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sinistra

Il capitale all’assalto del tempo

di Salvatore Bravo

giorgio mele1L’ultima frontiera del totalitarismo del capitalismo assoluto è il monopolio del tempo. I totalitarismi del novecento hanno organizzato il tempo dei loro sudditi, lo hanno reso funzionale ai desideri di onnipotenza, di trasformazione eternizzante del presente. Tale operazione operava nel tempo, nella carne dei sudditi. Il presente era giustificato nella sua eternità, in quanto sintesi finale del passato volto verso il futuro: il fascismo rendeva ipostasi il presente, in quanto destino segnato dall’impero romano, pertanto l’epoca di mezzo doveva essere cancellata; si pensi alle operazione urbane a Roma, durante il fascismo, per ricongiungere “il nuovo che avanzava” con i monumenti che rammentavano la grandezza del passato come il Colosseo. Il piccone demolitore di Piacentini, l’architetto del regime, nel 1931 doveva ridisegnare il tempo della storia, ma c’era una storia ancora… bugiarda, una storia che esigeva un’ improbabile dialettica. L’homo novus che il fascismo auspicava era l’uomo che avrebbe abbandonato la tradizione italica per rinnovarla in senso biologico. La guerra di Etiopia fu tra i tanti fini progettati dal Fascismo l’aperta sperimentazione per verificare se, dopo un ventennio circa, l’homo novus si fosse concretizzato. Renzo De Felice nei suoi studi dimostra che la differenza tra nazismo e fascismo consiste, anche, nel diverso disporsi verso il parametro del tempo: il fascismo si orienta verso il futuro, mentre il nazismo verso il passato.

Il nazionalsocialismo faceva appello all’uomo rurale, alla sola tradizione in una sorta di antimodernismo antilluministico. Seguendo gli studi della Arendt, secondo la sua analisi il tempo del totalitarismo stalinista è il tempo della sospensione temporanea delle regole dell’umanità in vista della realizzazione del comunismo, del nuovo tempo liberato dalle brutture del bisogno e dalla sudditanza della necessità. Ogni Totalitarismo riconosciuto o non riconosciuto, giacché come affermava Hegel “il noto è sconosciuto”, ha la sua temporalità che pulsa nel mondo della storia.

La breve comparazione di “il tempo” nei Totalitarismi del novecento ci deve indurre a pensare la condizione attuale del capitalismo assoluto. La condizione attuale non si contraddistingue per il succedersi dinamico sulla linea del tempo, a livello teoretico il tempo del turbo capitalismo è segnato dall’irrilevanza, ovvero l’atto del produrre vive secondo la prospettiva della sottrazione di ogni prospettiva storica. Il tempo è così sottratto alla intenzionalità posta dall’umanità, finalità che potrebbe muoversi secondo prospettive differenti, dipendenti dalle prospettive ideologiche. Si assiste nei decenni dell’irrilevanza neoliberista all’ossessione della ripetizione, in una sorta di coazione a ripetere patologica di massa, mentre il tempo come vettore di cambiamento è orientato solo alla quantificazione del PIL.

E’ l’annuncio ”di un tempo senza divenire”, come afferma J. Crary in 24/7. Il Capitalismo all’assalto del sonno. Per sottrarre ogni prassi e trasformare l’attimo in ipostasi l’assalto al tempo per sottrazione avviene con la conquista dei bulbi oculari i quali senza apparente coercizione sono piegati all’attenzione assoluta alla produzione/riproduzione del capitale mediante le nuove tecnologie, le quali esigono, nuove Sirene, l’attenzione assoluta, la vampiresca trasformazione degli umani in zombie. Il tempo laicizzato, è il tempo della differenza, in cui convivono, in un attento reciproco controllo, tempo religioso e tempo sacralizzato, il visibile con l’invisibile. Il tempo, a cui attoniti ed impotenti assistiamo, è il tempo della superstizione, ovvero tempo coattivo e fatale del ciclo perenne. Interromperlo, ci dicono, ci minacciano, significa attaccare il sistema, con conseguenze apocalittiche, per cui è tempo della superstizione che in quanto tale ci vuole passivi e colpevoli: sabotatori della liturgia dei consumi. Il tempo laico è invece tempo della dell’attività, del pensiero che ordina il proprio tempo, mentre il tempo religioso è tempo del limite. Il tempo superstizioso della produzione è il tempo della passività che si coniuga con la perdita del limite. E’ il tempo di un capitalismo pornografico, in cui il visibile con la sua capillare invadenza rende, o vorrebbe rendere, impossibile l’invisibile e dunque l’intenzionalità al progetto collettivo. La figura simbolica che rappresenta il tempo del capitalismo assoluto è il cacciatore, il quale è interessato alla sola caccia, all’umanità divenuta trofeo potenziale nella sua rappresentazione, e, disinteressato all’equilibrio del mondo, persegue, infatti, la rottura di ogni equilibrio, vivendo nell’immediato:

Diversamente dalle due figure simboliche che lo hanno preceduto, il cacciatore non è minimamente interessato all’<< equilibrio generale delle cose>>, sia esso <<naturale>> oppure progettato e meditato. L’unico compito che i cacciatori perseguono è <<uccidere>> e continuano a farlo, finché i loro carnieri non sono colmi fino all’orlo. Sicuramente non ritengono loro dovere garantire che la disponibilità di selvaggina nella foresta possa ricostituirsi dopo (e malgrado) la loro caccia. Se i boschi sono rimasti senza selvaggina a seguito di una scorribanda particolarmente proficua, i cacciatori possono spostarsi in un’altra zona relativamente intatta, ancora pullulante di potenziali trofei di caccia”. ( Zygmunt Bauman Modus vivendi, Laterza, Bari, 2010, pag. 114)

La società dell’immagine pone se stessa in tutta la sua autorappresentazione, riducendo il tempo alla sola emozione immediata, senza invisibile, senza risimbolizzazione critica: si caccia per non pensare. La cultura del saccheggio ad ogni costo distingue il capitalismo. La Caccia avviene nelle relazioni personali, famigliari e si stende a cerchi concentrici globali. Il narcisismo mediatico, inoltre, rende il tempo parcellizzato per cui il servo resta servo. Solo il tempo della continuità in cui il pensiero ha la sua genesi libera, il tempo frammentato impedisce la connessione temporale di senso. La società globale, si muove all’interno dei confini dell’immagine, la nuova trasparenza che tutto deve occultare, perché viva nello splendore dell’immagine l’opacità di relazioni perverse ed il vuoto che l’ammorba. Sistema pornografico che deve fare del tempo la trincea da cui respingere ogni alterità pensante con il tempo suadente della promessa di un benessere da porcinaia. Il “nemico oggettivo” nel nuovo totalitarismo, in media, non risiede in nessun gruppo, ma può essere qualsiasi esponente o gruppo che si opponga all’illimitato. Chiunque limiti il movimento di espansione del sempre uguale è dichiarato nemico. Nei totalitarismi tradizionali i nemici erano gruppi di opposizione ben specifici e con una storia di opposizione o non integrazione, si pensi ai kulaki in Unione Sovietica o agli ebrei nel nazionalsocialismo. Il nemico oggettivo del totalitarismo capitalistico è chiunque si opponga al tempo dell’irrilevanza, all’annichilimento del tempo, per cui va abbattuto colui che fa della propria singola vita testimonianza di opposizione, con il senso del limite, così come quei popoli che non vogliono cedere identità e politica all’espansionismo imperialistico del nichilismo delle merci. Ogni simbolizzazione altra dev’essere accerchiata e dipinta come il problema che potrebbe far saltare il mondo paradisiaco dei soli diritti individuali. Non si può non condividere l’opinione della Zambrano che dinanzi al franchismo ed ai Totalitarismi del novecento affermava che ogni totalitarismo cerca di eternizzare il presente. La grande differenza che fa del Totalitarismo attuale una novità assoluta è la mutazione antropologica senza precedenti a cui stiamo assistendo, in cui il presente è eternizzato nella quantificazione da sogno, senza limiti, del PIL, astratto da ogni temporalità di senso e di identità: il vissuto è espulso dalla dimensione della produzione e sostituito con un inconscio collettivo piegato fatalmente alla produzione. L’osservazione della Zambrano è oggi inadatta a comprendere la condizione di esplicazione del capitale, poiché i Totalitarismi del novecento manipolando la storia documentavano e testimoniavano i loro tentativi di cambiare la storia, si autogiustificavano appellandosi a piani manipolati della storia, pertanto erano palesi nella loro violenza menzognera e declamatoria. Il tempo del turbo capitale ha sottratto dalla formazione la storia a colpi di barbara devastazione, o rendendo le testimonianze della storia petrolio per l’economia, per cui malgrado il chiasso da piazzisti, si vive in un silenzio esiziale, la storia non ci parla, in tal modo ogni comparazione critica tramonta a favore dell’eternizzarsi del presente. La scienza asservita all’economia si presenta nella forma della credenza autoritaria ed autoreferenziale, secondo la classificazione di Pierce. E’ il tempo universale che si vorrebbe, ovvero l’intuizione pura del tempo categorizzato nella sola successione della pura quantità, descritta da Kant nell’analitica trascendentale. Ogni vissuto pensato che fa del tempo il luogo della prassi è così necrotizzato sul nascere. L’unica realtà è il fenomeno, ogni ricostruzione metafisica mondana è marginalizzata dalla violenza dei trombettieri di turno del sistema. Il tempo asettico della produzione, segnato dal desiderio fuori da ogni misura, è il tempo di un’umanità che perde la propria umanità per ritrovarsi in un presente storico indecifrabile, poiché non ha gli strumenti per comprendere la struttura e la sovrastruttura della produzione. L’inganno è tanto più mefistofelico, quanto più la presenza pervasiva nei luoghi della formazione e del quotidiano fornisce l’illusione di essere nel progresso, in una temporalità assolutamente nuova e libera poiché le immagini sono libere come le merci, ma lo sguardo è per autocoercizione indotto ad essere sullo schermo, non per capire, ma per apparire ed intanto perdere e disperdere la possibilità del pensiero.

Per quanto le armi di distrazione di massa siano continuamente in opera, niente è perduto; malgrado la rimozione di massa della storia e dei terribili effetti dell’imbarbarimento possano essere ridimensionati o esemplificati facendo appello ad una visione astratta e non dinamica ed olistica degli eventi, il mondo implode ed esplode, masse umane spingono sui confini di un turrito mondo del benessere sotto scacco dei suoi stessi effetti non riconosciuti. Il tempo per sottrazione si invortica nelle sue contraddizioni e dunque necessita di essere compreso. Deve risuonare il “Che fare?”. Siamo chiamati a capire, a diffondere, a divenire centri di consapevolezza. Ogni epoca ha la sua scommessa, la nostra è impedire che una mutazione antropologica si realizzi, che il tempo della sola produzione eroda fino a cancellare il tempo della prassi, e che l’umanità sia esposta alla fortuna e non alla virtù, come affermava Macchiavelli. Nell’epoca dell'ipertecnologia, l’umanità è esposta alla fortuna, non più padrona di sé, ma prona alla superstizione, alla malinconia depressiva della storia conclusa su di sé, nell’accerchiamento dello sfruttamento per molti, e di un benessere senza felicità e senso per pochi. Si potrebbe definire la flessibilità formazione alla fortuna, la vita di ciascun lavoratore è esposto al tempo capriccioso del mercato, il quale, nuova divinità cannibalica, divora i suoi figli qualora non si adeguino ai desideri del mercato. Le gioie merceologiche, divenute mito, giganteggiano ed offrono solo le ombre di un presente senza futuro, in cui le ombre avvolgono ed incatenano e fungono da dissuasori della storia. L’angoscia del futuro che non c’è, estraniato da ogni attività razionale, è il regno dell’inautentico, o come affermava Hegel “Il regno animale dello Spirito”, della lotta di tutti contro tutti, una condizione disumana perché prepolitica. Bisogna lavorare dunque per ricostruire l’ordito della storia. La storia collettiva non deve attendere, ma come affermava Gramsci dobbiamo diventare veicolo del Principe, di una virtù collettiva in modo che il tempo di senso, tempo collettivo, ritorni nel quotidiano:

“Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica, ma un libro “vivente”, in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del “mito”. Tra l’utopia e il trattato scolastico, le forme in cui la scienza politica si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla sua concezione la forma fantastica e artistica, per cui l’elemento dottrinale e razionale s’impersona in un condottiero, che rappresenta plasticamente e “antropomorficamente” il simbolo della “volontà collettiva”. Il processo di formazione di una determinata volontà collettiva, per un determinato fine politico, viene rappresentato non attraverso disquisizioni e classificazioni pedantesche di principii e criteri di un metodo d’azione, ma come qualità, tratti caratteristici, doveri, necessità di una concreta persona, ciò che fa operare la fantasia artistica di chi si vuol convincere e dà una più concreta forma alle passioni politiche. (… Anche la chiusa del Principe è legata a questo carattere “mitico” del libro: dopo aver rappresentato il condottiero ideale, il Machiavelli, con un passaggio di grande efficacia artistica, invoca il condottiero reale che storicamente lo impersoni: questa invocazione appassionata si riflette su tutto il libro conferendogli appunto il carattere drammatico …). Il Principe del Machiavelli potrebbe essere studiato come una esemplificazione storica del “mito” sorelliano, cioè di una ideologia politica che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario raziocinio, ma come una creazione di fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva. Il carattere utopistico del Principe è nel fatto che il “principe” non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obiettiva, ma era una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale; ma gli elementi passionali, mitici, contenuti nell’intero volumetto, con mossa drammatica di grande effetto, si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell’invocazione di un principe, “realmente esistente”. Nell’intiero volumetto Machiavelli tratta di come deve essere il Principe per condurre un popolo alla fondazione del nuovo Stato, e la trattazione è condotta con rigore logico, con distacco scientifico; nella conclusione il Machiavelli stesso si fa popolo, si confonde col popolo, ma non con un popolo “genericamente” inteso, ma col popolo che il Machiavelli ha convinto con la sua trattazione precedente, di cui egli diventa e si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro “logico” non sia che un’autoriflessione del popolo, un ragionamento interno, che si fa nella coscienza popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato, immediato. La passione, da ragionamento su se stessa, ridiventa “affetto”, febbre, fanatismo d’azione. Ecco perché l’epilogo del Principe non è qualcosa di estrinseco, di “appiccicato” dall’esterno, di retorico, ma deve essere spiegato come elemento necessario dell’opera, anzi come quell’elemento che riverbera la sua vera luce su tutta l’opera e ne fa come un “manifesto politico”. 

(Noterelle sulla politica di Machiavelli (Q. 13), in A. Gramsci, Note su Machiavelli, Editori Riuniti, Roma, 1996, pagg. 3-4.)

Il nuovo Totalitarismo agisce mediante la sottrazione del tempo-pensiero. Le tecnologie sono i mezzi che maggiormente si rendono disponibili ad assolvere questo scopo. Esse possono essere usate per emancipare mediante una rete cognitiva globale o come cavallo di Troia per entrare nel quotidiano, nelle ore, nelle case come per strada, per imbavagliare la parola, ed inibire l’incontro con se stessi e con gli altri. Dove splendono le tecnologie finalizzate alla realizzazione del nichilismo passivo, direbbe Nietzsche, o alla chiacchiera (Heidegger), regna l’impolitico, l’atomismo sociale, la decadente personalità borghese avvizzita nelle relazioni esclusivamente mercantili. Si assiste alla compiuta peccaminosità, ogni comunità si disgrega sotto l’effetto della fortuna la quale appare nella forma fatale dell’ipnosi di massa dinanzi agli schermi, poiché si passa da uno schermo all’altro senza che alcuna istituzione protegga la già debole democrazia dall’effetto della microfisica diffusione delle tecnologie. Manca volutamente una riflessione comune, condivisa sulle tecnologie. Si deforma all’uso a prescindere dal fine, dai contesti, dai tempi opportuni. E’ il regno del nichilismo concluso. Si teme che le tecnologie possano diventare uno dei mezzi attraverso cui il Principe possa strutturarsi. Dispongono di un potenziale emancipatorio globale che si tenta di neutralizzare. Potrebbero contribuire ad essere mezzo per un’ internazionale contro le multinazionali, contro la lingua ed il pensiero unico, per le patrie minacciate dalla globalizzate, per i borghi come per le identità cittadine minacciate dall’incultura dei nuovi poteri. Insomma perché la cattiva fortuna tutto travolga, il capitalismo assoluto deve devitalizzare i popoli, renderli come un organismo incessantemente sotto attacco, privo di ogni potenziale di reazione. Il tempo qualitativo sostituito dall’azione, dal risultato, dalla comparazione - competizione narcisistica debilita l’organismo comunità per favorire l’attacco:

Negli ultimi tempi sono state formulate diverse teorie sociali che si servono dichiaratamente di modelli esplicativi immunologici. L ’attualità della teoria immunologica non si può però interpretare come un segno del fatto che la società sia organizzata, oggi più che mai, in senso immunologico. Che un paradigma venga esplicitamente innalzato a oggetto della riflessione è spesso un segno della sua decadenza. Da qualche tempo si va realizzando, senza essere percepito, un cambiamento di paradigma. La fine della Guerra Fredda è avvenuta insieme a questo cambiamento. La società precipita oggi sempre di più in una costellazione che si sottrae del tutto allo schema di organizzazione e reazione immunologica. Essa si contraddistingue per la scomparsa dell'alterità e dell’estraneità. L’alterità è la categoria fondamentale dell’immunologia. Ogni reazione immunitaria è una reazione all’alterità. Oggi, invece, al posto dell’alterità abbiamo la differenza, che non provoca alcuna reazione immunitaria. La differenza post-immunologica, anzi post-moderna, non è più causa di malattia. Dal punto di vista immunologico essa è l’Eguale (das Gleiche).

Alla differenza manca, per così dire, il pungolo dell’estraneità che provocherebbe una violenta reazione immunitaria. Anche l’estraneità si stempera in una forma di consumo. L’estraneo cede il passo all’esotico, visitato dal turista. Il turista o il consumatore non è più un soggetto immunologico”.

(Byung Chul Han, La Società della stanchezza, Nottetempo,2013, pag.7)

La fortuna, il fato che mortalmente attraversa ogni vissuto, mediante la trasformazione del tempo in semplice azione anche improduttiva ha il fine di rendere la comunità priva di anticorpi. L’attacco alla democrazia, quale forma ideale alla partecipazione, non potrebbe essere più totale. Si osanna l’umanità in movimento, purché lo sia, mentre ogni alterità è demonizzata, marginalizzata dalla condanna mediatica. La diversità è solo folklore, colore da vendere sul mercato globale. L’omogeneità impera attraverso i suoi imperativi mercantilistici, il mercato novello Zeus lancia dall’Olimpo le saette contro coloro che osano ridiscutere parole come: flessibilità, offerta formativa, spread, debiti, crediti, riforme del lavoro ecc. ecc. Per cui tutto dev’essere flessibile, liquido, precario. Ogni stabilità è guardata, giudicata con sospetto, perché in essa il tempo della parola può farsi logos, il principio di un nuovo inizio, l’agere, non deve più essere. Si sollecita continuamente al cambiamento, alla trasformazione, alla dispersione di sé, alla divisione da sé, e dagli altri. La diffusa presenza nelle istituzioni di figure professionali e progetti finalizzati al recupero, alla normalizzazione devono raddrizzare ogni legno storto per renderlo organico al sistema capitale. Per normalizzare si interviene sull’organizzazione tempo, per rendere l’identità in oggetto meno rigida, semplicemente addomesticata ai tempi, ed ai desideri voluti dal mercato globale. Anche la lingua dev’essere non plastica, creativa, ma mobile, fluida, deregolamentata come i mercati, contaminata da una pluralità di presenze e distorsioni tale da renderla confusa, estranea a chi la utilizza. Il pensiero deve tramontare perché sorga il sole della dismisura del Mercato globale. Quest’ultimo “prende in carico” la carne del mondo, agisce a livello disciplinare e specialmente plasma la vita, penetra nei corpi, rimodella il tempo dello spirito, il potere è ovunque ed ha sempre il volto del Mercato globale che si annida nella biologia di un’umanità depotenziata delle sue potenzialità.

A differenza della disciplina che investe il corpo, la nuova tecnica di potere non disciplinare si applica alla vita degli uomini, o meglio, investe non tanto l’uomo-corpo, quanto l’essere vivente. Al limite, investe, l’uomo spirito. Direi, con più precisione, che la disciplina tenta di reggere la molteplicità degli uomini, in quanto la molteplicità può e deve risolversi in corpi individuali, da sorvegliare, da addestrare, da utilizzare, eventualmente da punire. (…) Possiamo dire dunque che, dopo una prima presa di potere sul corpo che si è effettuata secondo l’individuazione, abbiamo una seconda presa di potere che procede nel senso della massificazione. Essa si realizza infatti non in direzione dell’uomo-corpo, ma in direzione dell’uomo-specie. Dopo l’anatomia politica del corpo umano instaurata nel corso del Settecento, alla fine del secolo si vede apparire qualcosa che non è più un’anatomo-politica del corpo umano, ma qualcosa che chiamerei una bio-politica della specie umana”. ( Michel Foucault Difendere la società Ponte delle Grazie, Firenze, 1990, pag. 156)

La virtù negata ha l’effetto di produrre la massificazione la quale rende il popolo plebe, ovvero massa indefinita ed inerte. Per rendere il popolo “massa”, “plebe”, “organismo” indifferenziato, si agisce mediante un aumento del movimento produttivo in un contesto di mortificante alienazione, in modo che il tempo quantitativo induca la massa o a lavorare secondo ritmi che non consentono la percezione della propria condizione, o vivendo uno stato che alterni lavoro, a ricerca del lavoro, o al consumo indotto, in modo che ogni resistenza possa essere spezzata sul nascere. Plebe nel linguaggio hegeliano indica un’umanità priva di consapevolezza, alienata da sé ed alienante. Regna il tempo dell’attività continua, della perenne difesa dei bisogni vitali continuamente minacciati. E’ un’umanità che è solo attrice del cattivo infinito del capitale, a cui manca la condizione di spettatrice, ovvero la possibilità di ritirarsi dall’attività per pensare la propria ed altrui posizione nel sistema. L’accelerazione del tempo è anche funzionale al controllo del pensiero politico, togliendo alla vita della mente la sua condizione temporale. Un’umanità divisa, conflittuale perché indotta alla competizione, sempre nella trappola dei dinamismi globali difficilmente può essere soggetto politico di cambiamento. E’ il regno dell’eterogenesi dei fini. Fare resistenza dunque significa, in primis, vivere la prospettiva dello spettatore, che consente di riconfigurare l’ordito, la trama delle vite per defatalizzare il presente.

Quindi, ritirarsi dal coinvolgimento diretto in un punto d’osservazione fuori dal gioco (dalle feste della vita) non costituisce solo una condizione per giudicare, per essere l’arbitro ultimo della competizione in corso, ma anche la condizione per comprendere il significato dello spettacolo. In secondo luogo, ciò di cui si preoccupa l’attore è doxa, parola che significa tanto fama quanto opinione, poiché è solo attraverso l’opinione del pubblico e del giudice che si produce la fama”.

(Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 2009, pag. 178)

L’assalto al tempo ha il fine di organizzare una società senza comunità, in cui tutti siano attori, automi del sistema, produttori esiziali che non concepiscono la sospensione dell’attività per guardarsi e guardare in modo olistico il sistema. E’ il regno dell’indifferenza e dell’irrilevanza. L’attività filosofica e politica non può esimersi dal prendere atto della sostanza del sistema, del suo produrre beni nella dimenticanza della persona. Pronunciare la parola indifferenza nella consapevolezza che esprime le dinamiche a cui siamo posti, è l’inizio del cambiamento. Il tempo degli indifferenti scorre, senza esserci, poiché è un tempo da meccanica macchinale privo dell’intuitus mentis, dell’empatica indignazione che motiva la mente a pensare, a porre in atto la prassi. L’indifferenza, la cultura di essa, è l’arma con la quale si struttura la separazione, mediante la cultura dell’impresa, ovvero del tutti contro tutti, della competizione che sterilizza la mente impedendole di vivere il reale da più prospettive, ma specialmente relega il discorso etico e politico a pura fantasia utopica, ad un cane morto, di nessuna importanza, o è utilizzato, cinicamente, dalla propaganda per legittimare altre guerre, in nome dei diritti dell’uomo. Le parole di Gramsci risuonano in tal senso chiarificatrici:

L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti che dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica”.

(Gramsci, Odio gli indifferenti, Biblioteca chiarelettere, 2016, pag. 3)

La forza del turbocapitale è oggi come allora nell’indifferenza, la quale separa e limita la prospettiva al puro utile immediato. Ogni responsabilità individuale è così necrotizzata sul nascere. Le passioni tristi di cui Spinoza tratta, come effetto del potere, hanno il fine di abbassare la soglia del “sentire” se stessi e la presenza dell’altro.

In Gramsci, il Principe è metafora della comunità della prassi che vive la condizione di spettatore dialettico, per progettare un diverso modo di vivere, per fondare e vivere la comunità politica. La resistenza non può che passare per il tempo qualitativo e comunitario che consente di pensare, di teorizzare la prassi. Non vi è comunità senza pensiero. Il totalitarismo economicistico attuale inibisce la fatica del concetto, ed in tal modo sottrae l’anima/mente per renderla eternamente serva, ad essa si deve opporre la vita della mente. L’imperativo del nuovo ordine imperiale è liberare i corpi, ridurli a funzioni, a macchine desideranti, perché il consumo regni senza limiti, e l’umanità diventi parte del ciclo della produzione e del consumo. La mente, invece, deve avere i ceppi ben impiantati, il dispositivo non deve consentire che le persone possano ribaltare con un esercizio creativo e liberatorio la prospettiva. Il loro tempo dev’essere inseguito, braccato, controllato senza che ne abbiano la percezione. La notte del mondo è con noi e tra di noi, dobbiamo viverla e guardarla per capirla e modificare il mondo e la sua storia. La critica per diventare prassi dev’essere vissuta nell’indignazione per la notte del mondo. A tal proposito, risuonano in conclusione le parole di Marx nell’introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel”:

La critica non è una passione del cervello, è il cervello della passione. Non è un coltello anatomico, è un’arma. Il suo oggetto è il suo nemico, che essa non vuole confutare bensì annientare (…) Il suo pathos essenziale è l’indignazione, il suo compito essenziale è la denuncia.

Bisogna descrivere la reciproca, sorda pressione di tutte le sfere sociali l’una sull’altra, il generale inerte disaccordo, la limitatezza che altrettanto si riconosce quanto si misconosce, il tutto racchiuso nella cornice di un sistema di governo che, vivendo della conservazione di ogni meschinità, non è esso stesso altro se non la meschinità al silenzio”.

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