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sinistra

Il tempo consumabile dell’età moderna

di Salvatore Bravo

guy debordc e1348843451262L’epoca della naturalizzazione del presente vive del consumo del tempo. Si vive la dimensione non del tempo vissuto ma del tempo consumato. La prima dimensione umanizza, fonda relazioni e comunità, poiché nel tempo vissuto vive la storia di un io per la comunità. Il capitalismo assoluto erodendo la dialettica, la pluralità argomentativa, ha sostituito il tempo vissuto con il tempo da consumare. Tale dimensione entra nella relazioni sociali le quali divengono sempre più asociali, l’altro è un mezzo da utilizzare in vista delle merci, del guadagno immediato: tempo che consuma le persone, le comunità, i paesaggi, i suoli. La cifra della contemporaneità è il consumo; il problema è che si continua a citare il tempo vissuto, nella assoluta inconsapevolezza che la vita vissuta arretra per lasciare spazio al consumo. La storia come luogo della liberazione e dell’emancipazione è dimensione di un tempo che non si osa pensare. Il tempo consumato, trasforma le persone in consumatori, in maschere tecnocratiche, taglia la relazione tra il sentire ed il pensare, Nietzsche direbbe tra il dionisiaco e l’apollineo, tra la vitalità, il desiderio autentico ed il pensiero logico. L’uomo scisso del capitalismo assoluto consuma senza sentire l’offesa quotidiana, bruca la religione del cattivo infinito senza ascoltare la dignità ferita. In media la scissione del soggetto alienato, estraniato da se stesso favorisce il capitalismo assoluto, poiché inibisce sul nascere la partecipazione politica, la rabbia da trasformare in risorsa motivante del pensiero.

La società dello spettacolo favorisce il tempo del consumo. L’incultura dell’uso delle tecnologie, massicciamente introdotte nelle scuole come in ogni luogo, è sicuramente finalizzato alla passività come cifra della condizione del consumante. Lo spettacolo di sé, l’iperproduzione dell’immagine sostituisce la parola, per dare nello splendore del supplizio mediatico il nulla assoluto, ogni individuo è solo immagine, copia di sé, trofeo in mostra, in una gara che conduce verso l’hotel abisso. La società dello spettacolo mette tutto in movimento, perché tutto sia immobile, in modo che la scena si ripeta e rinasca sempre nuova dal consumo: l’eterno ritorno dello spettacolo. La Favola delle api di Mandenville è ora realizzata, nel cinismo istituzionalizzato, ogni disgrazia è merce per altri, affare per nuove forme di sfruttamento: la virtù è divenuta vizio. La società dello spettacolo, con il suo atomismo narcisistico ha realizzato il mondo di Mandenville:

Abbandonate dunque le vostre lamentele, o mortali insensati! Invano cercate di accoppiare la grandezza di una nazione con la probità. Non vi sono che dei folli, che possono illudersi di gioire dei piaceri e delle comodità della terra, di esser famosi in guerra, di vivere bene a loro agio, e nello stesso tempo di essere virtuosi. Abbandonate queste vane chimere! Occorre che esistano la frode, il lusso e la vanità, se noi vogliamo fruirne i frutti. La fame è senza dubbio un terribile inconveniente. Ma come si potrebbe senza di essa fare la digestione, da cui dipendono la nostra nutrizione e la nostra crescita? Non dobbiamo forse il vino, questo liquore eccellente, a una pianta il cui legno è magro, brutto e tortuoso? Finché i suoi pampini sono lasciati abbandonati sulla pianta, si soffocano l’uno con l’altro, e diventano dei tralci inutili. Ma se invece i suoi rami sono tagliati, tosto essi, divenuti fecondi, fanno parte dei frutti piú eccellenti. È cosí che si scopre vantaggioso il vizio, quando la giustizia lo epura, eliminandone l’eccesso e la feccia. Anzi, il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtú da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa. Per far rivivere la felice età dell’oro, bisogna assolutamente, oltre all’onestà riprendere la ghianda che serviva di nutrimento ai nostri progenitori”1

La società dello spettacolo trova il suo fermento nel nichilismo amorale dell’economia neoliberista: ogni limite educativo e formativo è ritenuto un limite poiché contrae i consumi, poco importa se l’intero pianeta viaggia spedito verso l’autodistruzione, l’importante è consumare. La città deve diseducare, ridurre i suoi concittadini a sudditi del tempo del consumo, il tempo dell’azienda. Per cui la sanità, come la scuola devono produrre bilanci, con ogni mezzo, lo vuole il mercato, in nome della divinità competizione. Quest’ultima si esplica secondo le regole della società dello spettacolo: le scuole in competizione per attrarre iscritti inscenano spettacolini, inseguono la società dello spettacolo con slogan, video, immagini per rappresentare in modo, è il caso di dire, spettacolare il loro istituto: mai parlare di impegno, partecipazione fa perdere gli iscritti. Non si pensa la società dello spettacolo si è caduti in essa. Gli studenti come i pazienti divengono i clienti a cui dare sempre ragione. Guy Debord con discreto anticipo ha tratteggiato la fine del tempo vissuto del pensiero e l’inizio del tempo alienato, estraniato dello spettacolo. La società dello spettacolo di Guy Debord tratteggia il fondamento ontologico del capitalismo assoluto: il tempo naturalizzato, il tempo ciclico del neopagenesimo prono all’idolatria delle merci. La sostanza taciuta alberga in ogni luogo, in ogni individuo reso funzione, nella ripetizione compulsiva del gesto e della scelta programmata dallo spettacolo delle immagini. La mosca è nella bottiglia e non riesce a trovare l’uscita dal collo della bottiglia direbbe Wittgenstein. La prigione, la gabbia d’acciaio è spesso invisibile, siamo all’interno di un immenso palcoscenico, pensiamo di essere liberi perché possiamo muoverci. In realtà è solo libertà vigilata. Le tecnologie smart ci controllano, accumulano dati sui nostri gusti, ci schedano perché siamo potenziali clienti. Forse ci tengono in vita poiché siamo consumatori potenziali a cui estorcere l’ennesimo desiderio coatto. Come le mosche nella bottiglia guardiamo il mondo attraverso un’invisibile caverna. Solo quando tentiamo l’uscita, ci accorgiamo del velo di Maya. Non è da escludere ciò malgrado che possa ritornare la meraviglia filosofica, lo thauma, il terrore dinanzi all’insensato potrebbe riportare con il pensiero, la speranza. Per ora il tempo ciclico è trasparente e tagliente come il vetro di una bottiglia, c’è , costruisce l’ordito delle alienazioni ma si è ritirato nel silenzio religioso. L’innominabile è il sovrano delle esistenze, precarizza e porta con sé l’oblio della storia. Non più lessicalmente presente in quanto l’asservimento alla società dello spettacolo regna, gli intellettuali servono, ormai organici alle caverne del potere del tempo ciclico e dell’assenza della storia. Debord evidenzia che il tempo ciclico della produzione, è il tempo artificiale dell’industria, tempo della tecnica, tempo del dispositivo, Gestell, penetra capillarmente in ogni strato della coscienza per ridurla ad oggetto. Il tempo ciclico dell’industria ha inaugurato una nuova categoria temporale della ripetizione a ritmo di produzione, consumo, distruzione. La trinità pagana del ciclo temporale consente la sopravvivenza al neointegralismo della produzione per il consumo ed è inversamente proporzionale alla vita: il tempo ciclico sottrae vita per permettere la sua espansione illimitata.

Il tempo pseudo – ciclico è quello del consumo della sopravvivenza economica moderna. La sopravvivenza aumentata, in cui il vissuto quotidiano rimane privato di decisione e sottomesso non più all’ordine naturale, ma alla pseudo-natura sviluppata nel lavoro alienato; e questo tempo ritrova dunque del tutto naturalmente il vecchio ritmo ciclico che regolava la sopravvivenza delle società preindustriali”2.

Il tempo ciclico delle società industriali non sfugge al destino, al fato che occhieggia dall’abisso, ovvero esso stesso fondamento dei vissuti senza decisionalità effettiva, è divorato dal ciclo artificiale del tempo. Crono è tra di noi divora i suoi figli ma ha fatto un passo in avanti non può sfuggire alla sua legge ”deve divorare se stesso,” per cui il tempo ciclico artificiale è il tempo del nulla, del nichilismo realizzato, dell’impensabile che si avvera, tutto è consumo. Il tempo che fonda la ritualità dei consumo è divorato dai suoi sudditi. Non vi è spazio per il tempo della decisione, del pensiero riflesso, il sistema sopravvive divorando se stesso ed annichilendo ogni possibile dissenso che vive del tempo:

Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile, che raccoglie tutto ciò che si era precedentemente distinto, durante la fase di dissoluzione della vecchia società unitaria, in vita privata, vita economica, vita politica. Tutto il tempo consumabile della società moderna viene allora ad essere trattato come materia prima di nuovi prodotti diversificati, che s’impongono al mercato come forme di impiego dl tempo socialmente organizzato3.”

Il tempo globale estende la sua rete e le sue caverne su ogni parte del globo, lo spazio dev’essere asservito al tempo artificiale, in tal modo ogni differenza è divorata e sostituita dalle immagini, le reti relazionali sempre più fitte della società della spettacolo e della comunicazione si dipana in una ripetizione di immagini sempre uguali nei contenuti, apparentemente differenti nelle forme:

La storia universale diviene una realtà, perché il mondo intero è raccolto sotto lo sviluppo di questo tempo. Ma questa storia che dappertutto simultaniamente è la stessa, non è ancora che il rifiuto intrastorico della storia”4.

Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale. Il tempo irreversibile delle merci è il tempo della quantificazione a cui la coscienza non deve sfuggire. La storia chiude il suo ciclo. Il tempo ciclico vorrebbe divorare la storia e che terminasse con l’energia prometeica della produzione. Nessun delitto è perfetto, per cui la storia assassinata dal tempo artificiale ciclico ha lasciato le sue tracce, le sue contraddizioni, l’ordito per ricostruire nuovi orizzonti nella decodifica collettiva del presente vissuto. Siamo chiamati, vocati al compito di rintracciare i delitti e le categorie che non appaiono, per destrutturarle, perché la storia riprenda il suo soffio vitale, la corrente calda ci richiami a nuova vita. Si può concludere affermando con E. Bloch che malgrado la cappa della corrente fredda sembra ghiacciare la storia, la corrente calda è inesauribile, nell’umanità è presente una corrente calda che può sopirsi, ma essa è carsica per cui è pronta a ripresentarsi, malgrado la storia a volte sembri conclusa.

La corrente fredda di questo pensiero nota, riguardo alla piú gran parte della nostra storia precedente: “Se un’idea è congiunta con un interesse, chi ne scapita è sempre l’idea”; ed ancora, circa la rivoluzione finalmente mediata e non piú astrattamente utopica “La classe dei lavoratori non ha nessun ideale da realizzare, ma deve porre in libertà le tendenze che sono (per ciò) presenti nella società”. In tal modo Engels, e con quanto diritto, diede piú tardi ad uno dei suoi libri il gelido titolo: Il progresso del socialismo dall’utopia alla scienza. Ma esiste pur sempre una corrente calda, e le conseguenze della sua omissione si possono notare nel troppo grande progresso dalla utopia alla scienza. Anche la corrente calda ha bisogno della sua scienza: e non come assenza di utopia, ma come utopia finalmente concreta. Ma nell’aggettivo non v’è alcuna contraddizione, quanto piuttosto la salvezza piú ferma e decisiva non solo per la propaganda ma per la realizzazione del socialismo. Nella concreta utopia lavora e splende anche la salvezza di quell’eccesso della nostra cultura, specie per le sue artistiche allegorie e per i simboli di carattere religioso; esso non si esaurisce con la sparizione dell’ideologia5.


 

Note
1 Mandenville, La Società delle api 
2 Guy Debord, La società dello spettacolo ed. Baldini Castoldi Milano 2013 pag 142
3 Ibidem pag. 142
4 Ibidem pag137
5 E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano, 1986. Pag.328
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