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doppiozero

A.G. Gargani: siamo solo al principio

di Ugo Morelli

unnameddrtghjk“…l’unico modo fertile di ‘conservarsi in vita’
è quello di complicarla”

[Aldo Giorgio Gargani]

Con lo stile unico di chi la filosofia la vive e non solo la pensa e la scrive, ad Aldo Giorgio Gargani giocavano le lacrime dentro agli occhi, quando ci confidava, negli ultimi anni, un evento. Una sera, alla fine di un incontro, mentre il suo amato allievo Alfonso Maurizio Iacono usciva di casa, al momento del saluto, si era scoperto a dirgli: chiuditi bene il cappotto, c’è parecchio freddo stasera.

Senza forzare la mano all’intimismo, che in nessun modo riguardava Gargani – prova ne sia la scrittura di Sguardo e destino [Laterza, Roma-Bari 1988], nonostante le incomprensioni e gli usi impropri che spesso non ne hanno riconosciuto il valore di straordinaria testimonianza filosofica – Iacono inizia il contributo all’importante e meritorio gruppo di saggi che la rivista aut aut [n.393; marzo 2022] dedica al filosofo suo maestro, con una nota personale. Quella nota assume uno spessore e una rilevanza che parla di Gargani e della sua ricerca per abitare quello spazio creaturale che si colloca irriducibilmente tra il pensiero e la vita. Oltre ogni cerimoniale della scienza e criticando ogni feticcio epistemologico. Posizione che molto gli sarebbe costata in termini di un’emarginazione e una distrazione per uno dei più importanti filosofi del ‘900, che tuttora persiste.

Abitare il rischio del pensiero, in modo vibrante e febbrile, è la distinzione del percorso di vita e ricerca di Gargani.

Intersoggettività, creaturalità, capacità di dare principio a inedite forme di vita, erano venute a maturazione profonda nella sua esistenza e nel suo pensiero, con una riscoperta dell’ordinario, come approdo, ancorché provvisorio, di un percorso di ricerca tra i più profondi della seconda metà del ventesimo secolo e dell’inizio del ventunesimo.

Un pensiero del divenire, quello di Gargani, teso a cogliere più che l’essenza, il senso delle cose e dell’esperienza, il senso della verità che viene e i suoi molteplici e contingenti modi di venire. Come avrebbe scritto in un saggio di particolare profondità nel 2006: “In luogo della verità come rispecchiamento, come glassy essence, diventa più interessante il gioco della prassi, per esempio inventare o escogitare una società più bella e più giusta, anziché scoprire la società più vera. Si tratterà di un'etica senza filosofia, senza teoria, senza teoremi, lemmi e scoli, sarà qualcosa che solo la prassi (non per questo cieca) potrà generare entro i vincoli dei contesti e delle situazioni storiche. E il vero, allora, lo perdiamo? Ma no, il vero sarà, come sempre sarà e come è sempre stato, la conseguenza tardiva di un gesto sociale che l'ha preceduto, che gli ha preparato il posto da riempire insieme all'ordine della sua costituzione” [Il vincolo e i codici simbolici, in A.A. V.V., Il vincolo, Raffello Cortina Editore, Milano 2006; p. 86].

Non è di poco significato la corrispondenza con quanto avrebbe sostenuto qualche anno dopo il suo amico e compagno di strada Carlo Ginzburg, risuonando con Gargani nello spirito del tempo: “Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato. Alla fine, l'attualità emergerà di nuovo ma in un contesto diverso, inaspettato” [C. Ginzburg, Paura, reverenza, terrore. Cinque saggi di iconografia politica, Adelphi, Milano 2015; p. 53].

Proprio con Ginzburg e con alcuni tra gli esponenti più avanzati della trasformazione epistemologica della seconda metà del ’900, Gargani, muovendosi tra frontiera e margine nella comprensione della vita e del tempo, ha sviluppato la ricerca che ha rappresentato e rappresenta una svolta del pensiero, curando e pubblicando Crisi della ragione nel 1979 [Einaudi, Torino]. Alla perfezione dell'ordine ideale assoluto e già predeterminato delle cose, a quel programma di implacabile disciplinamento imposto dalla ragione, Gargani aveva colto il contrapporsi storico di atteggiamenti e scelte, di nuovi linguaggi e nuove grammatiche, che stavano creando progressivamente la consapevolezza dei procedimenti costruttivi delle forme del nostro sapere, mettendo contemporaneamente in crisi la pretesa di assoluto del sistema della razionalità classica. A quell’ordine logico inesorabile si era impegnato a sostituire la vitalità dell'esperienza che mette in crisi ogni categorizzazione.

Così facendo si era disposto ad abitare un rischio teoretico, che sarebbe diventato la cifra del suo percorso esistenziale e intellettuale. Percorso che in Gargani era sostanzialmente unitario. In ogni momento della sua compagnia, e in qualsiasi circostanza, lo contraddistingueva uno stile unico e inimitabile in cui vita e pensiero trovavano una sintesi rara e inaudita. Quel rischio teoretico consisteva nel cercare di abitare lo spazio angusto e straordinario in cui far convivere passione ed esattezza. La critica alle pretese teologiche metafisiche della ragione, si è tradotta in Gargani costantemente nella ricerca delle possibilità di nuove ragioni, abitando continuamente e tenacemente uno spazio di frontiera nel quale bisogna cercare sempre e non bisogna crederci mai.

Il proposito è ritrovare un mondo che, invece di risultare fondato teoricamente, sia un mondo che deve essere riconosciuto e accettato. Il compito è restituire estetica e bellezza alla conoscenza, liberandola dai “crampi” e dalle nebbie della metafisica.

Con questo orientamento la vita e la ricerca di Gargani hanno seguito il proposito di abitare la filosofia e l'incertezza del cercare, ritenendo che nulla è inesorabile e irrevocabile nell'umana esperienza, anche se non è sostenibile che tutto è vero e tutto è falso allo stesso tempo. il compito è indagare le condizioni per transitare dalla verità al senso della verità, e per questa via individuare nuove forme di razionalità, convocare cioè una forma diversa di razionalità come ricorsività stocastica aperta al futuro.

Con lo stile e il taglio originale di chi ha il coraggio di essere e che ha sempre caratterizzato il suo incedere, nella scrittura e nella narrazione verbale – dove emergeva quella sua vocazione teatrale, effettivamente sperimentata e che non perdeva occasione di attivare – nel saggio introduttivo di Crisi della ragione, Gargani manifesta la sua vocazione a segnare l’epoca in una modalità anticipatoria ancora tutta da comprendere, quando nell’incipit del suo contributo scrive: “La razionalità, di cui si dichiara la crisi sul suolo delle esperienze culturali e scientifiche così come su quello delle esperienze sociali, corrisponde a un’immagine nella quale non siamo più disposti a rappresentare e a disciplinare i fenomeni della nostra condotta intellettuale. Come dire che un intero sistema di regole, requisiti e modelli di tale condotta è stato, ed è tutt'ora, sottoposto a revisione. Di un paradigma di razionalità sanzioniamo la crisi e ne definiamo un'immagine perché ne siamo già al di fuori, avendone tracciato perlomeno implicitamente i limiti” [p. 5].

Non è frequente una così chiara presa di posizione che si assume la responsabilità di voltare pagina ascoltando l’epoca e il suo ritmo e dandole voce.

Viene in mente il timbro risoluto del verso di un abitatore coraggioso e tragico del proprio tempo, Osip Mandel’stam, quando recita:

Per scioglier l’epoca dalle catene,
per dare inizio a un mondo nuovo
bisogna, a mo’ di flauto, unire insieme
le piegature dei nodosi giorni.

[Ottanta poesie, a cura di R. Faccani, Einaudi, Torino 2009]

L’estetica dell’essenziale che emergeva in ogni suo tratto, dall’eleganza nel vestire al profumo di vetiver, era tutt’uno con la struttura e la forma del pensiero di Gargani, che si consegnava senza risparmio al narrarsi, in contributi di particolare bellezza e potenza narrativa, come Sguardo e destino [Laterza, Roma-Bari 1988], e al coraggio di essere, come volle intitolare uno dei suoi libri [Il coraggio di essere, Laterza, Roma-Bari 1992].

Nella sua originaria, originale e costante frequentazione del pensiero di Ludwig Wittgenstein, Gargani ha praticato, oltre che frequentarlo intellettualmente, il monito che lavorare in filosofia è realmente e principalmente lavorare su se stessi.

Il pensiero è un’azione che viene portata in una certa direzione, con la forza dell’intuizione e della convinzione.

Non è, invece, lo srotolarsi di passaggi previsti in anticipo.

Se immaginiamo una necessità capace di forzare il passaggio successivo attraverso un meccanismo sui generis non cogliamo la creatività e la cogenza del pensiero.

“Il pensiero, allora, è la tessitura concreta formata da una costellazione imprevedibile di eventi, di scene diverse, di segni di passioni, e se si togliessero questi eventi, queste scene, questi segni diversi, particolari introdotti dal caso e dalle accidentalità della vita, dai frammenti che ognuno vive in questa esistenza, non rimarrebbe ancora qualcosa che potremmo chiamare ‘il pensiero’. Il pensiero è lo stato della coesistenza di questi tratti, di questi segni di eventi, di queste figurazioni di una scena della vita, dei segni delle loro passioni.” [A. G. Gargani, Stli di analisi. L’unità perduta del metodo filosofico, Feltrinelli, Milano 1993; p. 56].

Gargani si è profondamente impegnato a istituire un confronto tra le attività intellettuali come strategie per rintracciare ordini prestabiliti al fine di scoprire verità già inscritte nell’ordine del mondo con leggi eterne, e un lavoro di liberazione della ragione dai fondamenti e dalle leggi eterne per riconsegnare il pensiero alla propria libertà incerta e sorprendente. L’attrito del pensiero, come titola il numero di aut aut la serie di saggi a lui dedicati, traspariva in ogni suo contributo verbale in lezioni e seminari, richiamando Wittgenstein:

«Siamo finiti su una lastra di ghiaccio dove manca l’attrito e perciò le condizioni sono in un certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare, dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro» [L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, (1953), Einaudi, Torino 1983; Parte prima, § 107, p. 65].

Secondo Gargani di fronte alla crisi, non si tratta di evadere, ma di estendersi. La realtà è una presenza non aggirabile. Da qui la sua critica alla deriva cosiddetta post-moderna: se si può sostenere che ogni rappresentazione eccede la cosa rappresentata rappresentandola, ciò vale a patto che si mantenga l’attrito tra rappresentazione e cosa rappresentata, la resistenza della cosa rappresentata sulla rappresentazione. Che si combini, appunto, passione ed esattezza.

Gargani non «fa filosofia» ma la vive. Come Ferruccio Masini aveva scritto di Ingeborg Bachman:

«La Bachman non racconta Berlino, ma la scrive…». [F. Masini, ’Il geroglifico d’anima di I. Bachman’, in Il travaglio del disumano. Per una fenomenologia del nichilismo, Bibliopolis, Napoli 1982; pp. 181]

Uno dei meriti degli studi dedicati a Gargani da aut aut, è aver convocato a riflettere cinque dei suoi più attenti studiosi e allievi, che hanno scelto di approfondire, con molte interdipendenze tra i contenuti, alcuni degli aspetti fondamentali del suo pensiero. Fin dalla Premessa, Igor Pelgreffi pone la questione centrale: “Gargani si è collocato al confine tra la forma e la vita, là dove l'attrito del pensiero non è soltanto immaginato ma è esperito e, in quanto esperito, prende corpo nel discorso della filosofia”.

Sarà Manlio Iofrida, che a lungo si è occupato del pensiero di Gargani, a evidenziarne l’impegno critico per sviluppare l’antinichilismo e la sfida alla ragione sul suo terreno per, estrarne, dalle pieghe della sua crisi, le forme più evolute per la contemporaneità. Il percorso di Gargani prende le mosse dall’impegno a riportare la scienza dal cielo alienato delle spiegazioni puramente cognitive alla terrestre concretezza delle forme di vita. Iofrida evidenzia come il programma di Gargani non miri a ridurre la scienza a un costrutto arbitrario, umano, soggettivo, o a un'epoca della metafisica dominata unilateralmente dal soggetto, ma tenda a revocare l'universalità del modello “oggetto-designazione” e a mostrare come l'oggettività della scienza sia sempre in nesso a dei costrutti linguistici. Una valorizzazione della concretezza umana e della nostra finitezza consente a Gargani di sostenere che non siamo nel nulla, ma siamo nel qualcosa, con le sue ombre, e di desumere da qui percorsi di messa in evidenza della varietà dei volti della verità e della razionalità. Gargani ha lavorato e insistito per lo sviluppo di una filosofia che aiutasse gli uomini a recuperare degli spazi di libertà, che riscoprisse quanto essi inconsapevolmente abbiano saputo costruire e, dunque mostrasse loro quanto siano “appena al principio” di quello che possono fare.

Alfonso Maurizio Iacono, nel suo saggio, si concentra sul lato liberatorio di un sapere senza fondamenti per cercare di evidenziare la critica ai feticci epistemologici e ai cerimoniali della scienza da parte di Gargani, che non amava scorciatoie storiciste e ancora meno collegamenti diretti fra un evento e una teoria, e tuttavia è stato impegnato ad approfondire il nesso tra evento e teoria, tra vita e conoscenza, tra passione ed esattezza. Sviluppando una critica al rapporto tra valore di scambio e valore d’uso della merce, Iacono riporta la riflessione alla disposizione di Gargani a criticare il linguaggio come reificazione e come abito, e a non rinunciare mai all’idea che ogni immaterialità abbia sempre come base e referente la materialità. Secondo Iacono, con Gargani la crisi della modernità ha acquisito tratti liberatori e proprio mentre contestava anche le pratiche dei linguaggi, egli non generalizzava fino a pensare che tutto era linguaggio, al punto da perdere di vista il senso pratico e concreto delle forme di vita e della loro critica. Gargani, infatti, si muoveva nel solco di un'indagine che cercava un altro tipo di profondità, non per rifiutare la ragione ma per trovare un diverso modo di praticarla. Alla ricerca di nuovi modi di concepire la rappresentazione denunciando l'idea che vi sia corrispondenza tra questa e la realtà, Gargani non ha mai accettato l'idea che la crisi della ragione moderna si trasformasse né nel suo rimpianto né nel suo contrario. La questione cruciale, secondo Iacono, sta nel linguaggio e nella non corrispondenza tra linguaggio e realtà. La rappresentazione eccede la cosa rappresentata, rappresentandola, e la stessa cosa resiste alla rappresentazione.

Secondo Piergiorgio Donatelli, è dall’approfondimento della crisi di un modello di razionalità che scaturisce il percorso di Gargani. Dal cedere e graduale dileguarsi di quel modello, emergono nuove forme di razionalità che costituiscono progressi fondamentali della conoscenza, dei rapporti umani, della ricerca della bellezza e della felicità. Per Gargani non si trattava di decostruire la ragione per seguire esclusivamente la strada della critica e dello smascheramento, perché nel momento in cui la ragione appare dispotica e oppressiva nelle sue varie complicazioni, ciò che non va è il motore interno della ragione stessa: è lì che dobbiamo intervenire per reperire le risorse critiche che ci servono. Alla ricerca della varietà indefinita dei volti della ragione, rilevanti diventano le pratiche linguistiche che hanno un carattere esplorativo e non fissano in anticipo le loro applicazioni future.

Non produciamo nuovi sensi per magia, facendo tutto da soli, ma lo facciamo perché riusciamo a muoverci dentro il linguaggio. Non siamo prigionieri dei codici linguistici che utilizziamo per pensare, così come non siamo prigionieri della sega e dei chiodi che utilizziamo per costruire un tavolo. La conoscenza e in generale il movimento del pensiero non ubbidiscono a quella che Gargani chiama un'immagine teologica della conoscenza, smascherando quell'inclinazione e ricercando le condizioni del lavoro di liberazione della ragione dai fondamenti e dalle leggi eterne per riconsegnarla alla propria libertà incerta e sorprendente. Il pensiero è azione che reca il peso e la profondità umana senza confine dell'agire in un mondo che ci coinvolge, ci interessa, ci sorprende. Se, invece, immaginiamo una necessità capace di forzare il passaggio successivo attraverso un meccanismo sui generis non cogliamo la creatività e la cogenza del pensiero.

Ubaldo Fadini si concentra su un altro vertice della ricerca di Gargani, di matrice decisamente musiliana, quale è il senso del possibile. Il linguaggio mostra dal suo interno ciò che lo trascende, un trascendente rovesciato. Per sporgersi dal linguaggio nel linguaggio, per fare del pensiero una sperimentazione contro i fatti di cui si fa carico la scrittura, per le tensioni, le esigenze, per apprezzarne le possibilità, Gargani si affida all'istanza veritativa della scrittura implicita, evidenziando come non ci sia più un mondo da rispecchiare e non esista alcuna certezza da riflettere alla quale appellarsi. Soltanto con la scrittura si può tentare di incidere su quei crocicchi ingannevoli delle vicende di vita dalla cui disarmonia di fondo può scaturire una speranza di esperienza ulteriore, magari insensata ma proprio per questo indomabile.

La necessità di una nuova applicazione alla nostra vita è stata, in base all’analisi di Igor Pelgreffi, un’esigenza costante della ricerca di Gargani. Noi, infatti, ripetiamo i nostri comportamenti, anche intellettuali, molto più spesso di quanto non li modifichiamo. Costruiamo così abiti intellettuali che appaiono come forme di vita e di ripetizione, caratterizzate da due dimensioni fondamentali: quella dell'esperienza comune e quella di una strutturazione metodica del caso. Eppure, le nostre espressioni non risultano tracciate da un dispositivo d'ordine e da un modello grammaticale esclusivo e inesorabile. Ci esprimiamo sempre all'interno di una variabilità e di una revocabilità dei modelli di comunicazione che sono connessi all'organizzazione delle nostre forme di vita. Non si tratta pertanto di constatare ciò che esiste, ma di manifestare un atteggiamento che è al tempo stesso etico, percettivo, emotivo e intellettuale nei confronti di ciò che esiste. Si tratta di performare l’esistente, per così dire, dall’interno. Si tratta di andare oltre la musica facendo ancora musica, come Gargani argomenta riferendosi a Schoenberg e alla musica dodecafonica.

La fenditura nella camicia di forza dell’abitudine e della stereotipia è la via per andare verso nuove forme di razionalità. Operando l’alterazione dell’esistente, costruendo e lasciando emergere il possibile, possiamo proporci come accordatori di differenze.

In quel libro incontenibile che è il suo ultimo, Wittgenstein. Musica, parola, gesto [Raffaello Cortina Editore, Milano 2008], Gargani si propone, infatti, di mostrare come conoscere sia confrontare i fenomeni con i modelli prescelti e non la lettura in trasparenza delle cose così come esse sono in se stesse. Riconosciamo così che non c'è la sensazione da un lato e la parola dall'altro che la denota, rispecchia, rappresenta e raffigura. L'enigma dell'esperienza è che essa risulti esprimibile. Risulterà esprimibile perché risuona e se non risuonasse pre-linguisticamente potremmo noi esprimerla? Del resto, essere soggetto è soltanto essere un utente del linguaggio, senza residui, per così dire, retrostanti.

La svolta impressa da Wittgenstein nella sua grammatica filosofica riguarda l'espressionismo linguistico al posto dell'epistemologia, e Gargani, unitamente a Stanley Cavell, farà sua questa prospettiva nel momento in cui si accinge a sostenere che il linguaggio non ha un davanti né uno sfondo, ma è una forma di vita costituita dall'intima connessione tra pratica simbolica, dintorni dell'agire, e mondi sociali e naturali di esistenza. L'errore sarebbe assecondare la tentazione di voler vedere il proprio ideale o il proprio abito mentale conficcati nella realtà. Del resto, il dubbio viene dopo la credenza e non è facile da esercitare in quanto l'espressione linguistica non coglie in trasparenza il fatto al quale si riferisce: l'espressione linguistica sta accanto al fatto. È a quel livello che si situa l'ambiguità associabile al linguaggio transitivo, e l'ambiguità ha questo di distintivo, che genera estensioni, non ribatte il termine su se stesso. Conoscere perciò è raccogliere insieme, riconducendo l'insieme delle possibilità che sono disponibili in un gioco linguistico. Sono le possibilità inerenti al gioco linguistico che dischiudono le possibilità del pensiero, così come è nell'atto creativo che si dischiude la creazione.

“Hanno questo di bello gli anni, che corrono veloci!”, imitavi così Massimo Cacciari, caro Giorgio, sorridendo. Veloci sarebbero scorsi, troppo veloci, gli anni, ma il tempo non fa che accrescere il valore del tuo pensiero.

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