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consecutiorerum

Al di là della governance

La politica come riconoscimento

Roberto Finelli

In ricordo di Luciano Mechelli, giovane filosofo e intellettuale proletario del quartiere di Panìco, a Piazza Navona

light at two lights11. Oltre il blocco heideggeriano

Antropologia e politica appaiono indistricabimente connesse. La loro connessione è la medesima che dire: individuazione e socializzazione fanno tutt’uno. Nel senso che ormai non si può più tornare indietro dalla coscienza definitivamente acquisita della loro congiunta valorizzazione, come due faccie della medesima questione. La politica quale esercizio del potere, quale tecnica della governamentalità, in questa sede non credo possa interessarci. Non può interessarci cioè, in quanto sterile di futuro, la concezione che già Trasimaco esponeva della politica, nel I° libro della Repubblica platonica, come l’utile del più forte, o nel significato contemporaneo di governance, quale tecnica istituzionale di mediazione tra interessi tutti legittimamente presupposti: ossia della regolazione tra poli della cittadinanza tutti legittimati come soggetti presuntivamente autonomi e differenziati da una comune divisione sociale del lavoro.

Politica può significare, a mio avviso, solo politeia, quale partecipazione di tutti i cittadini alla produzione del bene comune e, nell’orizzonte di questo bene comune, destinazione e realizzazione del non-comune, quale affermazione della differenza d’esistenza d’ognuno, quale riconoscimento cioè del più proprio, e irriducibile a quello di altri, progetto di vita.

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arruotalibera

Quale nuovo rapporto tra scienza ed etica?

di Enrico Galavotti

1 Manichino seduto esternoVi è qualcosa di apparentemente poco spiegabile nello sviluppo della scienza e tecnologia occidentale. Al tempo della Grecia classica, tra i filosofi della natura, pochissimi tenevano separata la scienza dall’etica; e anche quando lo facevano (p.es. con Anassagora e Democrito), era solo per poter affermare meglio l’indipendenza della natura da qualunque cosa, cioè i princìpi dell’ateismo. Nella vita privata, infatti, questi filosofi-scienziati tenevano un comportamento etico ineccepibile, mostrando che una professione di ateismo non comportava affatto la rinuncia ai valori morali.

La cosa strana è che tenevano unite scienza ed etica all’interno di un contesto sociale, così fortemente caratterizzato dallo schiavismo, che avrebbe invece dovuto indurli a fare il contrario. Nell’ambito dello schiavismo, infatti, il concetto di “persona” è quasi inesistente. Non si riconoscono i cosiddetti “valori umani fondamentali”, quelli inalienabili, che si possiedono in quanto appunto si fa parte del genere umano. Lo schiavismo è la negazione esplicita della libertà della persona, e quindi della possibilità di avere una propria identità, di essere ritenuto responsabile delle proprie azioni. Essere “giuridicamente libero” era in assoluto la cosa più importante di tutte.

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operaviva

Manifesto sull’uso

Della necessità di congedarsi da Wittgenstein

Marco Mazzeo

Pubblichiamo  un estratto dal libro di Marco Mazzeo, Il bambino e l’operaio. Wittgenstein filosofo dell’uso (Quodlibet, 2016). Il tema dell’uso è al centro di un dibattito di grande rilievo filosofico ed etico-politico, che nella crisi odierna è parte di un’interrogazione sulle forme di vita e sui nuovi possibili usi della propria esistenza

NdR 30 Morelli 19.05.77 1628x745«Usi quel sapere per altri fini.
[Del] primo operaismo è un tratto
fondamentale» (Mario Tronti, 2008).

Diversi sono i modi per uccidere l’uso. Mi limito a rammentarne due. Il primo riduce l’uso ad applicazione automatica. A questo modello d’impiccagione ha lavorato con zelo il più autorevole linguista vivente, Noam Chomsky. L’impiego di parole e azioni è semplice performance meccanica, equivalente delle prestazioni organiche di un tubo digerente o di un occhio sensibile a onde luminose. «Uso» significherebbe applicazione di istruzioni genetiche funzionali alla specie, perché gli altri aspetti della questione sono da consegnare al mistero. La nozione fa la figura del cadavere sul tappeto che tutti notano giusto il tempo per schivarne l’ingombro. Si prenda un recente libro-intervista del linguista americano, nonché intellettuale di esplicite simpatie anarchiche. Circa l’uso Wittgenstein avrebbe «evitato il problema»1, poiché si sarebbe concentrato «solo sul modo in cui usiamo il linguaggio [sic!2 e non sullo studio dei suoi fondamenti cognitivi e innati. Peccato che poche pagine dopo si affermi che, anche se si trovasse l’operazione ricorsiva fondamentale alla base d’ogni parlare, il problema rimarrebbe: il linguaggio «come viene usato?»3.

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pandora

La fine della nostra speranza

“Occidente senza utopie” di M. Cacciari e P. Prodi

Paolo Missiroli

Recensione a: Massimo Cacciari, Paolo Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna, 2016, 141 pp., € 14,00  (Scheda libro)

Utopia.ortelius e“Utopico” è un aggettivo oramai con valenza negativa. Qualcosa di utopico è qualcosa di non realizzabile e quindi non realista (aggettivo che ha invece una valenza assiologica positiva). Segno dei tempi? Eppure, ogni moderno ha sentito su di sé la brezza del futuro radicalmente altro, dell’avvenire che si trasforma già sotto i nostri occhi. Ogni moderno ha percepito, da una parte o dall’altra, dal reale che gli stava di fronte o dall’altrove assoluto, un vento forte che soffiava verso un altro tempo, del tutto differente dal presente. Chi non ha mai provato nulla di tutto ciò, non è mai stato moderno. Riflettere oggi sui temi della profezia e dell’utopia, come fanno Paolo Prodi e Massimo Cacciari in Occidente senza utopie, vuol dire riflettere sulla vicenda della modernità e più in generale, se si ha il coraggio di non essere così moderni da pensare quest’incredibile epoca come inrottura radicale con il prima, dell’Occidente tout court. Non vi è Occidente senza profezia, come non vi è modernità senza utopia. Il libro è diviso in due parti: nella prima, Paolo Prodi attraversa la storia dell’ebraismo e del cristianesimo intrecciandola con la storia della modernità dal punto di vista che vi svolgono la profezia e l’utopia.

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effimera

Note su potere e resistenza

di Federico Zappino

nebbia 9bIn La vita psichica del potere, Butler scrive: “Il ricorso all’affermazione che il soggetto sia attaccato appassionatamente alla propria sottomissione [viene] invocato – spesso cinicamente – da coloro che tentano di minimizzare la portata delle rivendicazioni degli oppressi”[1]. Si tratta di un’affermazione che leggo come un modo inequivocabile di stabilire delle differenze tra i vari modi di invocare quella prospettiva secondo la quale tra il soggetto e il potere vi sarebbe una relazione di necessaria, e dialettica, dipendenza. Di per sé, infatti, potrebbe essere invocata da chiunque, per qualunque scopo, e innanzitutto per scopi di giustificazione e di normalizzazione di ogni forma di “sottomissione” degli “oppressi”.

Dirimente, al contrario, è osservare che, per poter compiere questa affermazione Butler debba innanzitutto dare per scontata 1) l’idea che il “potere” possa essere “sottomissione”, e che i “soggetti” possano essere “oppressi”; 2) che gli oppressi pongano in essere delle rivendicazioni finalizzate alla liberazione dalla sottomissione; 3) che la portata di quelle rivendicazioni di liberazione degli oppressi dalla sottomissione si trovi a essere minimizzata – “spesso cinicamente” – dalla strumentalizzazione di una teoria secondo la quale gli oppressi sarebbero necessariamente dipendenti o appassionatamente attaccati a quella sottomissione dalla quale pure vorrebbero, vanamente, liberarsi.

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badialetringali

Foucault e il liberalismo

Riflessioni su Foucault

di Paolo Di Remigio

Riceviamo e pubblichiamo molto volentieri questo articolo su Foucault di Paolo Di Remigio. (M.B.)

 Michel Foucault el transgresor de la normalidad y la disciplinaLa sinistra è stata colta di sorpresa dal neoliberalismo; anziché riconoscerlo come un programma criticabile, lo ha scambiato per una svolta storica già accaduta, a cui rassegnarsi, a cui anzi i suoi capi hanno prestato i propri servizi in modo da averne la piccola ricompensa. Il grande merito delle lezioni del 1978-79 di Michel Foucault al Collège de France1 è di avere colto la natura di programma del neoliberalismo, rintracciandone la doppia radice nell'ordo-liberalismo tedesco della scuola di Friburgo degli anni ’20 e nel successivo anarco-liberalismo americano della scuola di Chicago, e narrandone con grande accuratezza la storia. Chi leggesse il libro potrebbe riconoscere nelle vecchie idee ordo-liberali non solo i principi ispiratori dell'Unione Europea, ma la sua stessa retorica; l'espressione «economia sociale di mercato», infine scivolata nel trattato di Lisbona, è stata coniata là, in polemica con l'economia keynesiana; l'adorazione ordo-liberale della concorrenza si è insinuata nel trattato di Lisbona come definizione della natura fortemente competitiva dell’Unione Europea2; la stessa idea di reddito di cittadinanza che trasforma la disoccupazione in occupabilità dei lavoratori ha la sua genesi nella scuola di Friburgo. Dall'anarco-capitalismo americano è invece influenzato, più che il moralismo europeista della competitività, il capitalismo post-keynesiano in generale, che pretende di fare dell'individuo, qualunque sia la sua condizione, un imprenditore, e della sua attività, qualunque essa sia, un'impresa3.

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operaviva 

Figure della povertà

Francesco Raparelli intervista Toni Negri

francescani asia 20160415181402Francesco Raparelli – In un volume sul materialismo (Kairòs, Alma Venus, Multitudo, manifestolibri, 2000), scritto nei primi anni del tuo tormentato ritorno in Italia, hai dedicato pagine di grande importanza (e bellezza) al tema della povertà. Figura che si colloca tra la singolare, ed eterna, disposizione del comune e l’amore come potenza ontologica per eccellenza. Il povero cui ti riferisci, però, non ha nulla a che fare con l’oggetto della cristiana carità, costituito dalla pena, è, piuttosto, soggetto biopolitico. Puoi chiarire meglio questa definizione?

Toni Negri – Questa definizione va afferrata da due punti di vista. Il primo è quello in cui si assume che il povero è effettivamente nudità, utilizzando un termine corrente del linguaggio filosofico odierno. Ed è concretamente miseria, ignoranza, malattia. Questa pesantezza corporea, intellettuale e morale della povertà è il punto che, innanzitutto, ci colpisce. Noi guardiamo il povero in questa occasione, con una tensione che non è – almeno per quanto mi riguarda – pietà, ma, piuttosto, curiosità. Interesse a comprendere il povero davanti a me e, insieme, a ricostruire la memoria del povero che sono stato. Che cos’è l’esser fuori, sul limite, sul margine? Non comporta una riflessione metafisica: il margine è completamente materiale. È appunto miseria corporea, malattia, ignoranza, incapacità di stare ai livelli di un sapere comune; è esclusione, per infiniti versi.

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contraddizione

Introduzione a "Nascita della scienza moderna"

di Maurizio Brignoli

Pedro de Alcantara Figueira, Nascita della scienza moderna - Descartes e il materialismo rivoluzionario,  ed. La Città del Sole, Napoli. 2016. - www.lacittadelsole.net

CartesioSia lode al dubbio! Vi consiglio, salutate
serenamente e con rispetto chi
come moneta infida pesa la vostra parola! […]
Oh bello lo scuoter del capo
su verità incontestabili! […]
Ma d’ogni dubbio il più bello
è quando coloro che sono
senza fede, senza forza, levano il capo e
alla forza dei loro oppressori
non credono più!
[Bertolt Brecht, Lode del dubbio , 1932]

 

Lotta di classe e filosofia: le idee della classe dominante

Il lavoro di Pedro de Alcântara Figueira si caratterizza per una duplice peculiarità: offre un’interessante prospettiva sull’opera di Descartes1 evidenziandone il contenuto rivoluzionario e materialistico e, in secondo luogo, realizza una mirabile applicazione del materialismo storico procedendo a una ricostruzione sociale delle categorie (filosofiche e scientifiche) cercando di mostrare come ogni momento storico si esprima per mezzo delle idee che esso stesso produce.

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paroleecose

Contro la Theory. Una provocazione

di Barbara Carnevali 

dsc07445Un simulacro di filosofia, la Theory, si aggira per i dipartimenti del mondo intero. Non stiamo parlando dell’opera di un autore particolare, dal momento che molti acclamati theorist sono pensatori a tutti gli effetti, e nemmeno dell’autorevole scuola filosofica che ha rivendicato l’appellativo di Teoria Critica; ma di quella specie di scolastica postmoderna nota a chiunque insegni una materia umanistica all’università: un amalgama di idee e formule di varia provenienza disciplinare (prevalentemente filosofia, psicanalisi e sociologia), estratte da un canone di autori disparati ma accumunabili in una generica postura radicale (Marx, Nietzsche, Lacan, Foucault, Deleuze, Bourdieu, Agamben, Said, Spivak, Butler, Žižek, l’onnipresente Benjamin, l’uscente Derrida, la new entry Latour…), fuse in un solo crogiolo e ridotte a un’agenda tematica angusta: il potere, il bios, il genere, il desiderio e il godimento, il soggetto e le moltitudini, la coppia dominanti-dominati, il capitale e lo spettacolo, etc.

Che sia chiaro da subito. L’obiettivo polemico di quest’articolo non è un autore, un libro e nemmeno una specifica corrente teorica. È una modalità di pensiero, una scolastica, appunto, che nel corso degli ultimi decenni si è declinata in combinatorie variabili conservando una forma costante. A partire dagli anni Sessanta e Settanta, la Theory ha attraversato diverse fasi, dall’originaria sintesi di marxismo e psicanalisi, al mix di decostruzione, heideggerismo, cultural e post-colonial studies, fino alle metamorfosi più recenti, nutrite di foucaultismo, gender e queer studies, biopolitica e lacanismo[1].

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il rasoio di occam

Riconoscimento reciproco o disaccordo politico?

Axel Honneth e Jacques Rancière a confronto 

di Giorgio Fazio

Ne “Il Rasoio di Occam” si è già discusso a lungo delle ultime pubblicazioni del filosofo tedesco Axel Honneth. Completiamo ora la ricognizione della ultime fasi del suo pensiero, prendendo in considerazione il dibattito che egli ha recentemente ingaggiato con un altro protagonista della scena filosofica mondiale, Jacques Rancière

edward hopper 010 summer eveningNel momento in cui in Italia sono uscite, a poca distanza una dall’altra, le ottime traduzioni dei due libri di Axel Honneth Il diritto della libertà e L’idea di socialismo[1] - riaccendendo i riflettori sulla proposta teorica di uno dei protagonisti della scena filosofica contemporanea - è stato pubblicato negli Stati Uniti, nella serie “New Directions in Critical Theory“ della Columbia University Press, un interessante volume intitolato Recognition or Disagreement.[2] Si tratta della trascrizione di un dialogo, tenutosi nel 2009 presso il prestigioso Istituto di Scienze Sociali di Francoforte, che ha visto protagonisti lo stesso Axel Honneth e il filosofo francese Jacques Rancière. Oltre a questo dialogo, nel volume sono riportati anche altri contributi dei due filosofi: due testi che aprono il libro, in cui Honneth e Rancière provano a mettere a fuoco quali sono, dal loro punto di vista, i problemi e i limiti degli approcci del proprio interlocutore, e altri due articoli, che chiudono il volume, a cui viene affidato il compito di chiarire in positivo il cuore delle loro diverse posizioni. Si tratta nel complesso, quindi, di un testo estremamente interessante e ricco di spunti teorici, che offre l’occasione per ritornare su molte delle questioni che stanno emergendo nel dibattito suscitato in Italia dalla recente pubblicazione dei due volumi di Honneth a cui si è appena fatto riferimento. Mettendo a confronto due esponenti di spicco del pensiero critico contemporaneo, appartenenti per di più a due aree culturali diverse - la filosofia tedesca e la filosofia francese - questo testo offre anche la possibilità di svolgere alcune riflessioni sulla questione più complessiva dei compiti e delle sfide cui è messa di fronte oggi una teoria critica della società.

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badialetringali

Un discorso di Hegel

A cura di Paolo Di Remigio

(Nel 1808 Hegel assunse l'incarico di rettore del Ginnasio di Norimberga. Nel settembre del 1809, a conclusione del primo anno scolastico, tenne il seguente discorso sul significato degli studi classici. Paolo Di Remigio ci propone questa traduzione commentata. Leggendola siamo stato colpiti dalla lucidità e dall'attualità delle parole di Hegel su cosa siano cultura ed educazione. Per questo ci sembra interessante proporvelo. Ringraziamo l'amico Di Remigio per questa opportunità. Il testo appare anche su "Appello al popolo". M.B.)

Hegel portrait by Schlesinger 1831In occasione del conferimento solenne dei premi che l'Autorità Suprema conferisce agli alunni distintisi per i loro progressi al fine di gratificarli e ancor più di spronarli, sono incaricato da Graziosissimo Ordine di illustrare in un pubblico discorso la storia del Ginnasio nell'anno passato, e di toccare quegli argomenti di cui può essere utile parlare per la loro relazione al pubblico. L'invito alla deferenza con cui ho da compiere questo incarico è proprio della natura dell'oggetto e del contenuto, che consiste in una serie di liberalità del Re o di loro conseguenze, e la cui illustrazione implica la necessità di esprimere la più profonda gratitudine per esse –una gratitudine che, insieme al pubblico, mostriamo alla cura sublime che l'Autorità dedica agli Istituti pubblici di istruzione1 . – Ci sono due rami dell'amministrazione pubblica per il cui buon ordinamento i popoli usano essere più di ogni altra cosa riconoscenti: buona amministrazione della giustizia e buoni istituti di istruzione; infatti soprattutto di questi due rami, dei quali uno tocca la sua proprietà privata in generale, l'altro la sua proprietà più cara, i suoi figli, il privato comprende e sente i vantaggi e gli effetti immediati, vicini e individualizzati.

Questa città ha riconosciuto il bene di un nuovo ordinamento scolastico con tanta più vivacità quanto maggiore e più universalmente sentito era il bisogno di un cambiamento2 .

Il nuovo Istituto ha poi avuto il vantaggio di seguire Istituti non nuovi, ma antichi, durati più secoli; così gli è si potuta connettere la pronta rappresentazione di una lunga durata, di una permanenza, e la fiducia corrispondente non è stata disturbata dal pensiero opposto che il nuovo ordinamento sia qualcosa di soltanto fuggevole, di sperimentale, – un pensiero che spesso, in particolare quando si fissa negli animi di coloro ai quali è affidata l'esecuzione immediata, finisce con lo svilire di fatto un ordinamento a un mero esperimento3.

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il rasoio di occam

La filosofia del “limite” nel secolo del nichilismo

F. Postorino intervista Remo Bodei

nietzsche munchIl concetto del «limite» come è stato interpretato nelle diverse epoche e, in particolare, nella modernità?

Diversamente dal mondo antico, dove l’andare oltre i confini stabiliti dalla divinità è hybris che viene punita, la modernità è un andare al di là dei limiti, un plus ultra, un navigare verso l’ignoto. Nelle sue avventure spirituali e nello slancio verso la scoperta di terre incognite, il pensiero moderno ha infranto i divieti di indagare sui misteri della natura, del potere e di Dio, rivalutando così la curiosità prima condannata come “concupiscenza degli occhi”. Sebbene non si debba avere una concezione trionfalistica della modernità, come innovazione pura, completa rottura dei ponti con il passato, essa certamente ha sfidato molti tabù imposti dalla tradizione, specie quelli segnati dalla religione cristiana.

Il lungo, ma oggi accelerato processo della cosiddetta globalizzazione ha ovviamente portato mutamenti radicali all’idea di limite. I confini degli Stati sono diventati “porosi”, civiltà prima lontane o indifferenti si intersecano, si incontrano e si scontrano. I mezzi di comunicazione di massa e le migrazioni mutano il panorama. Ma le principali civiltà contemporanee hanno davvero cancellato tutti i limiti? O non è meglio sostenere che alcuni li hanno addirittura riproposti e perfino violentemente rafforzati mediante la restaurazione dogmatica di fedi, mentalità e comportamenti del passato (come nel caso dell’applicazione letterale della sharia, che significa, appunto, ritorno alla “strada battuta”)? Ci sono limiti da rifiutare e limiti da conservare. Per distinguerli occorre coltivare l’arte del distinguere, lasciandosi guidare, nello stesso tempo, da un’adeguata conoscenza delle specifiche situazioni, da un ponderato giudizio critico e da un vigile senso di responsabilità.

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sinistra

John Zerzan e l'agricoltura1

di Enrico Galavotti

john zerzan 0297Se John Zerzan avesse ragione, dovremmo dire che della vita non abbiamo capito niente. Per fortuna però che è un anarchico e che, come tutti gli anarchici, presenta dei lati estremistici che lo rendono poco credibile. Ciò senza nulla togliere al fatto che molte delle sue idee "primitiviste" siano tutt'altro che assurde.

Il suo estremismo, d'altra parte, è comprensibile. Come può non esserlo un uomo nato negli Stati Uniti del XX secolo? Questa nazione è una costola dell'Europa borghese nata nel XVI secolo, quel secolo in cui Marx fa decollare il moderno capitalismo. Ed è una costola puritana, cioè calvinista, quel ramo del protestantesimo che meglio s'è adattato e che, nel contempo, meglio ha favorito lo sviluppo del capitalismo manifatturiero.

Il cittadino medio americano risente profondamente di questa cultura, soprattutto se è di origine europea. Ne sono stati condizionati anche i neri provenienti dall'Africa, in quanto, dopo la loro liberazione giuridica dalla schiavitù, non sono mai riusciti a creare un'alternativa al capitalismo, neppure teorica. E ne sono condizionati oggi gli immigrati provenienti dal Sudamerica o dalla Cina o da qualunque altro paese, che sono convinti di trovare negli Usa una sicura possibilità di riscatto. Chi mette in discussione il valore del free market rischia di porsi appunto come un estremista, uno che non accetta l'idea di vivere nel paese più "democratico" del mondo, l'unico autorizzato a esportare ovunque, anche con la forza delle armi, la propria idea di "libertà".

Le uniche in grado di contestare il capitalismo in maniera "naturale" avrebbero potuto essere le 500 tribù o nazioni indiane, anteriori alla colonizzazione europea, ma oggi i sopravvissuti vivono relegati nelle riserve, in procinto di scomparire definitivamente.

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megachip

Qual è il tuo mito?

P. Bartolini intervista Romano Màdera

Cinque anni fa prendeva vita su Megachip una serie di interviste, a cura di Paolo Bartolini, dedicata a filosofi, psicoanalisti, sociologi, antropologi e ad altre figure della cultura italiana capaci di esprimere un pensiero originale sulla transizione epocale che la società globalizzata sta attraversando. Senza disperazione, ma con la consapevolezza di una convivenza umana ed ecologica da rifondare interamente, sono così iniziati dei dialoghi sinceri con persone di grande spessore umano e culturale, che condividono con noi una premessa etica e metodologica: non è possibile pensare a una trasformazione della società senza una concomitante e profondissima conversione della vita personale. "Trasformare se stessi per trasformare il mondo", dunque, senza per questo dimenticare che noi stessi siamo fatti di mondo e di relazioni. Fu proprio Romano Màdera ad aprire il ciclo di queste interviste e per questo lo ringraziamo di essere tornato là dove tutto ha avuto inizio (la Redazione)

NEWS 260428Chi conosce la tua storia, personale e pubblica, ha la sensazione che tu abbia vissuto molte vite: quella del militante (ai tempi del Gruppo Gramsci da te fondato insieme a Giovanni Arrighi), del fine studioso di Karl Marx, del professore universitario, dell'analista junghiano, del creatore - insieme ad altri - dei primi gruppi di pratiche filosofiche in Italia, della guida esperta per colleghi e amici che grazie a te si sono riconosciuti in quella che hai chiamato "analisi biografica a orientamento filosofico". La mia impressione, a fronte di un cammino così "molteplice", è che sia proprio sul piano dell'etica e della prassi trasformativa che tutte queste vite convergono, lasciando intravedere una trama sotterranea coerente. Con che sguardo osservi, oggi, la crisi profonda della politica, in Europa e in Italia?

Sono d'accordo, forse anche perché non ce l'ho mai fatta a "studiare dall'esterno". Mi prende una sorta di "senso di colpa". Ma questo ci porterebbe troppo lontano. Diciamo che - lasciando perdere le possibili ragioni biografiche - non mi rassegno a credere che per l'umanità l'orizzonte della speranza si possa ritenere chiuso. Non vedo perché. Mi sembra miope e anche ridicolo. Perché mai la storia dovrebbe fermarsi?

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ilcovile

Conversando con Camatte

Armando Ermini

camatte21Parlando con Stefano Borselli su come dare un seguito all'antologia Marxisti Antimoderni, ci è sembrato buona cosa andare a incontrare Jacques Camatte di persona. Jacques ha preferito che i nostri colloqui non avvenissero in forma di intervista, ma che fossero del tutto liberi, conviviali (stricto sensu), proprio per darci maggiori possibilità di recepire a modo nostro le sue parole. Ciò che dunque emergerà non sarà il Camatte-pensiero, ma ciò che di esso, dalle conversazioni e dai suoi scritti, abbiamo capito noi.

* * * *

In questa impresa non possiamo non partire dai luoghi che Jacques ha scelto di abitare. Una campagna, fra Tolosa e Bordeaux, scarsamente atrofizzata, con paesini antichi per lo piú siti in collina, coltivazioni di viti, campi, ed ancora tanti boschi. Luoghi che gli inevitabili centri commerciali che qua e là appaiono non hanno ancora sfigurato. Una campagna caratterizzata dai tipici fiumi francesi che per trovare la loro strada verso il mare si involvono in numeros1 amplissim1 meandri, i quali trasmettono a chi osservi il paesaggio dall’alto un senso di grande calma. Insieme ai fiumi, un reticolo di canali con un sistema di chiuse che li rende navigabili anche a imbarcazioni di una certa mole e, insieme, ne rallenta la marcia. Ma questo, in quei luoghi, non ha l’aria di essere un problema.

Per giungere in zona, prima di addentrarci nell’interno abbiamo lambito in autostrada luoghi famosi ed affollati lungo il Mediterraneo, le mete di vacanza della Costa Azzurra, il che ha contribuito a generare il contrasto con la tranquillità dell’interno: anche i picnic familiari — abbiamo notato sulla via del ritorno — lí si svolgono in parchi attrezzati, intorno a enormi autogrill, come se nemmeno nel tempo libero passato all’aperto ci si potesse allontanare dai colossi del consumo.