riconoscono ed autoriconoscono nelle reciproche differenze rispettose dei comuni principi: comunità, giustizia sociale, consapevole limitazione dei processi crematistici, riconoscimento delle differenze all’interno di una cornice assiologica comune. La democrazia è misura e senso del limite senza i quali non è che la parodia di se stessa, dove vige la dismisura, la cattiva distribuzione delle ricchezze e dei poteri non vi è che la sudditanza della politica all’economia. È evidente che la democrazia dei nostri giorni agonizza sotto i colpi del liberismo e delle conseguenti mercificazioni.

 

L’attività perenne del capitalismo assoluto favorisce la passività

La fase imperiale del capitalismo nella sua furiosa volontà di potenza, conquista e vendita omologa le parole, le svuota del loro significato per renderle frecce uncinate per la perenne televendita. La decadenza delle parole, il loro essere organiche alla lingua del capitale è forse il risultato più alto che il capitalismo assoluto ha potuto ottenere. Il pensiero è costituito di parole, la loro funzionalizzazione alla sola vendita ha reso possibile l’attacco alle coscienze; la penetrazione violenta nella mente dei popoli è un’operazione imperiale nuova ed inaudita. I popoli senza lingua e linguaggi, indotti a parlare la lingua unica del mercato, possibilmente l’inglese commerciale, vivono la profondità della loro crisi politica nella forma dell’attività-passiva.

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Di alcuni motivi in Walter Benjamin

di Paolo Vernaglione Berardi

Walter Benjamin, Scritti autobiografici, tr. it. Carlo Salzani, Neri Pozza editore – La Quarta Prosa, 2019, pp. 541 – €. 30,00.

Senza titolo 121. Felicità in un libro 

Un dono è arrivato nelle librerie. È l’edizione italiana del VI volume degli scritti (Gesammelte Schriften 1985) di Walter Benjamin, intitolata Scritti autobiografici. Nella collana La Quarta Prosa, diretta da Giorgio Agamben per Neri Pozza e nella ineccepibile traduzione di Carlo Salzani, la raccolta di testi e diari che coprono gli anni 1906-1939 apre una necessaria distanza nell’interpretazione, che potrebbe marcare una discontinuità rispetto all’attuale trend pubblicistico ed ermeneutico dell’opera benjaminiana.

In questa eventualità consiste d’altra parte il primo degli aspetti significativi di questo testo che, nella sequenza di note e saggi editi, come i famosi Diario moscovita e Infanzia berlinese intorno al millenovecento, e inediti, come la Cronaca berlinese, riduce la frammentazione editoriale dell’opera di Benjamin, riportandola in qualche modo all’epoca della prima realizzazione italiana presso Einaudi tra i primi anni Ottanta e la metà degli anni Novanta.

Che sia proprio la raccolta di testi autobiografici, per natura idiosincratici alla pubblicazione, ad indicare un movimento inverso rispetto all’attuale fortuna critica di un’opera infinita è uno di quei paradossi editoriali spiegabili con motivi che non hanno a che fare con strategie editoriali e operazioni di marketing ma con un senso che eccede la disinvoltura con cui Benjamin è ‘usato’. Questi motivi risiedono nel senso delle costellazioni epocali di cui l’autore delle Tesi sul concetto di storia affermava che si rendono intelligibili solo ad una certa scadenza temporale.

D’altra parte il desiderio di vedere comparire testi di Benjamin in un presente inattuale proviene meno dalla snobistica volontà di rendere arduo uno dei pensieri più luminosi e acuminati del lungo XX secolo che dal bisogno di silenzio intorno a quel pensiero dirompente.

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codicerosso

Il bisogno di un’eresia

di Diego Sarri

Screenshot from 2019 11 17 15 01 11In un precedente articolo intitolato “Sulla necessità di teoria attuale”, abbiamo già detto come per quanto riguardi gli anni ‘60/’70 non si possa non riconoscere l’emergere sia di produzione teorica che di pratiche fortemente contaminate, sincretistiche, ad un netto “rimescolamento di carte”. Sebbene tendenze del genere spesso siano testimonianze esteriori di crisi sostanziali, ed il periodo possa essere interpretato dunque come un periodo di crisi del politico, è vero anche che questi stessi periodi si possono rivelare molto produttivi, grazie anche all’apporto di soluzioni teoriche nuove ed innovative.

Come si dice in gergo, ogni crisi nasconde un’opportunità. C’è chi ha studiato l’andamento delle grandi rivoluzioni teoriche, come Kuhn e prima ancora il francese Bachelard, di cui infatti parleremo più avanti. Sono questi autori che analizzano l’andamento, il dinamismo interno e la capacità di rottura di alcune grandi rivoluzioni scientifiche.

Come abbiamo scritto nel succitato articolo le necessità di innovazione sperimentate negli anni ’70 si ripresentano oggi, magari sotto veste diversa, con declinazioni differenti ma con un isomorfismo, un’identità formale almeno in un punto, tra i due contesti storici: senza scadere negli eclettismi, c’è bisogno di pratiche e teorie che aggiornino fortemente la nostra agenda politica.

Da un punto di vista storico, è forse nel secondo dopoguerra che certa tradizione rivoluzionaria marxista entra in crisi, almeno la sua anima più tradizionale ed ortodossa. Cerchiamo di individuarne degli indici storici: non c’è paese in Occidente che non possieda, all’indomani della seconda guerra mondiale, un partito comunista forte. Ora, il PCI italiano di questo periodo non è niente di rivoluzionario, è una grande socialdemocrazia, premessa storica perfetta per l’attuale PD.

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Per Costanzo Preve

di Salvatore Bravo

Ci lascia un'importante eredità morale e filosofica: cercare verità, complessità, libertà dalle conventicole. La filosofia non ha il compito di rassicurare, ma di porre domande, rinunciando alle facili risposte

self portrait as an artist 1888Il 23 Novembre del 2013 è venuto a mancare Costanzo Preve. Non l’ho conosciuto personalmente, ma attraverso i suoi scritti ed i video in cui continuava a diffondere le proprie idee. Per me è stato un incontro importante. Le modalità con cui si può entrare in relazione con una persona sono plurime, i testi scritti ed i video sono il modo in cui è avvenuto quest’incontro. Costanzo Preve “mi ha parlato” in un momento storico dominato dalla chiacchiera e da un conformismo meno che mediocre; “mi ha comunicato” un messaggio. Ha ravvivato in me la passione per la verità e per la Filosofia. Non che non vi fosse, ma un pensatore che ha il coraggio della radicalità della filosofia, ha la forza morale ed intellettuale di far sentire a casa coloro che cercano la verità, o che si confrontano con essa. Normalmente la passione per la verità nella nostra epoca causa un senso profondo di estraneità, di distanza, per cui si ha la sensazione di essere sospinti in una indefinibile periferia a cui si giunge incalzati da una realtà sociale che sdembra abbia rinunciato ad ogni possibile ricerca della verità. È un’immensa palude in cui tutto si omologa, in cui diventa la verità l’irrilevanza, sostanza che tutto muove senza che nulla muti.

Costanzo Preve si è tratto fuori dalla palude dell’irrilevanza, ed ha vissuto nella sua carne dolente la coerenza della filosofia che propugnava con le parole, con le argomentazioni logiche, con la scelta di vivere e testimoniare la sua posizione filosofica distante dalle accademie, dai luoghi in cui il pensiero diventa arte del meretricio. “Lo scandalo Preve” è consistito nel riaffermare la centralità della verità senza la quale la filosofia è solo una disciplina che si confonde con una serie di discipline altre. La verità è stata la sua trasgressione all’ordine costituito, trasgressione non priva di speranza, perché – come amava ripetere – l’essere umano per natura non può che pensare la verità. Pertanto gli innumerevoli “filosofi” della morte della verità e dell’osanna al capitalismo non sono che l’effetto di una congiuntura epocale. Le mode passeranno, mentre la verità degli uomini e delle donne non potrà fermare il proprio cammino.

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losguardo

M. Cacciari, La mente inquieta

Recensione di Giulio Gisondi

M. Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Einaudi, 2019

978880624085HIGL’ultimo lavoro di Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, vuol essere un tentativo di ripensare il contenuto filosofico dell’Umanesimo. Lontano dal diluire o dal ricondurre, come spesso ha fatto una certa filosofia contemporanea, l’esperienza culturale del Quattrocento italiano all’esclusivo ambito artistico-letterario, da un lato, e alla pratica erudita e filologica degli studia humanitatis, dall’altro, l’autore riconosce, invece, all’Umanesimo la sua piena identità e dignità filosofica. E lo fa esplicitando, sin dalle prime pagine, il debito nei confronti della lezione di Eugenio Garin, di quell’idea di Umanesimo civile compreso come «età di crisi […], in cui il pensiero si fa cosciente della fine di un Ordine e del compito di definirne un altro, drammaticamente oscillante tra memoria e oscuri presagi, crudo scetticismo e audaci idee di riforma» (Introduzione ). Proprio il riconoscimento dell’Umanesimo quale momento disarmonico, disincantato, tragico e conflittuale, di rottura delle cattedrali metafisiche scolastiche, rappresenta uno dei maggiori risultati della ricerca e della prospettiva gariniana, a partire dalla quale questo saggio prende le mosse.

Tuttavia, nonostante il lavoro di ricostruzione storico -filosofica e filologica avviato nel dopoguerra dalla scuola di Garin, di Cesare Vasoli, e proseguito dai loro allievi, Cacciari osserva come ancora oggi molte siano le riserve, le diffidenze e le incomprensioni relative al senso, al significato e al valore filosofico dell’Umanesimo. Una delle ragioni di tale incomprensione è legata all’abitudine, di una pur grande storiografia, di porre il problema dell’Umanesimo considerandolo sempre in funzione della propria posizione teoretica. È questa, ad esempio, la prospettiva all’interno della quale l’Umanesimo è stato considerato da autori come Giovanni Gentile o Ernst Cassirer, ovvero quale presupposto o momento della maturazione del loro stesso pensiero.

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Illusione Matematica

di Claus Peter Ortlieb

kant e i suoi amici5Con il testo "Illusione Matematica", Claus Peter Ortlieb torna a quelli che sono i fondamentali di una critica delle scienze matematiche della natura. Si sa che, in particolare le scienze naturali, rivendicano per sé una oggettività che pretende di non aver niente a che vedere con i soggetti investigati, né con il loro specifico interesse sociale alla conoscenza, né niente a che vedere con la forma sociale; viene assunta, per così dire, la «visione del nessun luogo» (Elisabeth Pernkopf). Ortlieb si oppone all'idea, ampiamente generalizzata e diffusa in quelle che sono le scienze esatte, secondo cui la realtà è, nella sua essenza, di natura matematica, per cui la matematica e le leggi formulate nel suo linguaggio sarebbero, pertanto, una qualità naturale, indipendente dalle persone e dalla loro visione del mondo. Un'accurata analisi di quello che è l'indagine matematico-scientifica reale prova questa idea è erronea. Si tratta di un feticismo, che proietta quella che è la sua propria forma di conoscenza storicamente specifica, insieme a quelli che sono i suoi propri strumenti, sull'oggetto della conoscenza, rendendo quelli proprietà di questo. La connessione con il feticismo delle merci è ovvia, e si può anche dimostrare che la conoscenza matematica della natura ha come suo presupposto la dissociazione del femminile. (Presentazione del testo sul n°15 di exit! del mese di aprile del 2018). Il testo che segue è la versione scritta ed ampliata di un intervento alla conferenza: «Matematica Generale: Matematica e Società. Prospettive filosofiche, storiche e dialettiche», Schloss Rauischholzhausen, 18-20 giugno 2015.

* * * *

Quando si guarda il mondo indossando occhiali di color rosa, esso appare di colore rosa. E, quindi, chiunque guarderà il mondo attraverso gli occhiali della matematica vedrà strutture matematiche dappertutto. [*1] Ora, il colore rosa non è ovviamente una proprietà del mondo, ma semmai degli occhiali.

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comunismo e comunit

Verità, ontologia umana e capitalismo

di Lorenzo Dorato

frida1 248x300Introduzione

Tra gli ostacoli più forti alla formazione di un fronte di opposizione al sistema di relazioni sociali dominante (il capitalismo) ed in particolare alle sue dinamiche più distruttive (che si esprimono in una crescente ed inesorabile manipolazione e degradazione antropologica) vi è l’idea pervasiva che la verità non esista. Può sembrare un’asserzione provocatoria ed esagerata, ma è proprio quello che penso e che proverò in queste pagine ad argomentare passo dopo passo. L’accettazione attiva o passiva del capitalismo e della filosofia sociale e politica che lo sostiene (il liberalismo) è compatibile, naturalmente, anche con la fede nell’esistenza della verità. Basti pensare alle numerose religioni che fanno della verità il loro perno contenutistico e che si pongono nella realtà sociale in una posizione di totale compatibilità con le relazioni economiche e sociali capitalistiche di mercato. Tuttavia, se questo è vero, e non si può negare che lo sia, vi sono due elementi fondamentali che devono corredare questa evidenza.

1 – Il fatto stesso di riconoscere l’esistenza della verità, intesa come conoscibilità certa e condivisa dell’essenza della natura umana e dei bisogni dell’uomo, permette un dialogo alla pari con l’assertore della verità, dialogo la cui base e premessa condivisa è il fatto stesso che una verità sull’Uomo, per quanto difficile e apparentemente imperscrutabile, esiste ed è innegabile che esista. Questo elemento comune consente quindi un dialogo alla pari tra dialoganti veritativi. Anche se si proclamano due verità diverse si è, quindi, consapevoli del fatto che, in virtù dell’esistenza della verità (che per definizione è unica), le divergenze possono essere attribuite soltanto a due ipotesi: la prima ipotesi è che almeno uno dei due interlocutori si sbaglia; la secondo ipotesi è che la forma esteriore assunta dalle verità proclamate ne occulta la comune sostanza. In ogni caso si crederà possibile il raggiungimento di una meta conoscitiva comune attraverso il dialogo e la conoscenza.

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Disperate speranze

di Mario Tronti

Il saggio di Mario Tronti per l’undicesimo numero della rivista bimestrale Infiniti Mondi, dedicato al concetto di utopia alla luce del pensiero di Ernst Bloch

Immagine.jpeg min 1080x675Non è tempo di utopie. Per questo è necessario tornare a parlare di Utopia. Siamo in catene tra le sbarre di un eterno presente, una condizione che ci toglie la libertà sia di guardare indietro sia di mirare avanti: perché, secondo l’opinione corrente e dominante, il passato ha il dovere di morire e l’avvenire non ha il diritto di vivere. Per reazione, a cercare luce dalla caverna, sovversive diventano allora due facoltà grandemente umane, la memoria e l’immaginazione. Esse vanno coltivate insieme e non l’una contro l’altra: è questo quanto voglio tentare di dire. Aggiungendo: il riferimento non deve essere a ieri, ma all’altro ieri; non al domani, ma al dopodomani. L’immediato passato è ciò che ha prodotto questo presente: va messo sotto critica. L’immediato futuro è tutto nelle mani di chi comanda oggi: occorre strapparglielo. Mai dimenticare che quando si pensano concetti politici, bisogna legarli a filo doppio con le lotte. Nel viaggio per raggiungere le coste dell’isola di Utopia, si arriva attraversando un mare in tempesta, non certo cullandosi nella grande bonaccia delle Antille.

Questo è tempo di distopie. C’è il rullo compressore di un processo storico che va avanti per conto suo, senza che nessuno lo guidi, perché non ha bisogno di guida, ha una logica autonoma di sviluppo e di crisi, secondo leggi di movimento vetero-e-neocapitalistiche perfettamente tra loro intercambiabili. Il Leviatano della tecnica non è soggetto, è strumento, dopo il Novecento, come il Leviathan della politica lo fu nel Seicento. Allora servì all’accumulazione originaria della ricchezza delle nazioni, cioè del capitale-mondo, oggi serve alla dissipazione finale delle risorse della terra. E non è in vista il Behemoth delle guerre civili. I conflitti esistono. E non possono non esistere in società profondamente divise, come le nostre. Ma sono conflitti falsi nell’azione dei soggetti, come le false notizie nella comunicazione delle parole.

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Tra Nietzsche e Auschwitz

di Salvatore Muscolino

2009 a32 08 05 adorno bDiscutere di Adorno a 50 anni dalla morte significa discutere di un intellettuale decisamente fuori moda soprattutto perché la società è affetta oggi da uno specialismo sfrenato che è quanto di più lontano vi sia dall’idea che egli aveva dell’intellettuale e del sapere.

Protagonista indiscusso della prima generazione della Scuola di Francoforte, Adorno ha offerto contributi sul piano della critica musicale, su quello sociologico e filosofico che sono fondamentali per comprendere un’intera stagione della storia culturale europea ed Occidentale.

In questa occasione, la domanda alla quale vorrei provare a rispondere è se l’impianto categoriale del pensiero di Adorno sia ancora oggi valido considerato che la sua opera ha costituito e costituisce un punto di riferimento imprescindibile per tutti coloro si richiamano alla grande eredità della Teoria critica: penso a Jürgen Habermas, Albert Wellmer, Axel Honneth fino ad arrivare agli esponenti più giovani come Rahael Jaeggi.

Lo scenario nel quale viviamo oggi è quello della cosiddetta postmodernità e quindi per una valutazione d'insieme del pensiero di Adorno è necessario interrogarsi su come egli si collochi rispetto a questo orizzonte culturale. Ad uno sguardo complessivo, credo che non sia azzardato considerare l’intera riflessione adorniana come un chiaro esempio del carattere “tragico” del pensiero filosofico dopo Nietzsche. È Nietzsche infatti il campione di quel “pensiero negativo” che attaccando la soggettività moderna e rifiutando qualsiasi mediazione razionale tra pensiero e mondo ha portato il logos filosofico ad esaurimento riducendolo sostanzialmente a “volontà di potenza”.  Se il problema della filosofia contemporanea è il nichilismo, Nietzsche è colui che sostenendo la sconnessione di pensiero e realtà e riducendo tutto a “interpretazione” deve essere considerato il vero “profeta” della parabola del pensiero novecentesco verso il nichilismo.

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Globalizzazione della chiacchiera

di Salvatore Bravo

Siamo nella rete della globalizzazione della chiacchiera, ma abbiamo l'illusione di essere liberi. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, pewr la quale non esiste èiù nulla d'incerto

Cartelloni cranici 01L’impero della chiacchera

La globalizzazione neoliberista non si può ridurre a mera espansione geografica, ad avanzamento bellicoso dell’occidentalizzazione anglosassone. La sua espansione imperiale avviene nell’invisibile, nella mente: le coscienze sono coartate dalla struttura economica, sono curvate all’avanzamento della globalizzazione neoliberista. Il capitalismo attuale è stato definito immateriale, non solo per l’uso del digitale e degli algoritmi, ma anche per il potere di incantare che ha assunto, di suscitare illimitati desideri.

Heidegger, in Essere e Tempo, ha ben interpretato il significato profondo dell’espressione modo di produzione capitalistico, il quale si connota per un movimento anonimo ed autonomo che ingloba le coscienze, le rende irrilevanti (Man). L’ambizione del modo di produzione capitalistico è svilupparsi, in modo meccanico, attraverso le coscienze sussunte all’impianto capitalistico (Gestel). Non a caso il linguaggio comune non solo ha adottato la lingua del vincitore, l’inglese commerciale, ma specialmente sostituisce il concetto (Begriff) con la chiacchiera (Gerede) o con la gestualità seduttiva.

La chiacchiera si diffonde nel discorso come nella scrittura, il nichilismo pervade il quotidiano nella forma della passività che la chiacchiera comporta. L’attività è nella scelta dell’offerta mercantile, sempre più individualizzata. Consumatori attenti ai propri desideri scrutano i prodotti, alla ricerca della merce a loro misura, l’incantatore sibila: «Ce n’è per tutti i gusti». L’individualizzazione estrema depoliticizza, per cui il pubblico è valutato in relazione ai bisogni del cliente-consumatore.

La chiacchiera è orientata al privato, il pubblico è solo un mezzo per esaudire narcisismi illimitati. Heidegger nel paragrafo trentacinque di Essere e Tempo, così descrive l’impero della chiacchiera:

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pandora

“La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo” di Massimo Cacciari

di Federico Diamanti*

Recensione a: Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019, pp. 128, 18 euro, (scheda libro)

UmanesimoL’ultima pubblicazione di Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’umanesimo, è introdotta da una brevissima pagina ‘memoriale’ in cui il filosofo racconta, con un’immagine che risalterà in tutta la sua importanza agli occhi del lettore, dove affondano le radici ‘umanistiche’ (nel senso stretto di ‘legate al periodo dell’Umanesimo) del suo pensiero. Esse – rintracciabili d’altronde in tutta la bibliografia cacciariana – sono però legate ad un anno, in particolare: il 1976. Come è noto, fu l’anno della pubblicazione del primo notevole cimento filosofico dell’autore, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein; ma quello stesso anno vide l’inizio della circolazione di uno dei più importanti e maturi volumi di Eugenio Garin, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo. Si incontravano dunque, nello stesso lasso di tempo, per una assoluta casualità di natura editoriale, due figure, due volumi e due percorsi di ricerca diversi, con differenti orientamenti e opposte esperienze alle spalle: ma la lettura di Rinascite e rivoluzioni significò qualcosa di più profondo per il filosofo. «Ed ecco che Rinascite mi spalancava di fronte una visione dell’Umanesimo come età di crisi, età assiale, in cui il pensiero si fa cosciente alla fine di un Ordine e del compito di definirne un altro, drammaticamente oscillante tra memoria e oscuri presagi, crudo scetticismo e audaci idee di riforma»: il volume con cui Garin supera le «colonne d’Ercole» della tradizionale concezione del Rinascimento (la definizione è di Michele Ciliberto[1]) e compie un passo ulteriore rispetto al suo dialogo con H. Baron a proposito dell’umanesimo ‘civile’ fu dunque il punto di partenza per una ‘cura’ di Cacciari nei confronti del secolo XV e dei suoi protagonisti: una cura che culmina nel saggio su cui qui si presenta una riflessione, già apparso – in forma lievemente meno estesa – come introduzione ad un fondamentale volume antologico del 2017, Umanisti italiani (a cura di R. Ebgi), che contiene un’ottima selezione di testi di epoca umanistica – tradotti e commentati – tuttora difficilmente reperibili in edizioni moderne e ben curate.

Il primo capitolo inquadra la questione della storia delle interpretazioni dell’Umanesimo. Si tratta certamente di un preliminare imprescindibile del libro, poiché è proprio a partire delle varie interpretazioni dell’Umanesimo che Cacciari ha elaborato, nel tempo, intuizioni filosofiche e criteri metodologici nella sua ricerca.

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consecutiorerum

La dottrina della verità senza la dottrina della città

Per una critica della teoria heideggeriana della tecnica

di Roberto Finelli

Cademartori Dismissioni1. La de/formazione heideggeriana della «questione della tecnica»

Proporre visioni del mondo e dell’essere umano a partire dalla categoria o dal principio dell’Essere significa, come insegnava quel grande maestro di filosofia antica e di laicismo che è stato Guido Calogero, riproporre questioni improponibili ed arcaiche, che muovevano da metafisiche antiche legate alla transustanziazione ed ipostasi del verbo «essere», ossia di una parola, in un presunto fattore di realtà1.

Non a caso la storia della metafisica dell’Essere e della sua trascendenza si conclude con la filosofia moderna, specificamente con la Critica della ra- gion pura di Kant e la sua riduzione della realtà dell’essere all’esistenza, cioè alla percezione di un alcunché che si dà attraverso il modificarsi dell’apparato sensibile del corpo. Ma appunto, proprio a partire dall’estinzione del problema e della tematica dell’essere nella modernità e dalla sua riduzione a fantasma di antiche metafisiche e religioni, si può assai meglio intendere la poderosità dell’operazione culturale compiuta da Martin Heidegger nella prima metà del Novecento con la riproposizione del principio dell’Essere a principio di senso dell’intera realtà, umana e non umana, e insieme l’intento di far valere tale rinnovata dottrina dell’Essere come la massima espressione egemonica della filosofia dell’intero Novecento.

Com’è ben noto, Heidegger ha potuto compiere la sua gigantesca impresa, non attraverso una mera riproposizione dell’antico, bensì attraverso la sua partecipazione, a livelli assai rigorosi di acquisizione, alla fenomenologia di Husserl da un lato, quale teoresi moderna più avanzata sulla struttura della soggettività, e dall’altro alla tradizione della filosofia scolastica e del suo impianto ontologico, anche qui secondo modalità di studio e di conoscenza di grande estensione e profondità. Né v’è dubbio alcuno che la genialità del pensatore di Messkirch sia consistita proprio nella capacità di mediare queste due aree di competenza filosofiche, così lontane ed eterogenee tra loro, e di concepire in tal modo, prima, una originalissima fenomenologia ontologica della soggettività con Sein e Dasein e, poi, una metafisica della storicità dell’Essere nella seconda fase del suo pensiero.

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quadernidaltritempi

Che cos'è la verità? Questione d'immaginazione

di Roberto Paura

avvenimenti postverita 01Nel Vangelo di Giovanni, durante l’interrogatorio di Ponzio Pilato, Gesù dichiara di essere venuto al mondo “per rendere testimonianza alla verità”, specificando che chiunque lo ascolti è dalla parte della verità. La risposta non sembra colpire il governatore romano, che si limita a rispondere con una domanda retorica: “Che cos’è la verità?”. A quella domanda Gesù non risponde, almeno secondo l’evangelista, né Pilato sembra attendersi una risposta. Probabilmente l’ha rivolta a sé stesso, lui che dev’essere stato educato allo scetticismo di Pirrone, al relativismo di Protagora, al nichilismo di Gorgia nelle scuole filosofiche di Roma: eccolo, quest’uomo presuntuoso che, come tutti gli ebrei, pretende di possedere la verità, di poter persino annunciare – è di nuovo Giovanni a mettergli in bocca queste parole – di essere via, veritas et vita.

 

Una domanda ancora attuale

Riletto ai giorni nostri, questo passaggio è più attuale che mai: Pilato è lo scettico nichilista postmoderno, che ha imparato nei suoi lunghi studi che la verità è sempre relativa, dipendente dal contesto, dalla cultura, dall’epoca e così via; Gesù il dogmatico metafisico che annuncia ostinato l’esistenza di un’unica, sola verità. Ma se fino a poco tempo fa questi diverbi potevano interessare solo i filosofi o i teologi, oggi il problema della verità è diventato addirittura un “rischio esistenziale”, a voler dar retta alle analisi del World Economic Forum, che inserisce il problema della postverità, neologismo entrato nei dizionari anglosassoni nel 2016, nel suo annuale rapporto sui rischi che corre la nostra civiltà (WEF, 2017).

Addirittura? Sembra un po’ eccessivo. Dopotutto, le bugie di Pinocchio non hanno mai fatto male a nessuno; lo scetticismo di Pilato, certo, ha mandato a morte Gesù, mettendo a rischio il progetto di salvezza di Dio (hai detto niente), ma qui siamo di fronte a un problema più triviale e più attuale, che riguarda questo mondo. Cosa sta succedendo?