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sinistra

La cultura nel capitalismo assoluto

di Salvatore Bravo

ernest pignon ernest pasolini2Con la cultura non si mangia

La parola cultura ha subito un processo di deflazione del suo significato, al punto che nel 2010 il ministro dell’economia Tremonti affermò che con la cultura non si mangia. La verità torna sempre a galla malgrado i raggiri ideologici, e Tremonti ha espresso la verità del liberismo postborghese nel quale non vi è posto per il pensiero, per la formazione, ma solo per il calcolo, per il consumo dell’essere e dell’esserci.

Il giudizio ideologico di Tremonti non esaurisce i significati della parola cultura, per nostra fortuna, ma esprime l’imbarbarimento della condizione attuale. La cultura fine a se stessa o al servizio della persona è uno scandalo (dal greco skàndalon inciampo) da respingere, non si può inciampare e fermare il consumo, essa è un’ insostenibile trasgressione alla struttura economica che sta consumando l’intero pianeta (su otto milioni di specie di viventi un milione è a rischio estinzione secondo i calcoli dell’ONU).

In verità La cultura è radicale ed antitetica rispetto al capitalismo assoluto: in primis essa è portatrice di valori universali ed in quanto tali, non vendibili, in secundis l’etimologia della parola ci suggerisce il suo essere altro rispetto al tempo del capitalismo cultura (dal lat. cultura, der. di colĕre «coltivare»), essa è attività e temporalità della formazione, il tempo della cultura tesse il presente nel suo ordito, nella sua distensione riannoda ella continuità teleologica ciò che era disperso. Il capitalismo assoluto si esaurisce nell’immediatezza, è sciolto da ogni legame temporale e comunitario, pertanto è estraneo alla domanda sul senso, sostituita dal calcolo, dal silenzio degli enti che devono corrispondere al solo utile immediato.

 

Una difficile definizione

La cultura è una parola polisemica, nel corso della storia le sono stata attribuite innumerevoli significati, ciò malgrado ogni definizione si attuava in tensione con altre configurazioni simboliche.

La vivacità di una civiltà è constatabile dalla poliedricità di posizioni in essa viventi, le quali con la loro prassi, svelano e rilevano limiti e contraddizioni di ogni concettualizzazione. Si pensi alla costituzione italiana la quale ha il suo esserci nella genetica sincretica di una pluralità di posizioni culturali. L’incontro non omologa, ma svela gerarchie di significato come le false ragioni di ciascuno, smaschera l’ideologia per svelare con il logos la verità. I Totalitarismi sono invece connotati dal tentativo di ridurre il complesso al semplice, dalla tracotante pretesa di introdurre un paradigma unico interpretativo: una sola scala valoriale per tutti, che conseguentemente, è al riparo da ogni temporalità, ma nel contempo addestra alla genuflessione ideologica. Gli ultimi decenni sono caratterizzati per il trionfo del calcolo sulla razionalità teoretica in un clima di ostilità conclamata verso il pensiero complesso. In questi anni di indifferenziazione la parola cultura è associata ad ogni ente commerciabile posti sulla stessa linea valoriale con la sola differenza quantitativa-monetaria: il cibo, arte, libro, feste patronali, abbigliamento, salute, istruzione, organi umani, ogni espressione fenomenica vendibile è giudicata cultura. Naturalmente hanno in comune la spendibilità, per cui ogni esperienza umana è posta sulla linea del consumo. Tale visione della cultura è naturalmente ideologica, poiché risponde ai bisogni del capitalismo assoluto.

 

Pasolini e la cultura ideologica dell’edonismo

Il modo di produzione segnato dalla globalizzazione deve rispondere ad un mercato globale che esige l’essere umano cosmopolita dalla lingua e dal pensiero unico. La minaccia perenne della sovrapproduzione, risponde al pericolo con l’animalizzare l’essere umano, rendendolo ente, cosa e dunque esposto alla manipolazione, per cui si formano non più persone ma consumatori perenni. La cultura si eclissa e con essa il pensiero della prassi per l’immanenza del mercato. La dialettica tra universale e particolare che sostiene l’umanizzazione dell’essere umano è sostituita dal calcolo del piacere, dall’interesse privato, dalla competizione che struttura e conferma il paradigma dell’immanenza. Dinanzi ad un edonismo senza gioia, non si può non constatare che l’omologazione edonistica celi una nuova forma di fascismo: non è ammessa la possibilità dell’esodo e dell’emancipazione consapevole dalle strutture e dalle sovrastrutture, anzi il potere manovra per l’inclusione nelle medesime, per il piacere controllato e finalizzato al consumo. L’edonismo non è trasgressivo, perché il piacere deve produrre capitale, deve consumare le merci, ogni ontologia deve essere cannibalizzata, non vi è l’erotica dell’inutile quale modalità espressiva e profonda del trascendere il modo di produzione, ma si resta interni alle richieste preordinate dal nuovo potere regale. Genuflessione di massa, mentre si urla alla libertà da ogni vincolo, da ogni verità. Pasolini è stato il lucido cantore della tragedia dell’edonismo, del nuovo pragmatismo fascista che ammette tutto, ogni forma di piacere purché il ciclo del consumo sia sacralizzato1 :

L’identikit di questo volto ancora bianco del nuovo Potere attribuisce vagamente ad esso dei tratti “moderati”, dovuti alla tolleranza e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente; ma anche dei tratti feroci e sostanzialmente repressivi: la tolleranza è infatti falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e quanto all’edonismo, esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la storia non ha mai conosciuto. Dunque questo nuovo Potere […] è in realtà – se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia – una forma “totale” di fascismo. Ma questo Potere ha anche “omologato” culturalmente l’Italia: si tratta dunque di un’omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre”.

 

Costanzo Preve: differenza tra cultura ed ideologia

L’ideologia ha così sostituito la cultura. La storia della cultura ci consente di individuare il paradigma per distinguere la cultura dall’ideologia. La prima è cultura dell’universale, i suoi fondamenti sono universali, poiché la formazione e la lettura olistica dei fenomeni culturali e storici, già forma ad una disposizione all’universale, in cui il pensiero ritorna su se stesso per individuare parzialità e rigidità e confrontarsi con esse. L’ideologia è la rappresentazione del reale falsata dall’illusione dell’universale, ovvero si scambia la parzialità per universale, sostenuta dall’assenza della capacità e della motivazione a tornare sulla rappresentazione per liberarla dalle trappole della falsa coscienza. L’ideologia vive di ipostasi, essa necrotizza il tempo storico, divide senza mai unire, mentre la cultura distingue il temporale dall’universale. La cultura è orientamento verso la verità, è trascendere l’immediato per astrarre dalla storicità l’universale in cui ciascuno può ritrovarsi, sentirsi nella propria casa, poiché l’universale è posto in modo corale 2 :

Il concetto di cultura porta con sé la dimensione della possibile educazione universalistica del genere umano (paideia, Bildung). Si tratta di una nozione prodotta da alcuni illuministi tedeschi alla fine del Settecento, e poi correttamente ripresa da Kant e Hegel. Questa nozione riprende il vecchio concetto greco di paideia, arricchendolo (o impoverendolo, a seconda dei punti di vista) con la nuova consapevolezza della dimensione storica e temporale. L’ideologia invece non è equivalente alla cultura, e non è neppure una sorta di “parte politicizzata” della cultura stessa. L’ideologia è una rappresentazione del mondo, o più esattamente un insieme organico e gerarchizzato di rappresentazioni, che risponde immediatamente (e cioè senza mediazione ulteriore filosofica e scientifica) al problema del conferimento di senso e di prospettiva alla vita quotidiana, non appena questa vita quotidiana diventa oggetto di autoriflessione, o più esattamente diventa un concetto trascendentale riflessivo. Come del resto avviene per la religione, di cui l’ideologia (anche quella atea, ed anzi soprattutto quella atea) è sempre una forma impoverita, semplificata e privata delle sue dimensioni esistenziali più importanti, si tratta di una antropomorfizzazione e di una conseguente soggettivizzazione (individuale o di gruppo) del mondo dei significati umani”.

 

Resistenza contro l’incultura dell’ideologia del consumo

Anche Costanzo Preve come Pasolini verifica la riduzione degli esseri umani a semplici consumatori. Il consumatore per suo statuto è radicato nell’immanenza, nell’individualismo astratto. Il consumatore racchiuso nel calcolo è avulso da ogni contesto ed intenzionalità, vive in un mondo di merci da consumare, non concepisce la possibilità dell’universale. L’ideologia capitalistica, in tal modo, recide ogni legame con l’erotica dell’universale, con la cultura, al suo posto non resta che il consumatore perennemente insoddisfatto, che vive fuori della sua dimensione interiore, senza cura di sé e del mondo. La formazione perversa è data dalle merci e dai luoghi di aggregazione del consumo individualista: si sta assieme per consumare individualmente, le barriere, così, si solidificano tra soggetti come tra le generazioni, l’effetto finale del trionfo dell’ideologia è la società dell’anomia, degli indifferenti, l’indifferenza diventa la natura ideologica del soggetto alienato3 :

Se è vero che l’implosione del senso e della prospettiva caratterizza l’attuale terza età del capitalismo, che non solo ha vinto contro le due critiche sociale ed artistica, ma ha stravinto e dunque vinto troppo, allora i giovani sono le prime vittime. I giovani infatti vivono di senso e di prospettiva. Questo fu detto molto bene dai romantici, e da Fichte in particolare. La trasformazione dei giovani in un gruppo consumistico generazionale è effettivamente una preoccupante novità storica. Se gli insegnanti notano nel mondo intero una caduta delle capacità logiche degli studenti, questo è dovuto al fatto che ormai il general intellect capitalistico ha raggiunto un tale livello di incorporazione anonima di conoscenze da avere sempre meno bisogno di una famiglia in cui si parli e di una scuola in cui si ragioni. La questione giovanile è dunque storica e filosofica, non psicologica e pedagogica. I giovani devono tornare ad avere senso e prospettiva. Allora, si vede subito che recuperano d’incanto capacità logiche, espressive ed emozionali. La tendenza della famiglia a ridursi ad un “centro di consumo” di merci e servizi non è certo nuova. La demenziale ideologia futuristica della cosiddetta “sinistra” ha sempre sparato sulla famiglia, ed ancora una volta la convinzione di essere antiborghesi ed emancipati ha solo accompagnato una tendenza del capitalismo nel suo passaggio dalla sua seconda alla sua terza età. La borghesia colta, la cultura contadina e le religioni organizzate sono state sempre meno stupide, anche se come si suol dire “ci vuole proprio poco”. I centri di consumo prima implodono nell’anomia a causa della insensatezza, e poi esplodono in frammenti sulla base della fine della comunicazione sensata fra le tre generazioni (giovani, adulti ed anziani). In un’epoca di rapidissima trasformazione tecnologica gli anziani non hanno più competenze da trasferire ai giovani (computers, ecc.)”.

 

L’"anti" non necessariamente è cultura, ma l’altro volto dell’ideologia

La resistenza è sempre possibile, essa non è mai, come rileva C. Preve, opposizione ad un popolo che vive in uno spazio geografico, ma contro un modello culturale e politico di cui si devono identificare i responsabili. Ogni resistenza non può ridursi all’acclamazione di un “anti” a qualsiasi costo, ma deve tradursi in linguaggio e prassi. L’anti può essere anch’esso ideologico e non culturale, può trasformarsi in un ruolo sociale mediaticamente proficuo, ed ancora può intrappolare le energie creative nella fissazione ossessiva. Esso è un ottimo espediente per criticare e nel contempo lasciare immodificati i rapporti di forza. L’XI tesi su Feuerbach di Marx chiarisce che vi è cultura solo nella prassi :”I filosofi hanno finora interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo”. L’anti, come rileva Heidegger, impedisce di uscire dal linguaggio che si contesta, perché l’opposizione resta il paradigma di confronto e di relazione da cui è impossibile il distacco creativo e linguistivo. E’ necessario trascendere l’anti, per decolonizzare la mente e fondare nuove potenzialità di pensiero. Ogni resistente deve testimoniare che un altro modo di vivere ed esserci è possibile. Solo mediante la testimonianza vissuta si può resistere, ma specialmente diventare centro aggregatore di un’opposizione credibile e costruttiva. L’ideologia del capitalismo è oggi anche criticata, ma non trova nei critici, in genere, testimonianza coerente, per cui si lavora per il nemico che si critica4 :

La resistenza alla religione imperiale della Missione Speciale diventa quindi oggi la premessa per ogni azione culturale dotata di senso e di prospettiva. Questa resistenza non può essere evitata, ed è un dovere dell’ora presente. Essa verrà certamente diffamata come anti-americanismo. Naturalmente non lo è per nulla. La resistenza si esercita contro la religione imperiale della Missione Speciale, non contro l’America, il popolo americano nel suo insieme e la cultura americana come tale. Se si è contro Franco non per questo si è anti-spagnoli, se si è contro il sionismo non per questo si è anti-semiti, se si è contro Stalin non per questo si è anti-russi (o anti-georgiani), se si è contro Mussolini non per questo si è anti-italiani. È quasi ridicolo dover ricordare queste banalità, ma ci troviamo oggi in una tale situazione di barbarie e di manipolazione da dover ricordare continuamente anche elementari ovvietà. (…)Segnalando la necessità imprescindibile di resistere alla cultura imperiale della Missione Speciale si è solo posta una precondizione, ma non si è neppure lontanamente impostato il problema di una cultura alternativa alla implosione del senso e della prospettiva concepita come meccanismo di individualizzazione e di socializzazione adattativa. Resistenza significa solo anti, ed ogni cultura costruita solo negativamente sull’“anti” (anticapitalismo, antifascismo, anticomunismo, ecc.) è per definizione insufficiente. Un “anti” (e si pensi solo al cosiddetto ateismo) è sempre prigioniero della problematica cui si oppone, ed è perciò destinato a girare in tondo dentro la circonferenza che lo tiene sotto controllo. Dopo e con la resistenza ci vuole ovviamente una cultura, intesa come educazione progressivamente universalistica del genere umano (paideia, Bildung)”.

 

Massimo Bontempelli un esempio di resistenza possibile

La cultura esige la crasi perfetta tra coerenza e ricerca. La resistenza necessita di esempi, di archetipi umani che mostrano che è possibile in ogni epoca resistere in modo propositivo. Massimo Bontempelli ha testimoniato che il riorientamento gestaltico è realtà concretizzabile, anche in un momento di ideologia-totalitarismo in forme e mezzi sconosciuti nella storia dell’occidente; palesa che la resistenza è contraddizione nel sistema, i singoli possono fendere la cappa ideologica con le loro parole, con la concretezza dei loro atti, delle loro scelte. Si tratta di eroi, sempre il totalitarismo, necessita di eroismo per la verità5 :

E poi, soprattutto, ha commesso un reato oggi insopportabile: nessuno scarto tra le sue idee scritte e la sua vita pratica. Un intellettuale con le sue doti avrebbe potuto anche senza grandi compromessi occupare posti di privilegio e cattedre importanti. Massimo Bontempelli ha dato tanto, tantissimo, a chiunque gli si avvicinasse con desiderio di conoscenza, in una misura che è difficile poter anche immaginare. Ci ha insegnato con la semplicità della sua vita, con la sua incredibile disponibilità, con la sua umanità che davvero un altro mondo è possibile. Ciascuno di noi, in coscienza, se vuole ricordare Massimo, rifletta sul valore di questo suo insegnamento”

La resistenza non può limitarsi all’impegno dei singoli, ma affinché le parole tornino a circolare è necessario che vi siano esseri uomini che come catalizzatori di energia diano voce al disagio, al potenziale intellettivo sopito che, indubitabilmente, è presente in ogni epoca, anche nella nostra, in cui il comportamento poietico pare aver eliminato ogni potenzialità progettuale. La cultura, se seguiamo l’interpretazione di Costanzo Preve è esperienza di verità la quale comporta l’accrescimento del soggetto o della comunità in senso qualitativo. La cultura è consapevolezza e dunque è libertà. La fobia verso i contenuti, il pensiero complesso e critico a favore della sola tecnica ha la sua verità nell’ideologia del capitalismo assoluto ostile verso ogni forma di libertà etica, di accrescimento della razionalità, di connubio tra ontologia ed assiologia6 :

Il termine di cultura, nel significato che intendo dargli, non significa solo “alta cultura”, la cultura scritta e visiva dei grandi scrittori e dei grandi pittori, e neppure cultura in senso antropo-logico come insieme dell’attività lavorativa, linguistica e simbolica dell’uomo, ma significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento (e di autoaccrescimento) della coscienza umana che dura tutta la vita. La cultura è dunque un termine che connota sia l’individuo, sia i gruppi ristretti, sia l’intera società”.

Siamo ad un bivio, dinanzi a noi vi è la responsabilità se scegliere la barbarie o la cultura, scelta non rinviabile, e specialmente, l’errore etico non potrà che avere effetti irreversibili.


Note
1 Intervista di Furio Colombo Che cos’è la cultura? Pier Paolo Pasolini – 2/11/1975
2 Costanzo Preve La crisi culturale della terza età del capitalismo. Dominanti e dominati nel tempo della crisi del senso e della prospettiva storica Petite Plaisance Pistoia pag.6
3 Ibidem pag. 18
4 Ibidem pp. 22 23
5 Fabio Bentivoglio Bontempelli, una vita semplice, una mente scintillante 02/08/2011
6 Ibidem pag. 4

Comments

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francesco
Monday, 20 May 2019 17:58
"Lo Stato, politicamente inteso, cioè lo Stato senz’altro, coincide, come sappiamo, con il governo; ed è un rapporto di autorità e consenso, che ha di fronte come nemici, e tratta come tali, quelli che non l’accettano e intendono a cangiarlo. Costoro vengono dichiarati, secondo i casi, traditori, ribelli, indesiderabili, e mandati a morte, alle prigioni, agli esilii, e in altri modi perseguitati e castigati. E per la tendenza che ha e che deve avere quel rapporto politico, ossia quell’ ordinamento statale, a conservarsi, sono altresì da esso tenuti d’occhio e in sospetto tutti gli spiriti liberi e indocili, e perfino gli uomini di critica e di pensiero, i quali, avendo lo sguardo all’eterno, vanno sempre oltre l’esistente e il presente. I governanti, alternando alle intimazioni le lusinghe, procurano anche di amicarsi questi uomini o di guadagnarseli; e i più diversi regimi si circondano di ‘letterati’, e, come ora si dice d’ ‘intellettuali’, che poi, in quanto riescono a esser docili e si prestano ai servigi dello Stato e a coniare teorie e poemi utili allo Stato, non possono essere, come è facile immaginare, se non letterati e intellettuali di qualità poco fine. Per quelli di buona razza e di tempra fine, per gli indocili, per i tormentatori e turbatori di sé e degli altri, pei tentatori e seduttori di anime, il poeta dei poeti ha messo in bocca al politico il motto: ‘He thinks too much: such men are dangerous’; e il teorico ha formulato la sentenza: ‘ Ominis philosophia, cum ad communem hominum cogitandi facultatem revocet, ab optimatibus non iniura sibi existimatur perniciosa’.”
B. Croce, Politica in Nuce, 1924
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Eros Barone
Thursday, 16 May 2019 15:14
Quando si affronta la cruciale questione del rapporto tra la cultura e il capitalismo (assoluto e/o relativo che sia), una buona norma da osservare è quella di procedere alla chiarificazione di ciò che si intende con il termine ‘cultura’, giacché la polisemìa che circonfonde tale termine ne fa oscillare i molteplici significati fra i due poli di un ‘oggetto senza concetto’ e di un ‘concetto senza oggetto’. Il mio sommesso avviso è che proprio questa mancanza di definizione renda inevitabili sia la riduzione ‘gastronomica’ della cultura sia la conseguente problematica circa gli effetti eupeptici (o dispeptici) del suo consumo, laddove appare sempre più chiaro che è esattamente quest’ultimo a determinare, in ultima istanza, l’insieme del processo di produzione, circolazione e diffusione degli eventi e delle iniziative correntemente definiti come ‘culturali’. Mi domando, allora, se non sarebbe il caso che chi si propone di trattare questo tema cominci a interrogarsi sulle fonti che alimentano il ricorrente trasformismo, il diffuso nichilismo e il galoppante populismo da cui è segnata la nostra vita culturale non meno che la nostra vita politica. In effetti, la tendenza prevalente è quella a sommergere giudizi di valore e conflitti di posizioni in una melassa indistinta e dolciastra che viene spacciata come espressione di pluralismo quando, in verità, non è altro che puro e semplice indifferentismo. Questa tendenza, più che aiutarci a capire meglio chi siamo (e in tal senso occorre riconoscere che giudizi di valore e conflitti di posizioni vanno considerati come i fattori determinanti di ogni presa di coscienza), ha accentuato una sorta di ‘alienazione culturalistica’ per cui tendiamo, da un lato, a dissimulare a noi stessi che la cultura di fatto interessa poco e, dall’altro, riteniamo doveroso affermare che i prodotti culturali sono di per sé un valore, anche quando non hanno valore. Orbene, un plastico esempio della suddetta alienazione è stato, a mio avviso, il ‘caso Eco’. Infatti, se è vero che l’illustre semiologo alessandrino (e il noto autore del romanzo “Il nome della rosa”) era considerato per le sue prese di posizione un irriducibile avversario della destra berlusconiana e un prestigioso campione della sinistra, è altrettanto vero che questo accadeva per ragioni esclusivamente politiche. Dal canto mio, credo che Eco somigliasse a Berlusconi più di quanto lui stesso credesse. La vocazione demagogica e populistica che ispirava questi due personaggi, pur diversissimi l’uno dall’altro, era talmente irresistibile che il fatto di non piacere al grande pubblico o di non essere applauditi ritengo fosse la cosa che più li terrorizzava. Eco incarnava il sogno dell’abbondanza culturale inesauribile, un tesoro enciclopedico ricco di sfavillanti attrattive e sempre a portata di mano; Berlusconi è andato al governo nel 1994 e nel 2001, promettendo agli italiani di portarli nel 'paese dei Balocchi', e vi è tornato nel 2008 promettendo di tagliare le tasse, di rendere efficienti i servizi, di realizzare le grandi opere e di riattivare in tal modo un’economia sempre più languente a causa dell’effetto congiunto della crisi interna e di quella mondiale. In realtà, temo, il cibo culturale che, ai più diversi livelli, viene cucinato e ammannito è sempre più insapore, anche se infiocchettato e guarnito nei modi più diversi, quali sono suggeriti o imposti da quella macchina che è la ‘spettacolarizzazione della cultura’. Del resto, forse è proprio nella ‘spettacolarizzazione della cultura’ che il nostro paese ha conseguito un suo indubbio primato, e ciò spiega perché esso ospiti un’attività culturale, ad un tempo, pletorica e irrilevante. Così, è tipico di tutte le vicende italiane che nessuna delle due cose risulti del tutto vera o interamente falsa: l’onnipresenza della cultura e l’assenza della cultura sembrano coesistere.
Già, la cultura: ma che cos’è e, soprattutto, che cosa fa (o deve fare) la cultura, se non si vuole ridurre ai suoi ‘usi gastronomici’ e limitarsi ad offrire la scelta fra menù più o meno leggeri, più o meno speziati, più o meno digeribili (nel caso specifico, per attenerci alla lista dell'autore di questo articolo, tra il menù di Pasolini, quello di Preve e quello di Bontempelli, più un pizzico di Marx per insaporire le diverse pietanze)? La risposta, non ho dubbi, è contenuta in questa classica definizione di Antonio Labriola, un vero ‘memento’ per tutti coloro che intendono fare della cultura una lente per interpretare il mondo e una leva per cambiarlo: «Cultura è esattezza di precisa osservazione, vivacità di fantasia corretta, penetrazione del pensiero nel mondo delle cose, umanità di sociali intendimenti».
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