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petiteplaisance

L’umanesimo nell’Occidente è stato sostituito dall’umanismo

di Salvatore Bravo

Uomo vitruviano Leonardo da Vinci 750x500L’umanesimo nell’Occidente è stato sostituito dall’umanismo: quest’ultimo è funzionale ai bisogni del capitalismo assoluto. L’umanismo recide i legami con ogni fondazione possibile della verità, con ogni oggettività formulata attraverso il logos, predilige l’individuo astratto rispetto all’essere umano concreto e comunitario.

Marx – nella lettura di Costanzo Preve – non può essere relegato nella nomenclatura degli umanisti, poiché non consegna l’essere umano alla contingenza della storia, non riduce il pensiero a nominalismo, ma si pone nell’ottica dell’universale, dell’umanità intera. Il materialismo storico è il mezzo attraverso il quale denuncia l’umanità offesa. Ricostruisce attraverso i modi di produzione l’alienazione (Entfremdung), i processi di negazione della natura umana, la sua riduzione ad appendice del sistema produttivo. Nel conflitto sociale che muove la storia, nelle sue contraddizioni, la condizione umana concreta si dispone al suo interno secondo prospettive e responsabilità differenti: la responsabilità di un magnate è differente rispetto alla responsabilità di un lavoratore salariato. La grandezza di Marx è aver sistematizzato le condizioni che provocano l’alienazione. Ma, nello stesso tempo, non si è limitato a costruire una narrazione ideologica, e dunque parziale: ma la sua opera è finalizzata all’emancipazione dell’umanità, perché il sistema produttivo borghese, il capitalismo, offende e nega la natura umana.

Nell’operaio legato alla catena della macchina e del plusvalore si rende lapalissiana la miseria umana nella fase del capitalismo. L’operaio è negato nella sua natura individuale e comunitaria, è il portatore sano di relazioni sociali errate; la controparte, il capitalista, vive una condizione materiale privilegiata dietro cui agiscono processi di alienazione che nell’immediato non appaiono. In realtà, dietro la maschera del benessere materiale, si scopre il soggetto alienato nella sua natura. Per Preve quindi, Marx è un iperumanista, poiché la sua teoretica è finalizzata a superare le scissioni che impediscono di concettualizzare la natura umana e di valutare attraverso di essa la condizione umana.

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Simmel e il denaro

di Salvatore Bravo

georg tFilosofia e pensiero radicale

Il pensiero filosofico dev’essere radicale, ovvero deve cogliere il fondamento del movimento fenomenico, solo con tale lavoro concettuale la filosofia raggiunge con lo scandaglio della filosofia la verità immanente della storia. La filosofia per sua disposizione cognitiva è amica della verità: verità eterna nella storia, e verità nella contingenza, nella congiuntura storica in cui gli esseri umano sono situati. La filosofia relativista è una contraddizione epistemologica, perché essa cerca la verità nelle sue espressioni polimorfe, nelle sue forme storiche, la insegue per il orientamento gestaltico di cui l’umanità ha sempre bisogno. La filosofia vive con gli esseri umani, è eterna come la verità, perché gli esseri umani cercano la verità, la abbattano, la fondano, la trascendono, ma l’umanità vive in tensione con la verità, dunque dove vi è filosofia, vi è umanità e verità.

 

Il mercato come religione dello spavento

L’attuale congiuntura storica caratterizzata dal capitalismo assoluto vorrebbe sostituire la verità e l’esercizio della ragione con il mercato, sostituire la ricerca della verità con la ricerca del mercato e per il mercato significa rompere gli ormeggi con la tradizione, per consegnarsi alla tempesta di un’impossibile navigazione. A tal fine il mercato dev’essere velato dal velo di Maya dell’ignoranza. Si dev’essere servi, e per servire il padrone è necessario renderlo incomprensibile, ipostasi, altare su cui sacrificare il logos e la verità in nome del PIL. L’imperativo categorico del mercato impone di vivere da stranieri-migranti, da creature marginali, servi che adulano il mostro che potrebbe divorarli. Il mercato per velarsi si pone come religione cosmica e pagana: tempo ciclico in cui il futuro è assente, ma l’attimo ritorna eternamente nella forma della quantità come qualità sottratta, e timore reverenziale verso il dio sconosciuto che tutto può ed a cui tutto si deve. La religione dello spavento è la condizione del mercato a briglia sciolta, la deregulation è il ricatto a cui i popoli sono sottoposti.

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sinistra

Per una teoria materialistica dell’errore, degli opposti e della soggettività

di Eros Barone

image002Parvus error in principio magnus est in fine.

Tommaso di Aquino, De ente et essentia.

Io fui già di opinione di non vedere, col pensare assai, più di quello che io vedessi presto; ma con la esperienza ho cognosciuto essere falsissimo: per che fatevi beffe di chi dice altrimenti. Quanto più si pensano le cose tanto più si intendono e fanno meglio.

Francesco Guicciardini, Ricordi.

  1. Errare humanum est”

Nell’introdurre un problema schiettamente dialettico, qual è quello dell’errore, conviene senz’altro premettere una sintetica esposizione del modo in cui tale problema è stato affrontato e risolto nel corso della storia del pensiero filosofico. La distinzione concettuale da cui è opportuno prendere le mosse è quella tra errore pratico ed errore teoretico. Tralasciando il primo tipo di errore, a cui sarà riservata essenzialmente la trattazione svolta in questo scritto, va preso in considerazione il secondo tipo, cioè l’errore teoretico, che consiste nel ritenere vera una proposizione falsa o falsa una proposizione vera, laddove questo tipo di errore concerne l’assenso che viene dato al giudizio e collega, quindi la volontà e l’intelletto. 1

La filosofia greca, ispirandosi prevalentemente all’identità, posta da Socrate, tra scienza e virtù, ha in generale identificato l’errore etico e quello teoretico, talché nessuno erra volontariamente, poiché, come afferma Platone, la conoscenza della verità è la condizione della felicità individuale (cfr. Gorgia ed Eutidemo). Fondamentale nella storia del pensiero dialettico, oltre che nella ricerca filosofica sulla genesi dell’errore, sarà poi, in polemica sia con la scuola eleatica che affermava l’impossibilità di dire e di pensare ciò che non è, sia con i sofisti che riducevano il vero e il falso a un effetto dell’arte retorica, la scoperta platonica del concetto di “non essere” (o differenza) in senso relativo, che sta al centro del Teeteto e del Sofista.

Dal canto loro, Aristotele e le scuole filosofiche dell’età ellenistica, fra le quali per l’acume e la profondità manifestate nell’analisi della questione dell’errore merita di essere citato lo scetticismo, imposteranno tale questione collegandola prevalentemente con il problema se siano i sensi o l’intelletto (oppure entrambi, secondo quanto dimostrato nei tropi scettici) 2 a determinare giudizi falsi.

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Ecologia del tempo. Un nuovo sentiero di ricerca

di Piero Bevilacqua

Riproduciamo, con le note redazionali di Adriana Perrotta Rabissi e Franco Romanò, gli ultimi due capitoli del saggio di Piero Bevilacqua 'Ecologia del tempo. Un nuovo sentiero i ricerca'. L'intero saggio compare su 'Altronovecento, ambiente, tecnica, società. Rivista on line promossa dalla Fondazione Luigi Micheletti'. Dei due capitoli iniziali – Il tempo della fabbrica e Un secolare apprendistato sociale – riportiamo l’ultimo capoverso del secondo che ci sembra riassumere efficacemente la lunga digressione storica

schermata 2019 06 05 alle 09.40.03Il saggio di Bevilacqua ricostruisce il lungo processo storico che ha piegato gli individui e la natura stessa alla logica della produzione capitalistica. Lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali ha introdotto una drammatica asimmetria fra il tempo della natura e quello del consumo di cui solo recentemente si stanno tutte le implicazioni, così come la percezione del lavoro occulto necessario alla riproduzione sociale, in larga parte delegato alle donne.

* * * *

"Dunque, il sistema industriale di fabbrica organizzato dal capitalismo per produrre merci su una scala incomparabilmente più vasta rispetto al passato ha inaugurato un mutamento epocale: un’appropriazione totalitaria del tempo di vita degli uomini ( e, come vedremo, una dimensione e velocità di sfruttamento della natura destinata a crescere indefinitamente.) Finora gli storici hanno sottolineato, di questo grande mutamento, soprattutto le conquiste della tecnologia, la crescita senza precedenti della produzione della ricchezza, lo sfruttamento dei lavoratori. Assai meno l’inizio una nuova storia della vita biologica e psichica degli esseri umani: quello della perdita del controllo personale del tempo della propria vita e il loro assoggettamento a una potenza astratta e totalitaria che li avrebbe rinchiusi entro ferree delimitazioni e ritmi imposti. Gli uomini sottomessi al tempo della società industriale diventavano gli utensili di una nuova epoca di asservimento. E oggi suona paradossale rammentare che, nell’epoca in cui Immanuel Kant indicava come supremo principio etico del nascente illuminismo quello di considerare « l’uomo sempre come fine e mai come mezzo», gli uomini in carne ed ossa stavano per essere trasformati, nella loro grande maggioranza, in mezzi della società industriale capitalistica.

 

I tempi di lavoro della natura.

L’epoca che vede nascere la teoria del valore-lavoro, e quindi l’oscuramento del ruolo delle risorse fisiche nel processo di produzione della ricchezza, è la stesso che assiste al più gigantesco sfruttamento di quello che potremmo chiamare a buon diritto il tempo di lavoro della natura.

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petiteplaisance

Il consumatore votante

di Salvatore Bravo

Il monstrum del sistema del capitale invita al voto, ma senza contenuto umanistico. Il voto è invece un gesto che umanizza. Occorre un voto che sia non utile, ma etico e partecipato

DEYC2b3W0AEVQ2t“Per tutti i gusti”: ecco la definizione che si può attribuire alle elezioni europee. In assenza di cittadini capaci di esprimere un voto consapevole, di cittadini che abbiano maturato una progettualità politica di lungo termine, ci troviamo dinanzi al monstrum del sistema capitale che invita al voto, lo declama, ne fa segno del riconoscimento immediato della democrazia europea in una pluralità di “prospettive politiche”. In realtà il voto è già inficiato in partenza dall’essere in generale espresso non dal cittadino consapevole ma dal suddito consumatore: si vota nella stessa maniera con cui si scelgono le merci. Le merci rispondono ad un bisogno immediato, possono essere scelte e consumate per essere sostituite senza scrupoli morali, senza progettualità, senza consapevolezza. Si vive nell’empirico, si sceglie, si desidera, si oblia per poi ricominciare l’eterno ritorno del medesimo. Si vota in modo simile, si sceglie il candidato su un unico asse: l’asse dei propri particolari interessi personali. Non ci si scandalizza delle contraddizioni, dell’incoerenza: Salvini che osanna i cieli e gli altari; Di Maio che insegue, solo al comando, un’improbabile partecipazione dal basso, falsificata da una piattaforma (povero Rousseau!, casaleggiato) che non ammette dialettica, ma che pure si chiama Rousseau, nome che ammicca palesemente alla democrazia diretta.

Nessuno scandalo, in realtà, perché da decenni ormai si ripete che l’unico fondamento dell’esistenza di ciascun europeo sono i propri interessi privati, per cui le parole non sono ascoltate, valutate, misurate. Ci si sofferma solo sugli interessi economici che rispecchiano i propri gusti-interessi, il resto è una parodia neanche percepita. La sacralità atea ed informe del nichilismo dell’ultimo uomo è tra di noi, ha la forma brutale del capitalismo acquisitivo che martella nella mente, che ordina novello e terribile imperativo categorico a perseguire solo i propri privati interessi economici.

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sinistra

Sulla giustizia

di Salvatore Bravo

GIUSTIZIALa scomparsa delle parole

Lo stato presente ha la sua verità nella signoria della merci, i tavoli ballano, affermava Marx, come se avessero vita propria, tanto più signoreggiano i dominanti quanto più il controllo del linguaggio, il suo declinarsi nella forma del calcolo o della chiacchiera erode spazi di significato della politica. Vi è comunità solo se vi è politica, il fondamento, la casa della politica come della comunità, parafrasando Heidegger, è il linguaggio. Si assiste al teatrino del nichilismo dei significati, ci si confronta sul nulla, fingendo di essere su posizioni politiche opposte pur governando assieme, il riferimento è alla perenna scenetta tragicomica Di Maio-Salvini. In realtà non si tratta di casi politici, ma del sintomo di una malattia endemica dovuta alla signoria del valore di scambio. L’attuale teatrino, ormai quotidiano, non è che l’espressione di un corpo infetto interno a relazioni politiche segnate dai processo liberistici di mercificazione. Sono venute a mancare le parole-valori della politica, parole che fungono da catalizzatrici per i programmi politici. Tali parole sono scomparse dal linguaggio, al loro posto non vi è che la violenza della pancia, parole-insulti il cui fine è distogliere lo sguardo dalla razionalità dell’accadere per orientarlo verso la violenza, verso obiettivi secondari. Vi sono parole che l’ordine del discorso del turbocapitalismo, mette in circolazione per colonizzare l’immaginario al fine di anestetizzare i significati disfunzionali al sistema capitale.

La parola della politica, della comunità di cui nessuno osa proferire parola, è la parola giustizia. La filosofia politica dell’occidente nella sua storia ha fatto della giustizia la pietra miliare della discussione politica. Giustizia è metron per i Greci, si pensi alla giustizia commutativa-regolatrice e distributiva in Aristotele (Etica Nicomachea libro V). Nel Vangelo il miracolo dei pesci e dei pani, riportatato da tutti gli evangelisti, nell’interpretazione di Massimo Bontempelli e Costanzo Preve significa simbolicamente che se c’è giustizia, c’è razionalità e dunque equa distribuzione, per cui ce n’è per tutti.

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scenari

Cacciari e l'Europa

di Franco Di Giorgi

Katechon 1024x1024I. – A differenza di quanto si è indotti a credere, a generare l’euroscetticismo e l’antieuropeismo dei populisti e dei sovranisti, ossia il fenomeno degli attuali neonazionalismi, non è affatto l’eccessiva e invadente presenza dell’Europa, ma, al contrario, è l’effetto di una sconcertante e deludente assenza d’Europa. Questa la tesi che il 13 marzo Massimo Cacciari ha sostenuto e sviluppato in una conferenza tenuta nelle Officine H di Ivrea. Un impegno di cui, in vista delle prossime elezioni europee (certo decisive sotto molti aspetti per gli equilibri non solo internazionali), non molti intellettuali in verità si incaricano.

Questa antinomia dell’Europa unita si deve al fatto che i momenti attuativi di questa «eurotopia» (così l’ha definita l’ex presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini) hanno coinciso con il pieno sviluppo del neoliberismo. Malgrado la fiducia e le speranze iniziali, sempre più i fatti e la storia hanno purtroppo evidenziato l’inconciliabilità dei due progetti. Non ci può essere infatti né unione né visione europea là dove domina l’ideologia neoliberista. La prima ha come fine la formazione e la nascita dell’individuo europeo, la seconda mira solo all’individuo, sotto qualsiasi emisfero si trovi. L’individuo europeo reca in sé l’idea di cittadinanza europea, riflesso dell’antico ideale cosmopolitico, l’individuo neoliberista, al contrario, è pensato all’interno di un universo monadico in cui ogni legame sociale, solidale e realmente spirituale va dissolto e sostituito con la rete messa a disposizione dalla nuova tecnologia, ossia da una spiritualità virtuale. Nell’idea di cittadino europeo c’è il desiderio di realizzare un vero zoon politikon, frutto di una comunità globale fondata sulle differenze, in quella dell’individuo neoliberista persiste invece (nonostante tutto) l’inclinazione, il vizio identitario. Sicché, mentre il primo viene collocato e trova il proprio posto nella moltitudine, il secondo viene gettato in quella virale solitudine che riesce ad alleviare solo con l’uso di uno smartphone messo subdolamente a disposizione dal sistema.

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antropologiafilosofica

Cosmopolitismo, universalismo e l’Unione Europea

Una risposta a Roberta De Monticelli

di Andrea Zhok

In calce la risposta di Roberta De Monticelli e una replica di Andrea Zhok

15298671470 07b7772124 oOggi è apparso sul Manifesto un articolo della professoressa Roberta De Monticelli dall’impegnativo titolo: Stati uniti d’Europa, un edificio politico architettato dalla filosofia. Nell’articolo De Monticelli, dopo aver lamentato la superficialità dell’attuale dibattito intorno all’Europa, rivendica una matrice filosofica alta come ispirazione e viatico del ‘progetto europeo’.

Al netto del condivisibile sconforto per l’attuale campagna elettorale, si potrebbe notare come la contestazione all’odierno ‘europeismo’ non si muova di norma con riferimento a nobili istanze come l’idealità cosmopolita, ma con più prosaico riferimento ad un sistema ha prodotto una crescita europea stagnante, la deindustrializzazione di molti paesi (tra cui l’Italia) e una costante riduzione del potere contrattuale dei lavoratori.

Ma fingiamo che tutto ciò non sia essenziale. Ipotizziamo che il tema siano Kant e Rawls e non la macelleria sociale greca. E continuiamo pure nell’equivoco per cui l’antieuropeismo sarebbe una proterva e irragionevole ostilità all’Europa – e non all’Unione Europea -, accettiamo protempore tutto questo e proviamo ad esaminare gli argomenti specificamente filosofici che vengono sollevati da De Monticelli.

Due argomenti giocano un ruolo centrale.

Il primo vede nell’Unione Europea

“il vero e proprio cantiere di un edificio politico architettato dalla filosofia: cioè dall’anima universalistica del pensiero politico, che è almeno tendenzialmente cosmopolitica.”

Il secondo specifica il carattere di questo ‘universalismo’ in opposizione all’accidentalità della nascita:

“Cosmopolitica è (…) la forma di una civiltà fondata nella ragione (…). La domanda di ragione e giustificazione è quanto di più universale ci sia. (…) Esser nato in un deserto, o in una contrada afflitta da massacri e guerra, è un accidente: l’accidente della nascita. (…) Ogni ingiustizia si lega all’accidente della nascita.”

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operaviva

Immanenza e politica, crisi di un rapporto

di Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi

L’Almanacco di Filosofia e Politica (Quodlibet, 2019), diretto da Roberto Esposito, sarà presentato giovedì 16 maggio alle 17.00 a Villa Mirafiori (via Carlo Fea 2, Aula IV) all’interno del Seminario permanente di Filosofia Teoretica dell’Università di Roma La Sapienza. Intervengono Donatella Di Cesare, Roberto Esposito, Marcello Mustè, Mario Tronti, Elettra Stimilli. Modera Roberto Ciccarelli. Qui anticipiamo un estratto dell’introduzione dei curatori del primo numero, dedicato alla Crisi dell’immanenza

Immagine28 1Perché i conflitti che ci interessano significano solo se stessi, perché il Ruanda, la Jugoslavia, le primavere arabe significano solo se stesse, sono eventi illeggibili, pure vittime, mentre la politica comincia quando non esistono più eventi illeggibili o pure vittime, quando diventa giusto morire e soprattutto uccidere in nome di qualcosa, anche se oggi non osiamo più pensarlo, anche se oggi non oseremmo scriverlo, o lo faremmo solo in una poesia. Per questo guardo il viale e passo ad argomenti prossimi, per questo voglio sentirmi credibile e presente – i miei problemi, la forma dei suoi occhiali, la chemioterapia di un amico, la gravidanza di un’amica, un altro neonato. Ci salutiamo così.

(Guido Mazzoni, Angola)

 

1. Dopo il ’68

Sul piano della teoria la spinta propulsiva del Sessantotto sembra essersi esaurita. L’immanenza, e la ricerca di una politica radicata in essa e solo in essa, hanno visto venire progressivamente meno la loro funzione. Si è consumato così un grande progetto di liberazione. Quello sessantottesco è stato, se colto da questo punto di vista, il tentativo di costruire un pensiero del tutto privo di gerarchie: condizione ritenuta essenziale per la creazione di un mondo radicalmente egualitario. Di qui l’immanenza come, ad un tempo, premessa e fine del lavoro filosofico, depurato di universali sovraordinati o di fondamenti celati sotto la superficie del visibile. Questo tratto complessivo assumeva tuttavia due accezioni in parte divergenti: da un lato riprendeva la sperimentazione delle scienze umane del dopoguerra, tesa nel suo insieme a pensare sistematiche del tutto orizzontali, ma pur sempre sistematiche. Un’eredità modernista ancora persuasa della possibilità di un ordine egualitario, che ordine restasse. Dall’altro si apriva a un processo poi risultato prevalente, almeno in ambito continentale: la distruzione di tutti gli assoluti filosofici che non fossero la singolarità isolata e quasi tribale visibile ancora oggi, in un movimento di pensiero libertario che ha teorizzato la disseminazione e la proliferazione delle differenze, approssimandosi alla decostruzione complessiva dei fondamenti della tradizione filosofica. Su una dotazione di senso egualitaria ha così prevalso la superficie dispersa. Sul piano politico questo è progressivamente divenuto l’ideale regolativo guida ma anche l’obiettivo pragmatico da conseguire.

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sinistra

La cultura nel capitalismo assoluto

di Salvatore Bravo

ernest pignon ernest pasolini2Con la cultura non si mangia

La parola cultura ha subito un processo di deflazione del suo significato, al punto che nel 2010 il ministro dell’economia Tremonti affermò che con la cultura non si mangia. La verità torna sempre a galla malgrado i raggiri ideologici, e Tremonti ha espresso la verità del liberismo postborghese nel quale non vi è posto per il pensiero, per la formazione, ma solo per il calcolo, per il consumo dell’essere e dell’esserci.

Il giudizio ideologico di Tremonti non esaurisce i significati della parola cultura, per nostra fortuna, ma esprime l’imbarbarimento della condizione attuale. La cultura fine a se stessa o al servizio della persona è uno scandalo (dal greco skàndalon inciampo) da respingere, non si può inciampare e fermare il consumo, essa è un’ insostenibile trasgressione alla struttura economica che sta consumando l’intero pianeta (su otto milioni di specie di viventi un milione è a rischio estinzione secondo i calcoli dell’ONU).

In verità La cultura è radicale ed antitetica rispetto al capitalismo assoluto: in primis essa è portatrice di valori universali ed in quanto tali, non vendibili, in secundis l’etimologia della parola ci suggerisce il suo essere altro rispetto al tempo del capitalismo cultura (dal lat. cultura, der. di colĕre «coltivare»), essa è attività e temporalità della formazione, il tempo della cultura tesse il presente nel suo ordito, nella sua distensione riannoda ella continuità teleologica ciò che era disperso. Il capitalismo assoluto si esaurisce nell’immediatezza, è sciolto da ogni legame temporale e comunitario, pertanto è estraneo alla domanda sul senso, sostituita dal calcolo, dal silenzio degli enti che devono corrispondere al solo utile immediato.

 

Una difficile definizione

La cultura è una parola polisemica, nel corso della storia le sono stata attribuite innumerevoli significati, ciò malgrado ogni definizione si attuava in tensione con altre configurazioni simboliche.

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petiteplaisance

L’albero filosofico del Ténéré

di Fernanda Mazzoli

Recensione di Salvatore A. Bravo: L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve, Ed. Pétite Plaisance, 2019

9788875882310 0 306 00000Dai muri della città dove abito, i manifesti pubblicitari di una delle maggiori catene della grande distribuzione (che si richiama, peraltro, a valori solidaristici) ammoniscono i passanti che «Siamo quello che scegliamo». A chiarimento della scelta in questione, campeggiano i primi piani di persone di diversa età che covano con sguardo fra l’affettuoso e l’orgoglioso chi un vasetto di marmellata (naturalmente biologica), chi uno spazzolino da denti, chi una confezione di caffé macinato. Così, la straordinaria stratificazione architettonica, paesaggistica, storica e culturale di questa piccola e bellissima città si appiattisce improvvisamente nel piano liscio dove a scorrere sono solo le merci, prodigiosamente inesauribili, tutte diverse nella loro sollecitazione alla scelta, tutte interscambiabili nell’indistinto della bulimia dei consumi. Questo piano liscio nutre una nuova antropologia, in cui l’uomo è dato dalla sua relazione con le merci e la libertà – quella libertà senza la quale l’esistenza perde senso e valore – diventa libertà di scegliere il prodotto più confacente alle proprie esigenze.

L’uomo – questo essere su cui la natura e la storia hanno inciso segni tanto profondi quanto quelli che da lui hanno ricevuto – si risolve in un consumatore, responsabile e soddisfatto della nuova leggerezza acquisita: il necessario fardello del suo rapporto con se stesso e con il mondo ha ridotto le sue dimensioni a quelle di un carrello del supermercato.

La centralità della merce è religione che non ammette devoti tiepidi: avendo da tempo travalicato gli argini della sfera economica, ha finito per modellare comportamenti sociali e condotte individuali, per riorientare la percezione che si ha di sè e del mondo, per plasmare menti e corpi, pensieri e sentimenti.

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sinistra

Un mondo senza metafisica

di Salvatore Bravo

ARISTOTELELa fine della Metafisica, la riduzione dell’essere ad evento, secondo il linguaggio heideggeriano o a semplice costrutto storico senza fondamento, ha strutturato la cultura della violenza nella quale ogni discernimento è obnubliato a favore della cultura del mezzo indistinto dal fine. La razionalità, non mediata dalla razionalità complessa riduce ogni ente, ogni persona a strumento. Il nichilismo è così l’indistinto, ogni gerarchia etica salta, si annichilisce a favore dell’immediato, dell’irrilevanza di tutto. Nel nichilismo non vi è né alto né basso, ma un’indifferenziata condizione di alienazione cha attraversa ogni gerarchia sociale. La società nichilistica è verticale secondo la logica del possesso, ma orizzontale nei “valori”: l’utile ed il denaro sono la cifra di valutazione di tutte le prospettive. In tale contesto il mezzo, ovvero il denaro, è anche il fine. Se il potere può tutto, e nulla pare accadere di sostanziale per la trasformazione dello stato presente, ciò è dovuto all’assenza di eterotopia, che secondo la celeberrima definizione di M. Foucault è la capacità di osservare il mondo da un’ottica assolutamente nuova:

«quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l'insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano».

La neutralizzazione dell’eterotopia, oggi, prescinde la posizione che il soggetto occupa nel modo di produzione, poiché l’unico criterio di valutazione è il denaro e la corsa verso di esso, poco o tanto che sia, per cui si accetta anche l’insostenibile in nome del dogma che cade sulla testa di tutti, offusca lo sguardo e minaccia di portare verso l’abisso persone, ambiente e democrazia. Il potere si espande attraverso la cultura dell’interesse privato, del consumo immediato, dello scollamento del denaro dal ciclo produttivo come da ogni fine1 :

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intrasformazione

Th.W.Adorno: Per la dottrina della storia

di Pietro Carlo Lauro

La torre rossaIl secondo capitolo della terza parte di Dialettica negativa ha per titolo Spirito universale e storia naturale. Con ciò sono già fissati gli autori di riferimento per la filosofia adorniana della storia: Hegel e Benjamin. Esiste un progresso, una tendenza storica, progressiva o regressiva che sia, ed esistono d’altra parte le vittime del progresso, che poi non sono altro che gli stessi agenti della grande trasformazione. Ecco perché Hegel e Benjamin. A partire dalla seconda guerra mondiale o, per essere più precisi, dopo le purghe staliniane contro gli oppositori, lo spirito del mondo ha svoltato. La rivoluzione non è più all’ordine del giorno e al suo posto è subentrata su scala mondiale la diffusione dell’economia capitalista, l’occidentalizzazione del mondo. Ancor prima del crollo del regime sovietico Heidegger diagnostica una obiettiva convergenza, al di là dei sistemi politici, tra Unione Sovietica e Stati Uniti d’America sotto il segno del dominio planetario della Tecnica. Horkheimer e Adorno, che nel frattempo hanno maturato una prospettiva da Oltreoceano, rispondono con il capovolgimento dell’illuminismo. Quindi critica della Tecnica in Heidegger e critica dell’illuminismo in Horkheimer e Adorno. Forse che convergono non solo i sistemi politici , ma anche le filosofie? Per niente. Che la critica dei francofortesi converga in ultima analisi con la critica di Heidegger è una mistificazione messa in giro da coloro che per decenni si sono rifiutati di prendere atto della grande trasformazione. Ma allora la differenza qual è? Mentre Heidegger chiude il discorso sulla tecnica, dicendo che l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico1, quindi riproponendo ancora una volta la separazione tra essenza e fatto, Odisseo, che nella Dialettica dell’illuminismo è il prototipo del soggetto dell’autoconservazione, è insieme soggetto e oggetto del rischiaramento, perché è parte stessa di ciò che è da rischiarare. Questa è una differenza ums Ganze, che cambia tutto. Nella misura in cui Odisseo demistifica le potenze della natura o, che è lo stesso, del mito, si modifica anche la comprensione che egli ha di se stesso, perché lui stesso fa parte della natura. A differenza della metafisica classica il pensiero dialettico non teme la contaminazione dell’esperienza, perché sa di essere per costituzione compromesso con essa. La questione è soltanto, se e come sia possibile rendere l’esperienza fruttuosa per l’autocomprensione che l’io ha di se stesso.

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ragionipolitiche

La nuova edizione spagnola di «Genealogia della politica»

Gerardo Muñoz intervista Carlo Galli

Carlo Galli: Genealogía de la política. Carl Schmitt y la crisis del pensamiento político moderno, UNIPE Editorial Universitaria, 2018

ph 222Professor Galli, the Spanish edition Genealogía de la política (Buenos Aires, unipe, 2018), a classic of contemporary political thought, has just been realized in Argentina after twenty years. We should not forget that Argentina has always been a fruitful territory for the reception of Carl Schmitt’s work. Perhaps my first question is commonplace but necessary: how do you expect readers in Spanish to read your classic study?

Come ci ha dimostrato il compianto Jorge Dotti, la recezione di Schmitt in Argentina è stata imponente e pervasiva, e si è intrecciata con la riflessione filosofica, giuridica e politica sullo Stato e sul suo destino. Ho fiducia che il mio libro, grazie alla traduzione spagnola, possa interessare gli specialisti di Carl Schmitt – giovani e maturi – che sono numerosi e agguerriti, non solo in Argentina ma anche in Europa: dopo tutto, la Spagna stessa ha un lungo e fecondo rapporto intellettuale con Schmitt, che, come ci ha mostrato da ultimo Miguel Saralegui, può anche esser definito «pensatore spagnolo».

 

This edition comes out in a timely moment, that is, in the wake of the centenary of the Weimar Republic (1919-2019); a moment that Weber already in 1919 referred as a point of entry into a ‘polar night‘. Does Schmitt’s confrontation in the Weimar ‘moment’ still speak to our present?

Schmitt è stato il più grande interprete della Costituzione di Weimar, in un’epoca in cui non mancavano certo i grandissimi costituzionalisti. La sua Dottrina della costituzione è una diagnosi geniale della situazione storica concreta in cui i concetti politici della modernità si trovano a operare. Ed è stato anche il più acuto interprete (nel Custode della Costituzione e in Legalità e legittimità) della rovina di Weimar, causata da uno sfasamento gigantesco fra spirito e strumenti del compromesso democratico weimariano, da una parte, e, dall’altra, la polarizzazione radicalissima in cui la crisi economica aveva gettato il popolo e il sistema politico tedesco. Una democrazia senza baricentro politico funzionante, senza capacità di analizzare le proprie dinamiche e di reagire attivamente, è alla mercé di ogni crisi e di ogni minaccia.

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ospite ingrato

Critica, occasione e disciplina

Appunti sparsi sull’oggi

di Marco Gatto

Con un sentito ringraziamento all’autore, pubblichiamo di seguito un estratto del libro di Marco Gatto, Resistenze dialettiche. Saggi di teoria della critica e della cultura, Roma, manifestolibri, 2018

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Introducendo Minima moralia (1951), Renato Solmi così si esprimeva sul carattere solo apparentemente frammentistico della raccolta di Adorno: «i trapassi bruschi, e a prima vista sconcertanti, dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, e viceversa», non sono la manifestazione di «un linguaggio metaforico e suggestivo», non hanno nulla di «arbitrario e di fantastico», bensì rappresentano «le scorciatoie della dialettica». La rinuncia al sistema o all’esibita unitarietà, «mentre corrisponde alla dispersione apparente dell’oggetto, serve, nello stesso tempo, a un’intenzione precisa»: «l’analisi disimpegnata», nel momento in cui «confuta la pretesa del particolare a valere come essenza, si ritorce contro il cattivo universale; mentre l’esposizione sistematica finirebbe per dare ragione al sistema». Il meccanismo hegeliano della critica all’assolutizzazione assumeva, nelle mani del filosofo più influente della Scuola di Francoforte, un’ulteriore funzione demistificatoria: mostrava il carattere falso della realtà o, per dirla in termini schiettamente adorniani, della “vita vera”, cautelando il discorso intellettuale nei riguardi di qualsivoglia diretta presa di posizione. Di fronte allo strapotere dell’americanizzazione, capace di affossare i tradizionali modelli interpretativi di origine borghese e di disinnescare la persistenza dei grandi orientamenti di senso, la critica ha pertanto l’obbligo di una permanente autoverifica, in larga parte consistente nel sorvegliare la propria tendenza a porsi come falsa universalità o come opposizione passibile di integrazione in un sistema che ha dimostrato d’essere, nella sua coerenza sistematica, più ampio e agguerrito. «In questo senso – insiste Solmi –, nel sistema del dominio, l’apparenza è la sede della verità. Ma non appena si ritiene tale, si capovolge nel suo contrario», generando quell’ambivalenza che è costitutiva del pensiero di Adorno, moralista e pessimista intransigente, ma «pronto ad aprirsi alla speranza», seppure irrisolto nel saper convertire «la critica dell’interiorità» in una «critica della prassi», senza che la prima diventi un alibi per il disimpegno e la disillusione.1