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Lacan. Il Seminario. L’antifilosofia 1994-1995

Recensione di Caterina Marino

Alain Badiou: Lacan. Il Seminario. L’antifilosofia 1994-1995, Ed. it. a cura di Luigi Francesco Clemente, Napoli-Salerno, Orthotes, 2016, pp. 212, euro 20, ISBN 978-88-9314-027-0

superthumbNel 2016 è stato pubblicato in traduzione italiana il seminario tenuto da Alain Badiou nell’anno accademico 1994-1995 sull’antifilosofia di Lacan. Questo terzo momento di una “tetralogia antifilosofica” (p. 5), che ha visto come protagonisti autori quali Nietzsche, Wittgenstein e san Paolo, non fa che confermare la profonda convinzione di Badiou per cui ogni filosofo contemporaneo che si rispetti debba necessariamente misurarsi, nel corso del proprio itinerario filosofico, con lo psicoanalista francese e, soprattutto, con la sua interpretazione della filosofia (p. 8).

Fu Lacan stesso a dichiarare di essere un “antifilosofo”, e questo è certamente all’origine del debito reale di Badiou nei suoi confronti. La ricerca di Badiou, infatti, oltre a delineare un’autonoma ed originale ontologia, proprio a partire da quell’affermazione lacaniana è stata indotta, in modo sistematico, alla chiarificazione di ciò che caratterizza un pensiero antifilosofico.

A conferma di ciò questo seminario non presenta un’esposizione organica dell’opera lacaniana, ma si concentra soprattutto sull’analisi dei fondamenti della sua antifilosofia. Prendendo in considerazione soprattutto il Lacan degli anni Settanta, quello che privilegia il Reale rispetto al Simbolico, per intenderci, e seguendo una modalità di analisi rigorosamente progressiva, Badiou si propone due compiti essenziali: stabilire in che senso Lacan sia un antifilosofo, identificando la natura della materia e dell’atto antifilosofici del suo pensiero, e chiarire le ragioni per cui Lacan si pone come chiusura dell’antifilosofia contemporanea, conducendo, conseguentemente, all’apertura di un’eredità che l’antifilosofia lacaniana lascia alla filosofia stessa.

Per chi volesse intraprendere lo studio di questo testo è necessario attenersi, come suggerisce lo stesso Badiou, a quello che è il movimento generale di ogni antifilosofia, ovvero la destituzione, intesa non nel senso del rifiuto o dell’abolizione, bensì come discredito, della categoria filosofica della verità. Lacan, infatti, ha intrattenuto con questa categoria un confronto lungo e tortuoso e, dopo averla attraversata, affermando che la verità si può dire solo a metà, l’ha scartata definitivamente a favore di un concetto situato nel luogo dell’atto analitico: il sapere. Il pensiero lacaniano, perciò, si inserisce perfettamente in quella “triangolazione del macchinario antifilosofico” fondata sul rapporto tra ‘verità’, ‘dire’ e ‘atto’ (p. 33).

Il percorso che si snoda attraverso le nove lezioni del seminario di Badiou intende mostrare come la dimensione antifilosofica propria di Lacan intervenga sul rapporto tra la filosofia e la matematica (la filosofia è basita di fronte alle matematiche), tra la filosofia e la politica (la metafisica tappa il buco della politica), e, infine, tra la filosofia e l’amore (al cuore del discorso filosofico c’è l’amore) (p. 69); stabilendo una sorta di reciprocità tra l’atto e il ‘matema’, cioè tra l’atto e una forma di sapere integralmente trasmissibile, ed approdando a dei risultati in parte divergenti rispetto ai propositi lacaniani. Badiou, nello specifico, sostiene una tesi particolarmente ardua secondo la quale, per Lacan, il matema, posto in posizione di oggetto, è ciò che causa il desiderio dell’analista, ovvero di quel ‘contro-personaggio’ che costituisce il vero destinatario dell’antifilosofia lacaniana e che desidera trovare la formula del sapere. Gli analisti corrono la minaccia della filosofia, pur non conoscendola, poiché la psicoanalisi rischia costantemente di trasformarsi in un’ermeneutica del senso, dimenticando l’atto analitico. Sono, perciò, gli analisti stessi a dover essere ricondotti, forzatamente, all’atto analitico che viene sottratto alla filosofia in modo tale da non diventare una mera chiacchiera altezzosa.

Il problema, quindi, si trova proprio nel luogo in cui si attribuisce alla filosofia un recupero religioso del senso, che la conduce a definirsi nella relazione senso/verità, la quale, secondo Lacan, può solo condurre a scoprire la funzione del celato e del velo, così come ha fatto Heidegger ponendo la questione della verità dell’essere in un collegamento essenziale tra la svelatezza ed il nascondimento. A questa categoria la psicoanalisi oppone quella di “ab-senso”, da pensare in modo totalmente differente da quella di “non-senso”: non è la verità ad essere in gioco, ma il sapere, o meglio la correlazione del sapere con il reale (p. 79). È questo il banco di prova a cui Badiou vuole sottoporre il dispositivo di pensiero lacaniano per mostrarlo come dispositivo di ragione e non come intuizione irrazionale. Questo perché, a suo dire, tutti gli irrazionalismi elaborano una categoria del non-senso, così come la filosofia resta intrappolata nell’opposizione tra senso e non-senso e crede di uscirne attraverso l’amore per la verità. Tutto ciò è assolutamente distante dal percorso compiuto da Lacan, poiché l’atto analitico consisterebbe, per lui, in una produzione di sapere trasmissibile che costituisce la prova empirica del fatto che c’è stata analisi, attestando il carattere “arciscientifico” – così lo chiama Badiou – dell’atto lacaniano (p. 17). Se l’atto ha avuto luogo, e ne abbiamo le prove, rappresentando il reale dell’analisi ed inserendosi nell’ordine dell’ab-senso, Lacan, secondo Badiou, elabora la prima antifilosofia immanente e, per questo motivo, la sua è l’ultima antifilosofia, in quanto si afferma come sapere in cui può funzionare un reale. Sarà l’inconscio come sapere impossibile a designare questa funzione.

Se da una parte Badiou esplica le motivazioni per cui Lacan intenta un processo alla filosofia, per esempio il fatto che il filosofo ami la filosofia come potenza – ecco l’illusione nefasta – e non come impotenza, e la considera incapace di produrre una teoria del reale, dall’altra non manca di riaffermare il proprio punto di vista in difesa di una filosofia che davvero subisce la tentazione di ricomposizione del senso, la tentazione metafisica dell’Uno, ma che è anche rivolta ad un pensiero del vero come estraneo al senso. È chiaro, però, che anche secondo Badiou l’atto analitico non può essere una ricerca della verità e, infatti, Lacan ha preteso che l’unico effetto di verità di tale atto sia il fatto che un reale venga in funzione nel sapere. Pertanto è necessario abbandonare quella formulazione della psicoanalisi che ha visto l’inconscio come ciò che fa emergere la verità del conscio. È stata proprio questa interpretazione che ha permesso l’appropriazione filosofica della psicoanalisi.

Per essere più chiari, è con la concezione che Lacan ha del reale che questo seminario obbliga il lettore, non senza difficoltà, a scontrarsi. Il reale non è ciò di cui si dà verità e nemmeno ciò che si può sapere. Allo stesso tempo il reale non è mai ciò che non si conosce. Questo è un punto delicatissimo del pensiero lacaniano, poiché bisogna provare a seguire Lacan percorrendo un cammino irto di ostacoli, tra la filosofia e l’antifilosofia, nell’intento di sottrarre il reale alla conoscenza (che viene assegnata, invece, alla realtà), ma senza precipitare in una dottrina dell’ineffabile.

Così come Badiou mostra che l’ab-senso è il luogo scelto da Lacan per sfuggire alla rigida opposizione filosofica tra senso e non-senso, allo stesso tempo chiarisce anche che l’accesso al reale è indifferente al conoscibile tanto quanto all’inconoscibile (l’inconoscibile, in fondo, è una modalità del conoscere). Perciò viene sottolineata a più riprese la dimensione antidialettica di ogni antifilosofia e della stessa antifilosofia lacaniana nella sua originalità: «il luogo d’accesso al reale non può essere colto negativamente, […] ma si espone ad essere dimostrato» (p. 137, 148). La dimostrazione del reale non ha nulla a che vedere con la scoperta di un senso nascosto, bensì con la singolarità irriducibile dell’atto analitico. Sarà l’atto stesso a salvare la psicoanalisi dalle mancanze costitutive della filosofia.

Ricapitolando, come fa lo stesso Badiou all’inizio di ogni lezione: mentre il filosofo resta basito di fronte alla matematica, la psicoanalisi si colloca sotto l’ideale del matema; mentre la filosofia persegue l’amore della verità e tappa il buco della politica, la psicoanalisi denuncia queste occultazioni. Ciò che emerge è una sorta di distinzione tra il progetto di fare qualcosa (la tappatura), che viene attribuito alla logica filosofica, e l’effettivo fare qualcosa che costituisce l’atto analitico nella sua immanenza e singolarità, la cui prova è la dimostrazione del reale di un soggetto.

Sembrerebbe che il seminario in questione, come una sorta di analisi psicoanalitica del testo, metta il lettore con le spalle al muro, laddove l’unica via d’uscita possibile è dover necessariamente compiere una scelta. Apparentemente si potrebbe essere ingannati credendo di dover scegliere tra la filosofia intesa come teoria e la psicoanalisi intesa come pratica, ma, secondo Lacan, non si va in analisi per trovare una via d’uscita, bensì perché la si ha già questa via d’uscita. Allora l’eredità dell’antifilosofia lacaniana non potrà che essere una via d’uscita in cui il pensiero, il cui luogo è l’atto, non si divide in teoria e pratica, ma si rivela come ciò in cui teoria e pratica sono inscindibili.

Tuttavia Badiou non risparmia a Lacan una forte critica, poiché, a suo avviso, non esiste una conduzione lacaniana della cura. Lacan non dice cosa fare, non stabilisce delle regole, e tutto questo rappresenta, per l’autore del seminario, un’indeterminazione del pensiero. I discepoli di Lacan, quelli di oggi e quelli di ieri, sanno bene che la cura lacaniana è avvolta nel mistero e ciascuno prova ad organizzarsi come può; anzi credono che sia esattamente questo l’insegnamento autentico del loro maestro: non c’è nulla di preciso da insegnare. Perciò Badiou insiste con i suoi interrogativi perentori: «Ma che fare? Voglio dire: che fare d’altro?, perché “fare” vuol dire sempre questo: che fare d’altro?» (p. 165). È questa, secondo l’autore, la questione che avrebbe dovuto essere centrale nella disposizione antifilosofica lacaniana e che, invece, mostra una debolezza irriducibile. Neppure il famoso “ritorno a Freud”, che tanto caratterizza l’interrogazione lacaniana, soddisfa Badiou, poiché, dal suo punto di vista, è necessaria non solo la novità del discorso analitico, ma anche la novità del vero e proprio luogo dell’atto analitico; ovvero è necessario esplicare cos’è questo luogo, così come è indispensabile che il pensiero di Lacan divenga una tappa decisiva di una vera rivoluzione della cura e non solo una reinterpretazione del dispositivo freudiano. Insomma, se davvero teoria e pratica sono inscindibili come crede Lacan, dare una risposta alla questione “che fare?”, vuol dire rispondere alla questione “che pensare?”. Ciò sta a significare, quindi, che rispondere alla domanda “che fare se sono un analista lacaniano?”, vorrebbe dire rispondere anche ad una seconda questione: “quale determinazione del pensiero devo sostenere rispetto al luogo dell’atto?” (p. 166). Ma questo, secondo Badiou, è troppo filosofico per un antifilosofo, poiché provare a determinare teoricamente il luogo dell’atto non fa che ricondurre alla filosofia con la sua pretesa di ricerca del senso. Proprio per questo l’antifilosofia sarà sempre minacciata da un possibile rovesciamento filosofico, dal momento che utilizzare i concetti e, quindi, l’argomentazione discorsiva vuol dire entrare necessariamente nel campo d’azione proprio della filosofia.

Tuttavia questo possibile rovesciamento filosofico dell’antifilosofia lacaniana può essere un punto di partenza interessante per chi volesse proseguire lo studio di un autore come Lacan, che non si lascia di certo inquadrare sotto il segno della definitività. Il confronto finale di Badiou con Jean-Claude Milner, autore de L’Opera chiara, nell’ultima parte del testo, fornisce importanti suggerimenti in merito.

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