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Contro il pensiero di Byung-Chul Han

Riflessioni critiche intorno alle tesi del filosofo sudcoreano autore di Psicopolitica

di Daniele Vazquez

Byung-Chul Han, nato a Seul nel 1959, già docente di Filosofia e Teoria dei Media presso la Staatliche Hochschule für Gastaltung di Karlsruhe, insegna ora Filosofia e Cultural Studies alla Universität der Künste di Berlino. È autore di saggi sulla globalizzazione e l’ipercultura

labirinti han 01Byung-Chul Han ripete all’infinito come un mantra il suo pensiero per ipnotizzare e convincere con la violenza della ripetizione il lettore. Questo autore ha fatto a pezzi i migliori filosofi contemporanei e alcuni intoccabili del XX secolo come Hannah Arendt e Michel Foucault, entrando nel merito con molta arguzia di alcuni loro saggi e questo ci ha incantati e fatto superare alcune abitudini intellettuali. Ci ha liberati di molti concetti che andavano effettivamente superati e che nessuno osava criticare. Fin qui il mantra è stato davvero sparigliante. Tuttavia tra i silenzi di tale mantra, piccoli e significativi non detti, si intravedono scenari senza sbocco e una cultura dell’ineluttabile e della fatalità, molto probabilmente una eco heideggeriana, che finisce per coincidere con una cultura della auto-colpevolizzazione.

 

Dalla negatività alla positività

Diciamo subito che la sua dialettica della negatività non è affatto un modo di incedere teorico nuovo, ma un patrimonio della critica radicale del dopoguerra, i primi ad aver utilizzato un certo modo logico di avanzare nelle argomentazioni di Hegel e del giovane Marx per criticare il capitalismo, per il quale le lotte del proletariato vanno considerate come un movimento del negativo. Fondamentale in Han è il passaggio da una società in cui è la negatività a motivare gli individui e una in cui è la positività.

Alla negatività corrisponde un paradigma immunologico cui sono ascrivibili le società disciplinari, le società del controllo, i soggetti d’obbedienza, l’Alterità, le polarizzazioni nemico e amico, interno ed esterno, proprio ed estraneo, vittima e carnefice, spazi del normale e spazi dell’anormale, le atopie, la vita contemplativa, il dovere, la noia, lo stupore per l’esser-così-delle-cose, l’homo sacer uccidibile, la collera, lo stato di eccezione, la privazione, l’esclusione, la potenza di non fare, e così via.

Alla positività corrisponde un paradigma neurologico in cui sono lo patologie psichiche in primo piano (in particolare depressione, ADHD, BPD, BD), le quali sono ascrivibili a una società della prestazione e dell’autosfruttamento, soggetti di prestazione, l’Eguale, in cui l’Alterità non è considerata con ostilità ma esclusivamente come un “peso”, l’abbattimento di ogni barriera, l’ibridazione, le eterotopie, l’eccezione divenuta normalità, la saturazione, l’esaustivo, l’iperattività, il poter-fare, la vita activa, l’obesità, la libertà costrittiva, il dubbio cartesiano, l’animal laborans, l’homo sacer inuccidibile, l’irritazione e il nervosismo, la potenza di fare, e così via. Ma la lista di ciò che appartiene alla negatività e ciò che appartiene alla positività è davvero lungo fino allo strazio.

Han ha un atteggiamento nostalgico verso la negatività che si va perdendo ma non ha nessuna capacità di superamento e nessuna proposta di trasformazione radicale dell’esistente in quanto positività.

 

Cos’è la positività? Prestazione e auto-sfruttamento

Per Han non solo gli individui si auto-sfruttano divenendo vittime e carnefici di sé stessi ma anche il signore è un servo di sé stesso. Tuttavia frasi tranchant, come è nello stile dell’autore, “…ciascuno sfrutta sé stesso. E in tal modo lo sfruttamento è possibile anche senza dominio” (Han, 2012) vanno respinte senza tema per la loro audacia. Che il signore sia un servo di sé stesso poco importa, ma che gli individui si auto-sfruttino perché lo vogliono, come talvolta lascia intendere, è una disonestà intellettuale.

Se si pensa al processo di frammentazione del lavoro sia dal punto territoriale sia dal punto di vista contrattuale si potrebbe vedere in filigrana una delle strategie che ha permesso al neoliberismo di occultare il dominio ma non di far dissolvere l’enorme pressione sulle masse a disperdersi e a restare prive progressivamente della potenza del negativo che avevano. La frammentazione sul territorio del lavoro ha distrutto la minaccia che il raccoglimento e la contiguità nello stesso spazio dei proletari produceva. Raccoglimento e contiguità nello spazio contribuivano più di quanto fosse immaginabile alla socievolezza e allo scambio di informazioni face to face, alla diffusione delle idee di rivolta e rivoluzione attraverso la frequentazione continua e alla conseguente mobilitazione di ciascuno. Inoltre la frammentazione contrattuale del lavoro ha trasformato tale dispersione del proletariato in un insieme eterogeneo di singolarità in competizione tra loro.

Isolamento, individualizzazione della classe proletaria, competizione è all’origine, detto con molta semplicità, della condizione di positività descritta da Han. Non vedere come il dominio c’è ed è vissuto oggi sotto forma di incertezza generalizzata sui percorsi di vita di ciascuno e che poco foucauldianamente ogni giorno tre generazioni di precari e lavoratori esperiscono sulla propria pelle significa mettersi dalla parte di quel dominio, si occulta se stessi in quanto narratori della società insieme al dominio stesso e ci si convive in perfetta armonia, interiorizzandolo in un modo leziosamente accomodante e privando il mondo di conflitto, riempiendolo di colpa per questa mancanza.

 

Chi è causa del suo mal…

Nella teoria di Han in fondo non c’è che da prendersela con sé stessi in quanto il carnefice, il guardiano della prigione e lo sfruttatore siamo noi. Tuttavia non si può dire che poiché il mondo è pieno di individui frustrati che soffrono di depressione, ADHD, BPD, BD è perché non sono più capaci di negatività e sono loro stessi causa del loro male. Non si può dire perché la negatività non è una qualità dell’individuo come sembra credere Han ma del collettivo, né si può dire senza dire allo stesso tempo il vecchio adagio amato dai ricchi che i poveri sono causa della loro povertà, affermazioni assurde come dire che la vittima di uno stupro è causa dell’aggressione o la vittima di un incidente aereo è causa del malfunzionamento del veicolo.

Riguardo alle soluzioni proposte, alla fine del piccolo saggio sulla stanchezza il filosofo e mediologo divide, ad esempio, la stanchezza in una appartenente al paradigma della negatività, la stessa descritta da Peter Handke, che fonderebbe contro il lavoro e nel tempo del gioco una comunità che non ha bisogno di parentele, definendola la comunità del futuro. Contrapposta alla stanchezza appartenente al paradigma della positività che divide, separa, isola, fatta di individui solitari. Bel finale, scontato se si pensa che questo esito contro il lavoro, per il gioco e l’ozio è all’ordine del giorno delle teorie rivoluzionarie più avanzate fin dal dopoguerra, lettristi e situazionisti in primis.

 

 Han contro Marx

Han contrappone la libertà individuale del neoliberalismo alla vera libertà della Gemeinschaft felice che ritroverebbe anche nel giovane Marx, una posizione che Marx superò ben presto. Contraddicendo l’ultimo capitolo del suo piccolo saggio sulla società della stanchezza.

Il concetto-chiave, inoltre, di comunità in Marx non è la Gemeinschaft bensì il Gemeinwesen, l’essere collettivo in divenire. Non è questione di sfumature. L’atteggiamento nostalgico di Han non può far passare la comunità senza ricordare il controllo sociale, i vincoli brutali, la violenza di gruppo contro le libertà individuali che la caratterizza così ben descritte dagli studiosi di tradizioni popolari. Il Gemeinwesen, al contrario, preserva le libertà dell’individualità. Poi, dopo essersi trovato d’accordo con un passaggio di Marx che si sarebbe potuto risparmiare citando direttamente Ferdinand Tönnies, ecco che si capisce essere un pretesto per criticare radicalmente anche Marx, confondendolo con Antonio Negri.

Han pensa che decostruendo Negri possa decostruire Marx come se Marx fosse responsabile di concetti come “moltitudine” che non si è mai compreso bene cosa abbiano di diverso dal concetto in fondo di origine demografica di “popolo” che non si ritrova certo in Marx. Per Han la contraddizione tra forze di produzione e rapporti di produzione è insuperabile, così il nostro filosofo dimostra di vivere postmodernamente nel suo comodo eterno presente e di voler generalizzare il suo eterno presente a tutte le società, eternizzando la società capitalista. Manca completamente a questo autore la capacità della congettura sul futuro e la sensibilità per i mondi possibili, nessuna civiltà è eterna seppure millenaria.

 

Siamo tutti padroni di mezzi di produzione?

Sarebbe il caso che invece che criticare il prossimo perché si auto-sfrutterebbe in nome della propria libertà individuale mancando spesso l’obiettivo e deprimendosi che Han ci spiegasse alcune sue cecità intellettuali.

Egli si riferisce sempre ai lavoratori, ma non ha alcuna idea e né spende alcuna parola su cosa sia il lavoro o il non lavoro oggi. Troppo facile scrivere nel 2014: “Oggi ciascuno è un lavoratore che sfrutta se stesso per la propria impresa” (Han, 2016), oppure “la lotta di classe si trasforma in una lotta interiore con se stessi” (ibidem), per prendersela con Negri che non fa che ripetere stancamente il paradigma operaista del “dentro e contro” mettendoci nella peggiore tradizione post-operaista dentro tutti, ma proprio tutti, anche quelli che vogliono entrare dentro, perché l’esclusione e il fuori c’è eccome, e poi se contro si vedrà, forse. Troppo facile.

Han scrive che “nella produzione immateriale ognuno possiede allo stesso modo i mezzi di produzione: il sistema neoliberale non è più un sistema di classi in senso stretto” (ibidem), è un sistema di “autosfruttamento senza classi” (ibidem) di cui avremmo tutti, citando Walter Benjamin, la coscienza della colpa. Bel salto all’indietro agli anni Ottanta dire che la classi non esistono più, occultando lo sfruttamento dei datori di lavoro e bel salto in avanti auto-colpevolizzare il lavoratore garantito, il lavoratore non garantito o il disoccupato. Han diagnostica ma non propone nulla e quando propone come vedremo rasenta il ridicolo, diagnostica e non cura, non va a cercare il trauma.

 

Il soggetto di Han è non ben identificato o forse sì: la classe medio-alta garantita

Innanzi tutto, questa è una società in cui i lavoratori stricto sensu stanno diventando una minoranza, si entra nel mondo del lavoro indeterminato sempre più tardi e anche il lavoro a tempo indeterminato non dà più garanzie di poter fare progetti a lungo termine per l’incertezza che colpisce anch’esso.

Non c’è alcun passaggio dal soggetto al progetto come Han sostiene perché è impossibile fare progetti a lungo termine e l’unico progetto che resta è quello dei lavoratori a progetto che vengono presi in giro e fatti lavorare come dei lavoratori dipendenti senza progetto.

Di lavoratori come li intende Han romanticamente ce ne sono ormai pochi, sono una popolazione in estinzione. Il resto è precariato, disoccupazione e abbandono. Quando Han dice queste cose a chi si riferisce esattamente?

È chiaro che si riferisce a una classe medio-alta, molto garantita. Se si riferisse ai non garantiti commetterebbe un delitto contro la loro condizione che si è originata dal trauma della frammentazione del lavoro sul territorio e contrattuale.

Sarebbe come bastonare una persona per aver perso la propria autostima a causa del fatto che non riesce a trovare un lavoro stabile, diagnosticarne la depressione o altre psicopatologie conseguenti, osservarlo con compiacimento prendersela contro se stesso invece che contro la società neoliberista che lo opprime, non comprendendo affatto che in tale società il dominio si auto-occulta, rende difficile l’individuazione dei responsabili, è oggettivamente la causa dell’individuo di prestazione e della sua coazione a ripetere l’aggressività contro se stesso perché nessuno ne ha ancora individuato il trauma. Non certo Han. Se continuiamo con teorie come quelle di questo filosofo non se ne uscirà mai.

 

Uno che volta le spalle

Scrivere che questa è una società senza classi significa voltare le spalle alle situazioni di povertà che dilagano, scrivere che ognuno possiede allo stesso modo i mezzi di produzione è dire una grande menzogna a effetto.

Negli anni Novanta si sosteneva che i pc fossero dei mezzi di produzione, ma era una boutade. Sono mezzi di produzione pc e smartphone? Danno il solo possederli e saperli utilizzare automaticamente un salario? E poi vuole confrontare il pc con la robotica più avanzata della fabbrica contemporanea, pur se fosse diffusa? Ma di cosa parla Han con tanta sicurezza? Da dove prende queste informazioni?

Scrive che tutti abbiamo mezzi di produzione e poi se la prende coi social media che sono le piattaforme con cui si spende la maggior parte del tempo su pc e smartphone. Si contraddice? Certo che sì. Essi produrrebbero de-interiorizzazione e farebbero in modo che ciascuno sorvegli il prossimo persino prima che i servizi segreti mettano in atto sorveglianza e controllo. Han porta questa dinamica ovvia, che sanno tutti, fino alla paranoia, fin dentro i pensieri.

La società del controllo che Han peraltro ritiene superata dalla società di prestazione è una cosa così complessa, ancora indicibile e inconfessabile che il filosofo pur sentendosi oltre, non ne sfiora neanche per un momento il suo requisito di etero-direzione e di dispositivi oggettivamente esistenti che lo innescano, tutto concentrato a far partire il male della nostra epoca dalla pancia di noi stessi. Ci vorrà tempo e non sarà Han a gettare giù il velo di Maya.

 

Borderline

Pur riconoscendo a stento che il dominio si sottrae a ogni visibilità, poi afferma che esso seduce e va incontro al soggetto. Se seducesse e andasse incontro al soggetto si scoprirebbe e, sapesse Han, che esso considerato come incapace di prendersela con il vero nemico, saprebbe benissimo dove colpire, invece che prendersela con sé stesso. Inoltre egli non affronta mai il problema dell’aggressività esteriorizzata, quella verso il prossimo, verso i soggetti più deboli, dalla violenza sulle donne al cyber-bullismo, e che, pure, nell’epoca digitale sono diffusissime.

Il soggetto non è sedotto, è umiliato, reso umile, docile e reagisce spesso in modi inconsulti, inaccettabili. Se il potere controlla la psiche e l’inconscio secondo Han, se produce soggetti borderline egli per guarire non può che proporre il dolore. Così il nostro filosofo diagnostica l’aggressività verso sé stessi per i fallimenti di cui saremmo colpevoli, essendo padroni e servi allo stesso tempo, essendo il potere nient’altro che una seduzione, e invita curarsi praticamente con l’autolesionismo.

Egli non vede e non vuole vedere che questa è una civiltà in cui gli individui si infliggono già dolore per riscoprire il proprio corpo violentato dal dominio psicopolitico. Quindi la sua ipotesi di guarigione si dovrebbe ridurre a una constatazione piatta se non si riconosce il trauma che l’ha generata, invece che civettare con tutti i maggiori filosofi di sinistra del Novecento e contemporanei disquisendo di passaggi da una società all’altra senza considerare che tali passaggi sono traumatici e generano sintomi psicopatologici, che tali passaggi sono imposti con la repressione e con la legge. La precarizzazione della vita che ha generato la società della trasparenza di cui scrive Han è stata introdotta con la forza e con la legge e poi data in pasto al mercato neoliberista ma egli questo lo sorvola, perché alle sue spalle ci sono Martin Heidegger, Jean Baudrillard e Peter Sloterdijk, non certo dei geni dell’analisi economico-finanziaria.

 

Idioti e moralisti: la società del futuro secondo Han

Han ci propone in alternativa alla rivoluzione e al cambiamento radicale dell’esistente, a un nuovo movimento collettivo del negativo, una comunità di idioti, perché l’idiota sarebbe al di là del soggetto, al di là di ogni nome, al di là di ogni psicologia. Han gioca a fare Giorgio Agamben, ma lo fa molto peggio, la sua boutade dopo aver sparato ad altezza d’uomo e ucciso tutti non regge.

La società della positività sarebbe una società della trasparenza e Han giustamente invoca un ritorno all’opacità, al segreto, all’ambiguità, al nascondimento. Ma il moralismo di Han è imbarazzante, egli fa l’equazione trasparenza uguale pornografia e la sua concezione della pornografia è ferma a quella degli anni Settanta, nella quale si mostravano senza mediazioni corpi in tutta la loro nudità.

Oscena, pornografica, priva di amore, priva di felicità questa è la trasparenza. Poi con una mossa a effetto la rovescia nel suo contrario: essa sarebbe una società dell’intimità. Non è detto che una cosa escluda l’altra, ma Han non ha le idee chiare. Soprattutto si contraddice in continuazione. Dapprima elogia la violenza negativa della teoria poi se la prende con la violenza positiva della trasparenza pornografica, se ne deduce che il problema non è la violenza, ma la pornografia, in questo caso non solo la pornografia tout court, ma l’eccesso di dati che non permetterebbero una decisione e che toglierebbero al nostro eroe l’autorità del filosofo.

Le cose non stanno come dice Han, se vogliamo prenderlo proprio in parola, partiamo dalla pornografia e dalla nudità. Innanzi tutto, il rigetto della nudità e l’equazione nudità-pornografia è completamente fuorviante, non si capisce cosa ci sia di male nella nudità del corpo e cosa c’entri con la trasparenza, il corpo per definizione è opaco, inoltre non è chiaro perché manchi di sublime mentre una nudità interrotta da un guanto e da una manica sì. Secondo le teorie del sublime dovrebbe essere del tutto a rovescio: se senti di soccombere a una potenza naturale come quella della nudità eppure a goderne attraverso una distanza razionale è esattamente l’esperienza del sublime. Mentre la vestizione che scompone le nudità si limita al bello e rende più facile l’approccio al corpo.

Tutta la pornografia più recente gioca sugli oggetti parziali del corpo e sulla sua scomposizione attraverso vestizioni, fa a pezzi il corpo, crea una seconda pelle, non c’è niente di orribile in questo, ma è proprio il contrario di ciò che sostiene Han, perché è più facile goderne. Tuttavia egli forse sostiene queste tesi sulla pornografia solo per polemizzare e civettare con la concezione della pornografia di Agamben.

 

Opachi, ma davvero

Per Han: “Il porno non annienta solo l’eros, ma anche il sesso. L’esposizione pornografica causa un’alienazione del piacere sessuale, rende impossibile vivere il piacere” (Han, 2014). Da dove deduce queste affermazioni perentorie Han? Se poi tutta la sua teoria dell’Eros è esattamente allineata alla pornografia più recente.

Ovvero detto con brutalità al vedo non vedo, agli oggetti parziali, alla negatività dell’eros che lui tanto sbandiera. Una critica seria della trasparenza per un ritorno all’opacità non può abbassarsi a scaramucce tra filosofi e a queste banalità moraliste sulla pornografia e l’oscenità, deve essere condotta a partire da ciò che effettivamente è accaduto politicamente ed economicamente a livello dei social media per arrivare a sacrificare privacy, segretezza, possibilità di sostare presso sé stessi in tutta riservatezza.

Non basta la filosofia, occorre attaccare il cuore della Silicon Valley. Se invece di dedicare tutte quelle pagine alla pornografia ci avesse spiegato perché la popolazione mondiale si mobilità volontariamente per suicidare le proprie informazioni personali, se ci avesse risposto perché la sociabilità passa per il web 2.0 allora sarebbe stato più interessante. Non che egli non lo dica ma dedica quattro versi a queste argomentazioni più lucide e nulla più. E poi perché improvvisamente spariglia tutto per dire che “l’intimità è la formula psicologica della trasparenza”? (Han, 2014).

 

Intimità

Così se al livello del corpo funziona l’equazione trasparenza-pornografia, al livello dell’anima funziona quella trasparenza-intimità. Insomma l’opacità invocata da Han è tale che arriva fino al punto di invocare anche un non intendersi, un non condividere, un restare perennemente nel mistero, questo misterioso! Anche l’anima ha diritto senza dubbio alla sua opacità, ma Han vuole di più, vuole rituali, cerimonie, in fondo trema davanti all’amore e forse non era la metafora più calzante per la causa dell’opacità. E poi forse saremo banali noi ma l’intimità non corrisponde fuori da ogni teoria a quell’opacità necessaria contro ogni trasparenza concreta? Gli sfugge questa affermazione: “L’anima umana ha palesemente bisogno di sfere nelle quali possa sostare in sé, senza lo sguardo dell’Altro: è dotata di impermeabilità” (Han, 2014). E allora perché scrivere un libro sull’espulsione dell’Altro se l’Altro in fondo per lui è un ficcanaso, perché dire che la società del controllo è superata in un libro e poi dire che il globo evolve in un panottico. A leggerlo attentatemene si scorgono numerose aporie come si vede.

 

L’Eguale: non era l’Identico?

Han fonda la categoria dell’Eguale ricalcandola su quella dell’Identico, solo che attaccando l’Eguale spezza la dialettica Eguale-Differenza necessaria a ogni forma di rivoluzione ed essere-in-comune, ci amputa mani e piedi perché non si ferma qui: critica il concetto superato di classe a favore di quello di sciame. All’Eguale mancherebbe sempre la controparte dialettica, è chiaro che il concetto di uguaglianza non implica l’essere uguali in tutto e per tutto, che ha delle inadeguatezze, ma resta un prerequisito per arrivare alla differenza.

L’Eguale di Han è auto-fondato ed esagerato, espungerebbe l’Altro, priverebbe dell’esperienza che avrebbe come essenza il dolore così il dolore cederebbe il posto al “mi piace”. Da una parte Han sostiene che il dolore è necessario dall’altra constata che è una società di borderline senza autostima e amore. E poi: i big data rendono superfluo il pensiero, il pensiero ha accesso al totalmente Altro. Esso ha il potere di interrompere l’Uguale. Questo mantra ritorna centinaia di volte facendo passare la voglia di leggerlo ancora.

Se lo dovesse ripetere ancora al prossimo libro, lo diciamo ironicamente, dovrebbe cessare di pubblicare o ammettere che è il suo piccolo business artigiano. Diversi libri, tanti libri, stessi eguali concetti. Egli è sì l’Eguale, l’Eguale con sé stesso. La comunicazione ammetterebbe solo Altri uguali, ecco: Han vive probabilmente ritirato e come tutte le persone che si ritirano dal mondo accetta solo le persone che l’assecondano e non l’Altro che ci mette in difficoltà. E ancora: con i social media non si sarebbe più vicini, vi sarebbe solo totale assenza di distanza. Un lamento continuo che ricorda quello degli adolescenti, età portata all’esistenzialismo spontaneo.

Inoltre, non sarebbe possibile giocare con la nuda carne perché il gioco ha bisogno di un’apparenza, di una non-veridicità. Sì, per poi affermare altrove che lo spirito commerciale è diabolico e la pace che genera un’apparenza. Che dobbiamo dedurne?

Che lo spirito commerciale sia solo un gioco? Che tutto questo discorso sull’autosfruttamento sia una cicalata? Che Han giochi a giocare il lettore togliendogli qualsiasi possibilità di riposta attiva?

 

L’ultimo idiota

Quante marce indietro si ritrovano in questo autore: il terrorismo sarebbe per Han il terrore del Singolare che si oppone al terrore del Globale. Improvvisamente si ritrovano affermazioni come queste: “Il neoliberismo genera una notevole ingiustizia sul piano globale. Sfruttamento ed esclusione gli sono costitutivi” (Han, 2017). Ma come? L’esclusione non era superata? Non faceva parte della società disciplinare? Certi capitoli sono addirittura infantili: “bella” è l’ospitalità, “brutta” l’ostilità per lo straniero, articolare un discorso meno saggio e più arguto gli è mancato. Insomma il nostro filosofo attacca tutto e tutti facendo implodere il discorso, facendo implodere il lettore, rendendolo indifeso e a rischio autolesionismo intellettuale.

Non c’è né il no future punk sostituito da un saggio eterno presente, né la congettura sui possibili del futuro se non in forme ovvie o ridicole: l’ascolto, la stanchezza, la stupidità. Perché perdere l’opportunità di difendere il concetto di autentico tanto maltrattato dal postmoderno se non per castrare eventuali attivisti preventivamente facendoli sentire nient’altro che dei narcisisti? Perché salvare parzialmente l’angoscia mentre tutte le altre psicopatologie sono prodotte della società della positività, se non perché certa filosofia orientale cripto-reazionaria ama da morire Heidegger?

Flirta con la morte trasformando la sua ineluttabilità in un’ombra gettata su tutto l’esistente. “Oggi viviamo in un’epoca postmarxista” (Han, 2017), sentenzia Han. E non resta che fare gli idioti, complimenti professor Han, vada avanti lei e chi si sente Eguale a lei la segui.


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