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Finitudine ed escatologia nell’era del presente esteso

di Roberto Paura

Un mondo a venire dopo la vita? Le risposte di Bart Ehrman, Brunetto Salvarani e Telmo Pievani

mappe morte 07Se dovessimo svolgere un sondaggio su quale sia considerato oggi il modo migliore di morire, scopriremmo che le risposte sono quasi unanimi: all’improvviso, meglio se nel sonno, senza nemmeno accorgersene. Chiudere gli occhi e non svegliarsi più. Eppure, nel passato poche cose avrebbero atterrito più di questa. Morire improvvisamente senza la possibilità di ottenere il conforto dei sacramenti e della remissione dei peccati avrebbe potuto compromettere ogni speranza di salvezza nell’aldilà. Il trapasso, dopotutto, può ben essere doloroso, ma ha una durata limitata; l’eternità, invece, è davvero lunga, e nessuno vorrebbe trascorrerla tra i tormenti. Così scriveva ad esempio il teologo bizantino Giovanni Crisostomo nella sua Omelia sul Vangelo di Giovanni: “Se dovesse accadere (Dio non voglia!) che per una morte improvvisa dovessimo lasciare questa terra non battezzati, anche se saremo ricolmi di ogni virtù, il nostro destino non potrà che essere l’inferno e il verme velenoso e il fuoco inestinguibile e catene indissolubili” (cit. in Ehrman, 2020).

All’apogeo di quella grande costruzione sociale occidentale che fu la Cristianità, nemmeno la morte assicurava la fine di ogni preoccupazione per il “caro estinto”. In virtù della “comunione dei santi” – lo stretto legame che, secondo la teologia cattolica, esiste tra i vivi e i morti – la preghiera per chiedere l’intercessione dei santi a favore delle anime dei defunti, spesso attraverso messe in suffragio, serviva ad abbreviare il periodo di penitenza nel Purgatorio, dove si riteneva che finisse la maggior parte delle anime (i dannati, va da sé, finiscono all’inferno, soprattutto se sono morti senza essersi potuti pentire, da cui la paura di una morte improvvisa; i santi, che finiscono direttamente in paradiso, sono obiettivamente pochi).

L’esperienza della vita terrena arrivava di conseguenza a estendersi significativamente, tanto verso il passato quanto verso il futuro; già da bambini bisognava preoccuparsi delle anime dei familiari che avevano lasciato questo mondo, e questo compito non faceva che aggravarsi col passare degli anni, man mano che aumentava il numero dei parenti e amici defunti. Ma tutto ciò fa oggi parte dei libri di storia della mentalità.

 

Scomparsa del futuro e scomparsa della morte

Secondo il sociologo tedesco Hartmut Rosa, la società postmoderna è caratterizzata da una forma di accelerazione (tecnologica, sociale, e del ritmo di vita) che “funge da equivalente funzionale della promessa (religiosa) della vita eterna” (Rosa, 2015). In una società secolare, l’unica vita che conta è quella presente, interrotta definitivamente dalla morte; l’unico mondo in cui viviamo è questo, non esiste alcuna vita “nel mondo che verrà”, come ci invita a sperare il Credo niceno-costantinopolitano. Una vita buona è quindi una vita piena e ben spesa, in cui realizzare tutte le nostre aspirazioni, che però aumentano esponenzialmente con l’aumento di possibilità che la tecnologia ci offre. Siamo quindi portati ad accelerare per vivere più vite nel tempo (mai sufficiente) che abbiamo a disposizione, nella certezza che “si vive solo una volta”. Dunque, sostiene Rosa, la condizione postmoderna si fonda “sull’idea (inespressa) che l’accelerazione del «ritmo di vita» sia la nostra risposta (ossia la risposta della modernità) al problema della finitezza e della morte”. Concludendo: “È superfluo dire che purtroppo la promessa alla fine non viene mantenuta”.

Helga Nowotny (1996) ha parlato di presente esteso per indicare l’attuale condizione in cui la freccia del tempo è sì orientata verso il futuro, ma questo futuro non è che una continua reiterazione ciclica di ciò che avviene nel presente: il ciclo giorno-notte della nostra quotidianità, il ciclo delle settimane, dei mesi e degli anni, il ciclo nascita-morte. In questo presente esteso il futuro è stato “colonizzato” da tutte quelle strutture – edifici, innovazioni tecnologiche, istituzioni come il diritto, le banche, le assicurazioni – il cui compito è di minimizzare i rischi dell’avvenire e assicurarsi che tutto resti com’è (cfr. Adam, 1990). Ciò distingue decisamente la società attuale da tutte quelle che ci hanno preceduto. Non è vero affatto, secondo Nowotny e la sociologa Barbara Adam, che la società moderna si distingua da quelle antiche perché queste ultime avevano una concezione ciclica del tempo, sostituita a partire dall’era cristiana da un tempo lineare orientato verso il futuro. La verità è che le società antiche possedevano molti modi per trascendere la ciclicità del tempo mondano, mentre quella in cui viviamo non ne ha più nessuno. Per Zygmunt Bauman “l’escatologia sarebbe stata trionfalmente dissolta nella tecnologia” (Bauman, 1995).

Una situazione analoga sembra essersi verificata anche nel pensiero teologico, al punto tale che si potrebbe affermare che la scomparsa dell’escatologia – ossia del pensiero del dopo – nella condizione postmoderna non sia che il riflesso di un’analoga eclissi escatologica nella teologia occidentale, e non viceversa, come invece spesso si crede (cioè come frutto della secolarizzazione della modernità).

Questa tesi è stata esplorata da Brunetto Salvarani in Dopo. Le religioni e l’aldilà (2020), secondo il quale “il discorso sui novissimi” (come spesso nel linguaggio dottrinale si indica l’insieme degli argomenti di escatologia, ossia la vita dopo la morte e la parusia, il ritorno di Cristo sulla terra) “con il tempo ha finito per essere screditato, tanto che su di esso oggi sembra regnare il silenzio, l’oblio, se non persino una vera e propria rimozione, più o meno voluta e più o meno compresa nella sua portata”.

 

La crisi escatologica

Alla fine del XIX secolo la teologia protestante, avviando la sua ricerca sul Gesù storico (che in ambito cattolico fu invece tacciata e perseguitata con il termine “modernismo”) approdò provvisoriamente alla convinzione che Gesù fosse stato un mero maestro di etica e che tutto l’apparato dottrinale relativo alla vita dopo la morte non fosse che un’invenzione successiva. Contro questa tesi (definita “teologia liberale”), se ne contrappose un’altra, sempre fondata sulla ricerca del Gesù storico, ma che approdò a conclusioni diverse: Gesù era fermamente convinto che il mondo sarebbe presto finito e predicava la conversione universale per la salvezza delle anime prima del giorno del giudizio. Questa concezione profondamente escatologica, condivisa dai primissimi cristiani (come d’altronde è evidente in molti passaggi delle lettere di Paolo e di Pietro), si scontrò con la mancata parusia: a un certo punto, smentendo totalmente la promessa di Gesù secondo cui “vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza” (Marco, 9:1), tutti i testimoni dell’epoca morirono senza che del regno di Dio ve ne fosse l’ombra. Di fronte a questo imbarazzo, il pensiero cristiano delle origini dovette subire una profonda rielaborazione.

La “lieta novella” predicata da Gesù, relativa all’imminenza del Regno dei Cieli, venne sostituita con la lieta novella della resurrezione: “Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede”, assicurava Paolo di Tarso (1Corinzi, 15:14). Anziché una salvezza futura ma imminente per tutti, la speranza privata di una resurrezione dopo la morte, alla fine dei tempi. Nel suo Escatologia occidentale, pubblicato per la prima volta nel 1947, Jacob Taubes osserva:

“La speranza nel regno millenario, così, viene definitivamente allontanata dalla chiesa e da qui in poi diventa qualcosa di cui si occupano le sette. Al posto dell’escatologia universale subentra l’escatologia individuale. L’attenzione ora è rivolta al destino dell’anima, e il tempo della fine viene sostituito dall’ultimo giorno della vita umana”

(Taubes, 2019).

È possibile allora tracciare un collegamento tra ciò che i sociologi definiscono defuturizzazione, ossia la progressiva scomparsa della dimensione del futuro che caratterizza la condizione postmoderna, e l’individualizzazione della speranza escatologica, ossia la sostituzione dell’attesa della venuta del regno (la salvezza collettiva) con la preoccupazione sul destino individuale dopo la morte?

 

Il regno di Dio è vicino?

Tra i sostenitori moderni dell’interpretazione escatologica della predicazione di Gesù c’è lo storico Bart D. Ehrman, un ex cristiano rinato poi convertitosi all’ateismo dopo aver preso atto che l’interpretazione letterale delle sacre scritture è letteralmente insostenibile. Ehrman, che ha dedicato molti best-seller alla ricostruzione del vero messaggio gesuano, ha esposto di recente in Inferno e paradiso. Storia dell’aldilà (2020) la sua tesi secondo cui Gesù in realtà non credeva affatto nell’esistenza dell’inferno e in generale di una punizione eterna per le anime di coloro che non si fossero convertite. I riferimenti alla “punizione eterna” presenti nei Vangeli si riferirebbero, secondo Ehrman, alla possibilità che le anime dei dannati vengano distrutte, ma senza un’eternità di tormenti. Altri passaggi su cui si è basata la successiva dottrina della punizione infernale, come quella di Lazzaro e del ricco Epulone (in Luca 16), sarebbero aggiunte successive. Piuttosto, Gesù sarebbe stato convinto, “come altri pensatori apocalittici a lui contemporanei”, di un imminente giudizio, al termine del quale si sarebbe verificata la promessa della redenzione su cui si basavano le speranze degli ebrei.

“Alla fine, nella tradizione cristiana, le visioni apocalittiche di Gesù sull’aldilà verranno smorzate, e si inizierà a pensare che beatitudini e pene giungeranno non solo dopo il giorno del giudizio, che appare sempre più lontano, ma subito dopo la morte. Più tardi i cristiani cominceranno a prestare attenzione quasi esclusivamente alle ricompense e alle punizioni immediatamente dopo la morte. Saranno questi sviluppi successivi che porteranno alla nascita delle idee di inferno e paradiso in cui molti ancora oggi pongono la loro fede”

(Ehrman, 2020).

C’è senz’altro del vero in quel che dice Ehrman, tesi peraltro condivisa da molti storici e teologi, come abbiamo visto. È anche vero, però, che Ehrman probabilmente enfatizza eccessivamente la componente “apocalittica” del messaggio di Gesù. Per esempio, le parabole relative al regno dei cieli presenti nei vangeli sembrano suggerire un’idea molto più posposta nel tempo dell’avvento del regno. Si pensi alla parabola del lievito e, soprattutto, a quella del granello di senape, sicuramente uscita dalla bocca stessa di Gesù in quanto ricorre in tutti e tre i sinottici nonché nel vangelo di Tommaso:

“Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami”

(Matteo 13:31-32).

A più riprese emerge l’idea che l’opera di trasformazione del mondo sia solo avviata, ma richieda tempo e pazienza perché si realizzi; il regno, ossia la dimensione futura in cui Dio viene ad abitare nella sua stessa creazione definitivamente salvata e mondata dal peccato, sarebbe presente solo in nuce al momento della predicazione di Gesù, ma quel seme è destinato in prospettiva a crescere e trasformare l’universo. Il celebre teologo evangelico Rudolf Bultmann ha dimostrato (in Storia ed escatologia, 1958) che la concezione del tempo attuale come “tempo intermedio tra la venuta (o la resurrezione o l’esaltazione) di Cristo e il compimento”, che Paolo e Giovanni avrebbero cercato di definire sulla base della dicotomia dialettica “non più/non ancora” (il mondo di prima non esiste più, il regno non è ancora venuto), sia gradualmente venuta meno in funzione del sacramentalismo. Con questo termine, Bultmann definisce da un lato il nuovo orientamento dei credenti rivolto meno all’escatologia universale e al destino del mondo che alla salvezza individuale dell’anima e all’immortalità garantita dai sacramenti; e dall’altro l’idea che i sacramenti amministrati dalla Chiesa operino già nel presente per rendere possibile la salvezza che giungerà dal futuro (Bultmann, 2017).

Il suo collega Oscar Cullmann si sforzerà di riprendere il discorso escatologico fondato sulla dialettica non più/non ancora affermando (nel classico Cristo e il tempo, del 1946) che, come sosteneva Paolo, “ogni speranza nella resurrezione futura dei corpi è fondata esclusivamente sulla fede nella già avvenuta resurrezione di Gesù Cristo” (Cullmann, 2005), cosicché il problema della mancata parusia verrebbe risolto fissando al centro del tempo cristiano la resurrezione di Gesù, mentre la salvezza finale non sarebbe che il compimento di un processo già in corso.

È in questa chiave che Salvarani rilegge il dibattito contemporaneo sull’escatologia nella teologia cristiana, impegnato in un faticoso tentativo di evitare da un lato una fatalistica e passiva attesa come in Aspettando Godot di Samuel Beckett, che Johann Baptist Metz ha definito (ricorda Salvarani) una celebrazione “dell’epocale incapacità di attendere qualcosa”, e dall’altro la tentazione di cercare di realizzare il regno futuro già qui sulla terra, come proponevano le teorie marxiste di Ernst Bloch con il suo Il principio speranza (1954).

 

Dal destino individuale alla salvezza collettiva

Ciò che è interessante è che sia Salvarani, che parte dalla sua posizione di credente, sia Ehrman, che parte invece da una posizione di incredulità, convergono verso una ridefinizione del concetto di salvezza nel cristianesimo che dovrebbe avere come obiettivo quello di riaprire la dimensione collettiva del futuro. Per Salvarani i credenti dovrebbero far tesoro del limite della morte come dono dell’incertezza, al punto da ridefinire il concetto stesso di Dio onnipotente “per abbracciare quella di un Dio che sta alla soglia dell’esistenza”. Il risultato sarebbe quello di ripensare la condizione del dopo, che mentre nella religione ha senso solo in vista del premio finale (il paradiso, la resurrezione) o del timore della punizione eterna (l’inferno), nella più universale dimensione della fede viene invece attesa “in maniera gratuita, senza attendersi nulla in cambio e nella prospettiva di una sempre maggiore umanizzazione del mondo”. In questo senso la chiave è quella offerta dalla provocazione di Hans Urs von Balthasar in Sperare per tutti (1985), secondo cui la vera speranza dev’essere quella che l’inferno stesso possa svuotarsi e che ogni essere umano possa infine riconciliarsi con Cristo. “Una simile speranza illimitata è cristianamente non solo permessa, ma comandata” (Balthasar, 1994).

Bart Ehrman ricorda che, lungi dall’essere una concezione moderna, quella dell’apocatastasi, ossia della salvezza di tutte le anime, era stata promossa fin dal IV secolo dall’influente teologo Origene, da Gregorio di Nissa e dal Vangelo di Nicodemo, che risale proprio a quel periodo, che racconta della discesa agli inferi di Gesù per liberare tutti coloro che vi si trovano. “Ade stesso non aveva dubbi su ciò che era accaduto: era rimasto totalmente vuoto; non era rimasto nessuno”, riassume Ehrman. L’inferno vuoto, pur non essendo diventato – per ovvie ragioni – dottrina della Chiesa, anzi da sempre in odore di eresia, resta comunque per Ehrman come per Salvarani l’unica possibile dottrina escatologica del cristianesimo, poiché non avrebbe alcun senso la speranza di un futuro oltre la morte se questa non fosse associata alla salvezza di tutti.

 

Escatologie scientifiche

Ma cosa possono sperare, invece, coloro che non credono? Il filosofo della scienza Telmo Pievani, fervente evoluzionista e decisamente ostile a ogni discorso metafisico, ne ha scritto in un romanzo filosofico uscito nei mesi della pandemia di Covid, Finitudine (2020). Immaginando un lungo dialogo tra Albert Camus, ferito ma non ucciso nell’incidente stradale che nella realtà gli sarà fatale, e Jacques Monod, co-autori di un testo dedicato appunto al tema della finitudine in dialogo tra scienze esatte e filosofia esistenzialista, Pievani scandaglia le diverse escatologie scientifiche proposte per soppiantare quelle religiose, mostrandone le debolezze.

Innanzitutto la speranza di un’espansione umana nello spazio: che senso ha andare su Marte, se anche questo pianeta sarà ridotto in cenere quando il nostro sole diventerà una stella rossa gigante? E in generale che senso ha sperare di salvarci da questo destino diffondendoci nell’universo, se in base al secondo principio della termodinamica anche quest’ultimo è destinato a morire?

Si passa quindi a prendere in considerazione l’ipotesi dell’ibernazione, quella su cui si fonda il sogno del transumanesimo: mettere il proprio corpo – o perlomeno il proprio cervello – sotto ghiaccio per il tempo necessario a trovare una cura non per le malattie, ma proprio per la morte, e farci risorgere tutti. A quel punto entreremmo in una società post-morte in cui davvero, a differenza “l’ultimo nemico” sarà sconfitto e potremmo dire, con Paolo: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (1Corinzi, 15:55). Ma si tratta di fantasie, secondo Pievani, che si scontrano con il fatto che la macchina umana è pensata per invecchiare a partire dall’apice della sua capacità di procreare, segno che – come sostiene Richard Dawkins – non siamo altro che complessi custodi di “geni egoisti” il cui unico obiettivo è quello di riprodursi nel tempo. “La mortalità non è, sul piano evolutivo, una malattia da curare: è una condizione strutturale inscritta in ogni componente della nostra organizzazione fisiologica”.

Che dire, infine, della fede nel progresso? Non è forse vero che il progresso scientifico ci spinge sempre più in avanti, ogni volta superando limiti che sembravano invalicabili? “Anche questa, dopotutto, è paradossale rivolta contro la finitudine: sfidare con il sudore la natura ostile e avara da cui proveniamo e che ci condanna a essere mortali”, scrive Pievani. Ma alla fine il filosofo conclude che nemmeno le “magnifiche sorti e progressive” ci garantiranno l’immortalità rispetto alla finitudine. Il progresso è una falsa religione, che nasconde le sperequazioni sociali del mondo, che ha promosso il colonialismo, le guerre e il razzismo, senza contare che, da un lato, il progresso può sempre regredire, come mostra la storia anche recente, mentre dall’altro le soluzioni ai problemi che affliggono l’umanità tendono a creare nuovi problemi.

È qui che naufragano narrazioni ingenuamente ottimistiche, come quelle di Steven Pinker, che in libri come Illuminismo adesso (2018) ci mostra in tutta la sua grandezza la trionfale marcia dell’umanità verso il progresso. In realtà, se da un lato molte sfide vengono vinte (pensiamo a quanto sono calati i morti per malnutrizione, alla scomparsa del vaiolo, alla riduzione della povertà estrema), altre ne nascono, cosicché il progresso umano assomiglia molto più all’immagina camusiana di Sisifo, che non a caso ritorna continuamente nel libro di Pievani.

 

Che cosa possiamo sperare?

E allora, che fare? Cosa ci resta, una volta decostruite le grandi escatologie scientifiche? Pievani analizza diverse altre proposte, citando Lucrezio, l’epicureismo, la speranza monodiana che ci basti credere di ottenere l’immortalità attraverso la trasmissione del nostro DNA alla prole, o la visione camusiana del Sisifo felice. La conclusione a cui giunge, apparentemente poco originale (perché anticipata già molto tempo fa dall’essere-per-la-morte di Martin Heidegger), è però l’unica possibile. Perché non possiamo fingere che la morte non sia un problema, come suggerivano gli epicurei, perché è quel che stiamo cercando di fare da tempo senza riuscirci, ottenendo come unico risultato la defuturizzazione e la trappola del presente esteso, trasformatosi in una gabbia da cui non riusciamo a evadere, dove la realtà si ripete sempre uguale a sé stessa.

Piuttosto che accettare semplicemente la finitudine, dobbiamo considerarla una provocazione, uno scandalo, come il cristianesimo provò per primo a fare. La morte è la contraddizione della vita ed è l’unica certezza del nostro futuro. È in rapporto a essa che costruiamo i nostri progetti di vita e pertanto dobbiamo riservarle un posto centrale nella nostra riflessione. Se, come sostiene Rosa, l’accelerazione sociale è un tentativo di sostituire la promessa trascendentale della vita eterna, allora forse non dovremmo scartare così facilmente questa promessa e trovare il modo di realizzarla anche in un’epoca secolarizzata. Anziché rinunciare a sperare, bisognerebbe allora recuperare la domanda kantiana: che cosa dobbiamo sperare?

Sbaglieremmo a credere che la scienza riuscirà a liberarsi dalle sue fantasie escatologiche, perché esse sono strettamente connaturate all’impresa scientifica. La scienza, per sua natura, non può fare a meno di cercare di andare oltre la finitudine. I miti del progresso, dell’espansione spaziale o del transumanesimo non faranno altro che moltiplicarsi in futuro, perché l’essere umano non può fare a meno di sperare in un futuro migliore e in un affrancamento dalla morte, che mette fine a questa speranza.

Il rabbino e biofisico argentino Abraham Shorka, promotore del dialogo interreligioso, ha proposto di partire da un ripensamento delle categorie di “redenzione” e di “salvezza”, che potremmo usare anche in chiave laica per restituire alla società contemporanea una capacità di agire in vista del futuro. La redenzione (in ebraico geulah) e la salvezza (yeshuah) non significano esattamente la stessa cosa: la redenzione allude “al ritorno a una situazione ideale del passato che è stata compromessa o persa”, espressione della visione ebraica “di una società ideale dove la terra o i beni erano divisi in modo equo tra le famiglie per renderle autosufficienti”, e pur provenendo in ultima analisi da Dio richiede lo sforzo collaborativo degli uomini. La salvezza è invece la liberazione dell’essere “da un’oppressione inerente alla condizione umana”, e nei suoi confronti va riposta fede e speranza, essendo legata alla promessa di Dio. Shorka ritiene che con l’avvento del cristianesimo questi due concetti abbiano preso a divergere, mentre è arrivata l’ora di provare a unirli.

“Dalla prospettiva ebraica, il concetto di «redenzione» chiede e impone a entrambi di lavorare insieme per correggere, con l’aiuto dell’Eterno, ciò che ha preso una strada sbagliata. Senz’altro l’attuale pandemia globale, le crisi economiche, il razzismo e la divisione diffuse, come anche la fame e la mancanza di un tetto, esigono che cerchiamo di «redimere» la situazione, di adoperarci per restituire il mondo al disegno che Dio ha per lui. In questa comprensione del processo di redenzione, agli esseri umani compete un ruolo attivo perché, secondo i Saggi, agendo con giustizia e rettitudine diventano collaboratori di Dio nel completare la creazione dell’universo”

(Shorka, 2020).

Quello che possiamo sperare, dunque, per rispondere oggi alla domanda kantiana, non è riuscire a vincere la morte né finire in paradiso, ma operare nel mondo, generazione dopo generazione, nella speranza che il nostro agire sarà in grado di cambiarlo radicalmente e renderlo più simile a ciò che desideriamo, sapendo che forse questo sforzo non avrà mai fine ma nondimeno provandoci e sperando. Come conclude brillantemente Pievani:

“Bisogna immaginare Sisifo inquieto. Inquieto non dell’inquietudine di chi insegue piaceri innaturali e non necessari – fama, gloria, onori, potere e ricchezze – ovvero piaceri che non soddisfano bisogno reali e non eliminano il dolore, ma, al contrario, generano affanni e angosce. No: la sua, la nostra, è un’inquietudine costitutiva, una disobbedienza congenita. La finitudine ci lascia infatti senza requie, tormentati. La sappiamo invincibile, ma ciò nonostante la sfidiamo, e così facendo protestiamo contro la morte. Consapevoli della caducità di tutte le cose, ci attacchiamo alla vita fin dal primo vagito, tanto che ci sembra una preghiera il suggere della bocca nei cuccioli d’uomo e animale”.


Letture
  • Barbara Adam, Time and Social Theory, Polity Press, Cambridge, 1990.
  • Hans Urs von Balthasar, La mia opera ed epilogo, Jaca Book, Milano, 1994.
  • Hans Urs von Balthasar Sperare per tutti – Breve discorso sull’inferno – Apocatastasi, Zygmunt Bauman, Il teatro dell’immortalità. Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Jaca Book, Milano, 2017.
  • Rudolf Bultmann, Storia ed escatologia, Queriniana, Brescia, 2017.
  • Conferenza Episcopale Italiana, La Sacra Bibbia, San Paolo Edizioni, Roma, 2008.
  • Oscar Cullmann, Cristo e il tempo, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2005.
  • Helga Nowotny, Time: The Modern and Postmodern Experience, Polity Press, Cambridge, 1996.
  • Steven Pinker, Illuminismo adesso, Mondadori, Milano, 2018.
  • Hartmut Rosa, Accelerazione e alienazione, Einaudi, Torino, 2015.
  • Abraham Shorka, Su salvezza e redenzione, Osservatore romano, 21 dicembre 2020.
  • Jacob Taubes, Escatologia occidentale, Quodlibet, Macerata, 2019.

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Vincenzo
Wednesday, 19 May 2021 13:24
Si sarà pure come dici tu ma non puoi essere sicuro al 100% che dopo la morte non ce niente
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Alfonso
Monday, 08 March 2021 12:27
Due o tre cose del compagno Dawkins. Profondo conoscitore delle dinamiche demografiche, Dawkins è attento al movimento della specie e dove, o meglio fin dove tende. Quel selfish gene fornisce il fondamento, il Grund, dello altruism. Ogni volta che gli è stata sollevata la questione, ha detto che avrebbe potuto chiamarlo cooperative gene, e che forse sarebbe stato aggettivo più appropriato. In due recenti podcast, con Sam Harris (ora accessibile solo per Making Sense) e con Lex Fridman (https://youtu.be/5f-JlzBuUUU) tocca la questione del limite del cervello umano e prende le distanze da transumanismo e altre ipotesi idealiste. Da notare che considera ancora aperta la partita tra Wallace e Darwin riguardo utilità vs bellezza. La critica della ragion pratica non è passata invano, neanche per lui. Chiudo qui con alcuni anelli, e magari ci si imbatte in quello debole. Grazie
https://www.pbs.org/faithandreason/transcript/dawk-body.html
https://fs.blog/2017/03/richard-dawkins-selfish-gene/
https://yaneerbaryam.medium.com/non-technical-explanation-of-the-breakdown-of-neo-darwinian-gene-centered-view-7b96204c563e#.9j0xzfz0o
https://theconversation.com/where-does-altruism-come-from-discovery-of-greenbeard-genes-could-hold-the-answer-123208
https://www.manchester.ac.uk/discover/news/dawkins-fabled-cooperative-gene-discovered-in-microbes/
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Eros Barone
Sunday, 07 March 2021 00:10
La situazione in cui ci troviamo ragionando della morte, della salvezza e della redenzione è veramente paradossale, perché è caratterizzata per un verso dalla crisi e per un altro verso dalla rinascita di una visione antropomorfica della divinità. E' un fenomeno ancipite che conferma l’arguta osservazione di Voltaire, secondo il quale “Dio ha fatto l’uomo a sua immagine, ma l’uomo lo ha pienamente contraccambiato”. In effetti, ciò che ancora una volta sfugge a chi assume un’accezione astorica, ad un tempo metafisica e precritica, dell’idea di religione (mentre rappresenta un pregio dell'articolo in discussione), è che tale idea non è un dato acquisito una volta per tutte, inquadrabile e risolvibile in una tranquilla e pacificante concezione sostanzialistica, ma intrattiene complessi rapporti, che la storiografia, l’antropologia, la psicoanalisi, l’economia, il diritto, la sociologia e l’etnologia hanno scandagliato e in parte chiarito, con altre nozioni, come quelle di persona, proprietà, io, mente, anima, gruppo, famiglia, educazione, classe, ambiente, società e così via articolando e coniugando fra di loro i diversi rapporti e livelli. Occorre allora, da un lato, tener presenti, con Freud, le tre grandi ferite inferte al narcisismo universale (ossia alla concezione religiosa antropomorfica) dalla dottrina eliocentrica copernicana, dall’evoluzionismo di Darwin e dalla stessa psicoanalisi ("l'Io non è più padrone in casa sua") e, dall'altro, prendere atto che la problematica teologica appare a tal punto compromessa che si è resa perfino possibile, negli ultimi decenni, l’ipotesi di una ‘teologia senza Dio’. Ciò detto, mi limito a sottolineare che l’emotivizzazione del rapporto con Cristo-Dio, su cui puntano le correnti di impronta fondamentalista, mi sembra una scorciatoia, oltre che una semplificazione, entrambe quanto mai riduttive della complessità che il discorso di (e su) Dio oggi richiede. In realtà, volendo afferrare il nocciolo delle questioni che l'autore di questo interessante articolo si pone (e ci pone), dobbiamo riconoscere che, se è vero che non può esserci ateismo completo che ‘dopo’ il cristianesimo” (cfr. il fondamentale saggio di Augusto Del Noce), è altrettanto vero che, da un punto di vista generale e, per così dire, di evoluzione della specie, il laicismo moderno, di cui l’ateismo moderno è l’espressione più alta, segna l’avvento di una fase in cui l’esigenza, ancestrale nell’uomo, di una trasfigurazione religiosa dei suoi problemi di rapporto col mondo e con la propria esperienza può aprirsi ad un esito razionale. A questa altezza dei problemi che si pongono agli uomini dell’inizio del terzo millennio, in un’epoca che, come dimostrano la mancata ‘parusìa’ e l’esistenza stessa della Chiesa (ossia il mancato ritorno di Cristo redentore), è ormai oggettivamente post-cristiana, sarebbe auspicabile che la risposta alle domande di senso e la ricerca di un’alternativa religiosa fossero costantemente misurate sulla realtà dell’‘ateismo pratico di massa’. Si tratta di un presupposto che, nei paesi più evoluti del mondo, ha un’evidenza impressionante, ma che, come tutto ciò che è noto, non sempre è conosciuto. Si può descrivere tale presupposto in questi termini: milioni di uomini in Europa, tacitamente, senza dirlo, sono usciti dal cristianesimo e dalla Chiesa, si sono allontanati dalle prescrizioni religiose in materia di condotta individuale e sociale, hanno adottato modelli di vita completamente schiacciati sulla considerazione della dimensione mondana e immediata come criterio delle opzioni razionalmente valide, hanno smesso il cristianesimo come un vestito non adatto, hanno abbandonato il cristianesimo come se fosse un cimitero che si visita ancora occasionalmente, per motivi specialissimi, ma in cui non si abita e non si vive. Occorre pertanto riconoscere che il capitalismo, in quanto modo di produzione onni-avvolgente della società in cui viviamo, ha pressoché completamente svuotato di senso l’ideologia religiosa, privandola perfino di quella carica che era costituita dal suo potenziale alienante e realizzando letteralmente e fattualmente il trionfo del nichilismo nicciano. Nella situazione che in tal modo si è generata diventa allora sempre più esteso il territorio (fisico, spirituale, politico e sociale) dominato da quelle che Spinoza definiva “passioni tristi”: precarietà, senso di impotenza, paura. Sennonché la religione si nutre di questa paura. Essa vuole che il reale non sia vero e che la finzione sia più vera del reale. La morte che è vera non esiste, ma l’immortalità che non esiste è vera: così è ogni religione. La civiltà, che si è cristallizzata intorno a questo bisogno ontologico-sociale, dovrebbe ora imparare a liberarsene e a vivere secondo ragione. Ma la pandemia con le centinaia di migliaia di vittime che sta causando opera nel senso opposto, spingendo verso un ulteriore 'ritorno di Dio'. Da questo punto di vista, mi sembra però, pur con tutto il rispetto per la sincerità della fede che può animare tale 'ritorno' fra larghe masse di popolo, che non si possa parlare del superamento della ‘impasse’ che ho evocata, ma bensì di un’ulteriore espressione della crisi che attanaglia la cultura della nostra civiltà. Tale crisi si esprime nella drammatica carenza di orientamento e di finalità della cultura borghese in tutte le sue manifestazioni: carenza che nasce dall'intangibile postulato della intrascendibilità dell'orizzonte capitalistico, cui tale cultura non può rinunciare senza perdere la propria identità. Soltanto il socialismo, sostituendo il modo di produzione capitalistico con un’economia pianificata e centralizzata e, in prospettiva, con l’autogoverno dei produttori associati, è in grado di attuare il passaggio dalla competizione concorrenziale alla solidarietà organica della specie umana, dallo sfruttamento dissennato delle risorse naturali ad un uso razionale delle medesime. Esso rappresenta, per la stragrande maggioranza dell’umanità, l’unico effettivo superamento di tale crisi e della ‘Stimmung’ dualistica che la caratterizza: la paura e la disperazione in negativo, la ricerca di una vita degna di essere vissuta in positivo.
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Pantaléone
Monday, 08 March 2021 08:48
Per fare un passo in più, se la religione detta ciò che è prescritto in termini di condotta e poi sottilmente per la salvezza, è che c'è uno spazio necessario perché tutte le diviazioni abbiano luogo, se non ci fosse lo spazio per il furto, lo stupro, la violenza, infine tutte le calimità che si possono immaginare, queste cose non esisterebbero. Sottolineiamo anche che la religione e il religioso sono parte integrante della mistificazione e dell'alienazione, perché in concomitanza con il valore di scambio nasce ed evolve dalla nascita la merce in movimento. Tuttavia, per quanto riguarda il cristianesimo delle origini, ciò che è notevole è che infiamma gli strati lasciati nella società romana, in un movimento che potrebbe essere chiamato rivoluzionario, dal momento in cui il Cristo viene assunto dall'istituzione, è finita per questo episodio, il resto è solo un Chrit ossificato e totalmente svuotato della sua sostanza radiante. Le infinite domande sui fini dell'esistenza, a partire dai presupposti della gabbia d'acciaio del capitale, non hanno nessuna determinazione, nessun orizzonte emancipativo.Singolare interrogazione solipsistica, poiché è il dominio del falso che si diffonde indipendentemente dal soggetto, ciò che struttura il soggetto della lotta sovversiva è il Libro 1 del Capitale, è il feticismo della merce, è il famoso geroglifico della dissimulazione alienante della totalità della reificazione alla totalità dell'umanità.

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Vincenzo
Wednesday, 19 May 2021 13:14
e ancora vero tutto quello che dici ma non puoi essere sicuro al 100% che dopo la morte non ce niente
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AlsOb
Saturday, 06 March 2021 21:44
La conclusione dell'articolo, compilato come una rassegna scolastica sulla base di selezioni, è caratterizzata da apertura relativistica e da una contraddizione, "Quello che possiamo sperare, dunque, per rispondere oggi alla domanda kantiana, non è riuscire a vincere la morte né finire in paradiso, ma operare nel mondo, generazione dopo generazione, nella speranza che il nostro agire sarà in grado di cambiarlo radicalmente e renderlo più simile a ciò che desideriamo, sapendo che forse questo sforzo non avrà mai fine..."[code type="xml"], in apparente contrasto con la citazione di Shorka, "In questa comprensione del processo di redenzione, agli esseri umani compete un ruolo attivo perché, secondo i Saggi, agendo con giustizia e rettitudine diventano collaboratori di Dio nel completare la creazione dell’universo”.

La classe dominante è consistentemente razionale nel perseguire nella propria esclusiva sfera i propri desiderata (nell'immagine per esempio sinteticamente schizzata da F.S.Fitzgerald, per trascurare Smith, Marx e Gesù Cristo). Le classi inferiori sono solo bestie da controllare e da cui estrarre plusvalore.

Il Cristianesimo non è una semplice e tipica religione, ma l'adozione di una prospettiva teologica e prassi di fede secondo il canone teologale proposto da Gesù Cristo.
Il concetto della prossimità del Regno dei cieli riflette l'annuncio e testimonianza da parte di Gesù Cristo della vicinanza di Dio: Dio non solo è il creatore ma colui che accoglie l'uomo nella sua grazia e gloria, colui che si dona. Teologia e escatologia convergono.

Marx, che ha una solida formazione teologica, riproduce nel rappresentare il processo e percorso verso il comunismo, a compimento della configurazione spirituale più elevata e adeguata alla natura e comunità umana, la convergenza teologica e escatologica. Altrimenti nulla ha senso per dirla alla Hegel. (O, inutilmente, tutto vale e è giustificato).

Infine una citazione di J.M.Keynes, "There is the traditional epitaph written for herself by the old charwoman:
Don't mourn for me, friends, don't weep for me never,
For I'm going to do nothing for ever and ever.

This was her heaven.
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Pantlaléone
Saturday, 06 March 2021 15:12
Anche se sono d'accordo con te sulla sostanza, però, quando si parla di uomo si parla ovviamente dei presupposti dell'alienazione, in verità è importante e come affrontare le disuguaglianze, le ingiustizie e il dominio, nelle mie osservazioni pensavo più alla vita reale che all'agio materiale che non è certo automaticamente sinonimo di felicità, Penso che saremo dello stesso parere se vi dico che l'uomo è fatto per GODARE l'esistenza, ma un grande ma c'è un muro tra l'uomo alienato nel capitalismo reale e la vita reale, l'ecologia del capitale il sociale del capitale, le lotte del capitale, sappiamo quasi tutti che la scienza obbedisce alle conseguenze della tendenza alla diminuzione del tasso di profitto (scienza non sapienza). In realtà, finché i presupposti del capitale (lo stato denaro-salario) saranno dominanti, la menzogna che lo accompagna e il suo spettacolo, la falsa vita, saranno i nostri compagni, tuttavia, anche se il proletariato ha cambiato forma, non è più un operaio. Le forme sotterranee sono all'opera sotto la calma apparente, è pronta a riapparire in qualsiasi momento, e inoltre è la sua missione storica, l'avanguardia stessa sarà superata dal capitale nella pattumiera della storia, perché la morte è il capitale e niente altro. Il tempo accelerato della merce e la sua democrazia che diventa dittatoriale, infatti si mostra per quello che è veramente, i tempi di crisi irremissibile del capitalismo hanno almeno questo effetto, mentre il capitale ti costringe a maschere tutto si dimasche!

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Pantalone
Saturday, 06 March 2021 15:07
Certes d'accord avec vous sur le fond, cependant quand on parle de l'homme on parle évidement des présuposés de l'aliénation, en vérité il est important et comment de s'attaquer aux inégalités, à l'injustice à la domination, dans mon propos je pensais plus à la vraie vie plutôt qu'à l'aisance matérielle qui n'est certainement pas automatiquement synonyme de bonheur, je pense que nous serons du même avis si je vous dis que l'homme est fait pour JOUIR de l'existence, mais un grand mais il y a un mur entre l'homme aliéné en capitalisme réel et la vraie vie, l'écologie du capital le social du capital, les luttes du capital, nous savons à peu près tous que la science obéit aux conséquences de la baisse tendencielle du taux de profit ( la science pas la sapience). En réalté tant que les présupposés du capital (Etat argent salariat) sont dominants le mensonge qui l'accompagne et son spectacle, la fausse vie, sera notre compagne, cependant même si le prolétariat à changé de forme, il n'est plus usinier. Les formes sous-terraines sont à l'oeuvre sous le calme apprarent, il est prét à ressurgir à tout moment, et d'ailleurs c'est sa mission historique, l'avant garde sera elle même dépassée le capital à la poubelle de l'histoire, car la mort c'est le capital et pas autre chose. Le temps accéléré de la marchandise et de sa démocratie qui devient dictatoriale, en fait elle se montre pour ce qu'elle est en réalité, les temps de crise irrémissible du capitalisme on au moins cet effet, pendant que le capital vous oblige à vous masquer, tout ce démasque !
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Eros Barone
Saturday, 06 March 2021 12:52
Sono d'accordo con l'impostazione e la soluzione che Giulio Bonali, il quale è, ad un tempo, medico, comunista e marxista, dà al problema affrontato dall'autore di questo articolo. Dal canto mio, pochi mesi fa ho sperimentato con dolore e tremore, 'vivendo' la malattia. l'agonia e il decesso di mia madre (con tutte le limitazioni, inumane ma indispensabili, imposte dal regime sanitario in questo periodo di pandemia), che cosa possa significare l'incontro, per me non nuovo ma in questo caso terribilmente lacerante, con la morte, con la fase che la precede e con la fase che la segue (in concreto, dall'ospedale al funerale e da questo al cimitero). Sennonché si può dubitare che la morte non sia un fatto naturale, nemmeno nel senso fisiologico, poiché, come è noto, la scienza non è riuscita a dimostrarne la necessità organica e resta canonica la definizione 'negativa' di Bichat sulla vita come l'insieme di tutte le funzioni che si oppongono alla morte. Perfino un illuminista come Condorcet faceva notare, più di due secoli orsono, che noi non abbiamo nemmeno nessuna prova di non essere immortali perché nessuno è mai morto di 'morte naturale', come la famosa fiammella che si spegne (questo era ciò che desideravo per mia madre, mentre purtroppo le cose sono andate diversamente), ma solo di di morte violenta o di malattia, che è pure una forma di violenza. A oltre duecento anni di distanza siamo a quel punto, perché di morte naturale non è mai morto nessuno. Quindi la morte naturale non è un fatto, ma un postulato da attuare, e che se si potrà attuare (dubito che allora scopriremo, come sperava Condorcet, che siamo immortali), si potrà attuare solo in una società che si ponga questo compito.
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Pantaléone
Saturday, 06 March 2021 20:52
Domanda metafisica, se fossimo immortali niente avrebbe più senso, c'è l'essere e il non essere. Una supposizione, l'uomo preso nella sua naturalità non è né un individuo né una singolarità, non c'è come nella nostra società (capitalista individualista) una separazione, nella società naturale l'indvidu è il gruppo e il gruppo è l'individuo, essi formano un solo insieme omogeneo, tutto è vissuto direttamente nel movimento della sua produzione della sua riproduzione, ma c'è tutto da mettere in discussione, un esempio il nucleo familiare, costituito per valorizzare il capitale, nella comunità la famiglia si estende al gruppo, i figli non sono oggetti di proprietà privata, che vengono ad assicurare la coppia dal suo nulla esistenziale, da questo semplice fatto possiamo vedere che allontanandoci un po' dalla distropia che caratterizza la società capitalista contemporanea, possiamo avvicinarci meglio, capire meglio i riti di passaggio, non c'è paura della morte, certo si vive con tristezza, come ogni separazione, ma non nell'angoscia contemporanea. Siamo già morti perché il capitalismo è la morte incarnata, anti-vita, e per flagellarci inventiamo l'estensione della vita, non viviamo e vogliamo che duri, un'invenzione contemporanea per durare e durare in schiavitù.
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Vincenzo
Wednesday, 19 May 2021 13:15
sono d'accordo pure io con te ma non puoi essere sicuro al 100% che questa è l'unica vita che abbiamo e che dopo la morte non ce nulla
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Giulio Bonali
Saturday, 06 March 2021 10:05
Ma perché mai “non possiamo fingere che la morte non sia un problema, come suggerivano gli epicurei, perché è quel che stiamo cercando di fare da tempo senza riuscirci, ottenendo come unico risultato la defuturizzazione e la trappola del presente esteso, trasformatosi in una gabbia da cui non riusciamo a evadere, dove la realtà si ripete sempre uguale a sé stessa”?

Tanti ci riescono; più o meno “approssimativamente e limitatamente bene”, ovviamente, dato che la perfezione non esiste nella realtà, evitando col soccorso della ragione di di cadere nella “defuturizzazione “, ecc., ed essendo semplicemente ben consapevoli che per ognuno individualmente il futuro oltre la morte non c’ é (e dunque non ha bisogno di essere né può essere “eliminato”: nessuna possibile "defuturizzazione") ed accettandolo serenamente, cercando di vivere di gustare la vita realmente possibile senza pretendere stoltamente ed irrazionalisticamente l’ impossibile.

La morte non é “è la contraddizione della vita”!

Contrario della vita é “non-vita”, ovvero “mineralità”

La morte é il invece contrario della nascita, ed entrambe sono ineludibili aspetti e “parti integranti” della vita stessa (anche il buon Francesco ringrazia e benedice il Signore, fra gli altri altri beni della vita che ci avrebbe donato, anche per “sorella morte, sia pure per lui soltanto corporale)”.

E dunque può (e deve, se si vuol vivere bene; relativamente, come é ovvio, ovvero il meglio che sia possibile) essere serenamente accettata, come qualsiasi altra espressione di “finitudine”.

L’ autore di questo scritto afferma che “Se, come sostiene Rosa, l’accelerazione sociale è un tentativo di sostituire la promessa trascendentale della vita eterna, allora forse non dovremmo scartare così facilmente questa promessa e trovare il modo di realizzarla anche in un’epoca secolarizzata”.
Ma l’ illusione di un’ illimitata “accelerazione” é una falsità ideologica scientista al servizio delle classi dominanti, che inevitabilmente si scontra con la limitatezza delle risorse naturali realisticamente disponibili all’ umanità; ignoranza di questa limitatezza che tende, come conseguenza inevitabile, a condurre inesorabilmente alla deprecabilissima “estinzione prematura e di sua propria mano (Sebastiano Timpanaro; evidenziazione in corsivo mia)”, in luogo dell’ ineludibile ed accettabilissima estinzione naturale.

Le “fantasie escatologiche” con le quali “la scienza” pretenderebbe “ di “cercare di andare oltre la finitudine” non sono affatto proprie della scienza correttamente intesa, ma invece di quella interpretazione ideologica irrazionalistica (al servizio delle classi dominanti) della scienza stessa che é lo scientismo.

La lotta per un futuro migliore e più giusto può ben condursi sulla sorta di una sobria, razionalistica, “epicurea” accettazione della morte e della “finitudine” per lo meno non meno bene ed efficacemente che inseguendo categorie irrazionali come quelle di “redenzione” e “salvezza” (che ben vengano, comunque, nella misura i cui masse umane se ne servono e ne traggono ispirazione in questa lotta).



A Pantaléone obietto che non esiste alcuna “infinita interrogazione che non ha via d'uscita e nessun senso se non quello della sottomissione al valore di scambio” (esiste invece anche la possibilità di una via d’ uscita rivoluzionaria in grado di superarlo); e che inoltre l’ esito da lui paventato (la non abolibilità dello stato di cose presente) non nasce affatto “Dal semplice fatto che l'uomo ha lasciato la sua naturalità e il sacro (Parmenide Empédocle, Talès e altri filosofi del primordiale”, che invece ritengo sostanzialmente positivo, per quanto ampiamente incompiuto; ma invece, secondo me, sostanzialmente (e non: semplicisticamente, “meccanicisticamente”) dallo sviluppo delle forze produttive umane e dall’ inadeguatezza oggettiva rispetto ad esso degli assetti sociali attualmente dominanti.
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Vincenzo
Wednesday, 19 May 2021 13:16
concordo con tutto ciò che hai scritto ma non e che se alcune cose non le vediamo allora vuol dire che non esistono tipo un qualcosa dopo la morte
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Pantaléone
Thursday, 04 March 2021 20:22
Un argomento vasto che richiederebbe di passarci una buona giornata da soli, per trarne il massimo, molto sinteticamente, possiamo datare la nascita delle religioni a partire dal neolitico, il sacro viene a prendere il posto del sacrale, così come nasce la filosofia da cui trassero ispirazione anche i padri della chiesa, Sant'Agostino e la diffusione del pensiero greco nell'occidente medievale per esempio. San Tommaso d'Aquino e Aristotele. Quello che si può dire è che c'è un'apparente divisione tra religione e scienza, per esempio la teoria del big bang. Collapsologia e tempi finali. Dal semplice fatto che l'uomo ha lasciato la sua naturalità e il sacro (Parmenide Empédocle, Talès e altri filosofi del primordiale 1,) inizia l'infinita interrogazione che non ha via d'uscita e nessun senso se non quello della sottomissione al valore di scambio, poiché l'uomo è ormai separato, vive nello schizzo che è la madre dell'angoscia, da dove nasce un interrogativo sulla sua fine, normale poiché l'uomo non vive nel movimento reale, ma nella sua testa, in una proiezione soggettiva, l'uomo è fatto per vivere la vita nel godimento e nel movimento, animale emminament sociale. Disomizzato più morto che vivo, che ha paura di morire. Il capitalismo è l'antinaturalità finita, la falsa esistenza. Una sfumatura, però, per il cristianesimo delle origini, non quello di Nicea, che non sarà sviluppata.

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Vincenzo
Wednesday, 19 May 2021 13:23
Sarà pure come dici tu ma non puoi essere sicuro al 100% che dopo la morte non ce niente
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