Rivoluzione francese e temporalità del soggetto collettivo: tra Sieyès e Marx
di Luca Basso
In L. BASSO , S. BRACALETTI , M. FARNESI CAMELLONE , F. FROSINI , A. ILLUMINATI , N. MARCUCCI , V. MORFINO, L. PINZOLO , P.D. THOMAS , M. TOMBA: Tempora multa. Il governo del tempo, Mimesis, 2013
1. Il problema della Rivoluzione francese
Il punto di partenza del discorso consiste nell’idea secondo cui la Rivoluzione francese, pur dovendo venir interpretata storicamente, in quanto elemento in sé concluso, attiva però una serie di aspetti che vanno al di là di un’epoca specifica, determinata. Ci si trova di fronte a un vero e proprio ‘campo di battaglia’ dell’analisi storica e politica: posizionarsi rispetto a tale avvenimento viene a rivestire una funzione cruciale anche per la comprensione della situazione presente. Inoltre, dal punto di vista storico in senso stretto, è necessario rilevare che la Rivoluzione francese costituisce un evento complesso, in cui si intrecciano varie rivoluzioni, quella del Terzo Stato, quella dei sanculotti nelle città e quella dei contadini nelle campagne. In tal senso, la vecchia interpretazione marxista della Rivoluzione francese come rivoluzione borghese1 coglie sicuramente un aspetto del problema, ma risulta non del tutto adeguata per farne emergere i segni distintivi. Tra l’altro, vari studi2 hanno rimarcato che, a rigore, a dare inizio alla rivoluzione furono gli officiers, e quindi la borghesia intellettuale e delle professioni, e non tanto la borghesia ‘capitalistica’. Occorre, quindi, problematizzare il plesso Rivoluzione francese-sviluppo capitalistico: non appare così del tutto evidente, indiscutibile la tesi, secondo cui la Rivoluzione francese portò a realizzazione gli interessi borghesi. Per quanto concerne gli studi sulla Rivoluzione, è necessario richiamare, dopo alcuni importanti testi ottocenteschi (si faccia riferimento, ad esempio, a Thiers, Michelet, Tocqueville), la Storia socialista della Rivoluzione francese di Jaurès, apparsa per la prima volta tra il 1901 e il 1904, che esercitò un grande influsso, in particolare nello scenario francese3.
Nonostante alcuni suoi limiti, rimane insuperato il vecchio lavoro di Georges Lefebvre, il quale concepì la Rivoluzione francese come rivoluzione borghese, ma evitando schematismi e rigidità, e fornendone un’interpretazione multicausale e articolata: la natura borghese della rivoluzione non escludeva antagonismi e compromessi tra le diverse componenti4. Interessante, nell’analisi lefebvriana, è l’intreccio fra lotte nelle campagne e lotte nelle città: le prime, in molti casi, possedevano un carattere non solo antifeudale, ma anche anticapitalistico5.
Qui esaminerò la ‘posta in gioco’, l’enjeu della Rivoluzione francese a partire da due punti prospettici: quello di Sieyès e quello di Marx. Il primo, Sieyès, teorico decisivo della Rivoluzione, ‘ideologo’ del Terzo Stato, giocò una funzione cruciale nei primi anni della Rivoluzione, il secondo, per molti versi, prese a modello della rivoluzione comunista proprio la Rivoluzione francese, considerata come la Rivoluzione per antonomasia, il paradigma di tutte le rivoluzioni. Ma i due pensatori verranno messi a confronto a partire dalla questione della temporalità politica. Si tratta di far emergere la netta differenza, a livello di temporalità, tra il soggetto collettivo di Sieyès e quello di Marx, proprio a partire dal comune riferimento alla Rivoluzione francese.
2. Sieyès e la Rivoluzione francese
Inizio la trattazione con l’analisi del testo dell’abate Joseph-Emmanuel Sieyès, Qu’est-ce que le Tiers-État?, Che cos’è il Terzo Stato, opera che è stata pubblicata nel gennaio 1789, e che ha svolto una funzione decisiva all’interno della Rivoluzione francese6. Sieyès, nato da famiglia borghese, esercitò un ruolo fondamentale nella trasformazione degli Stati generali in Assemblea Nazionale e si oppose con Mirabeau all’ordine del re di sciogliere l’assemblea il 23 giugno 1789. Poi si allontanò dal Club dei Giacobini per aderire alla ‘Società dell’89’, fondata nel ’90 da Condorcet, Lafayette e Mirabeau su sua ispirazione. Il 17 giugno 1790 Sieyès venne applaudito dalla folla parigina radunatasi nel Palais Royal per celebrare il primo anniversario dell’autoproclamazione da parte della Camera dei Comuni in Assemblea Nazionale. La celebrazione era stata organizzata dalla ‘Società dell’89’. Il primo aspetto interessante da sottolineare è che l’opera in questione, Che cos’è il Terzo Stato?, che è stata sempre interpretata come il manifesto della Rivoluzione, è presentata invece dall’autore come un testo di scienza politico-costituzionale, in cui un ruolo decisivo viene attribuito alla problematica della limitazione del potere legislativo. In realtà, Sieyès non poteva venir apprezzato né dai nostalgici dell’ancien régime né dai fautori del Terrore. L’opera oggetto della presente analisi, Che cos’è il Terzo Stato?, è preceduto da altri due testi particolarmente significativi, le Osservazioni sui poteri e sui mezzi e il Saggio sui privilegi: quest’ultimo si fonda sulla negazione dell’idea secondo cui il privilegio conferisca al suo detentore una posizione di preminenza nell’ambito della nazione. Il segno distintivo del privilegio è di essere al di fuori del diritto comune7.
Il celeberrimo incipit di Che cos’è il Terzo Stato? è il seguente: «Che cosa è il Terzo Stato? – Tutto. Cosa ha rappresentato finora nell’ordinamento politico? – Nulla. Che cosa chiede? – Di essere qualche cosa»8. Qui si sottolinea la necessità del riconoscimento politico del Terzo Stato, il quale si configura addirittura come Tutto9. In questo senso, il nesso tra Terzo Stato e nazione è stringente. Ma «che cosa è una nazione? Un corpo di associati che vivono col vincolo di una legge comune [loi commune] e sono rappresentati dallo stesso legislativo»10. Il riferimento costitutivo alla legge comune, e quindi all’elemento della nazione, implica, per Sieyès, una critica radicale alla logica dei privilegi11. In rapporto al Terzo Stato vengono avanzate tre richieste. La prima è che i rappresentanti del Terzo Stato vengano scelti fra i cittadini che appartengono al Terzo Stato stesso12. La seconda richiesta è che i deputati del Terzo Stato siano in numero uguale alla somma degli altri due ordini13. Infine il Terzo Stato esige che «gli Stati generali votino non per Ordine ma per testa»14. Per riprendere la prima istanza, occorre osservare che Sieyès spiega che, per appartenere al Terzo Stato, bisogna dimostrare di non godere di alcun privilegio, o, se lo si possiede, di sapervi rinunciare15. Ritorna nuovamente l’idea della contrapposizione assoluta tra la logica medievale dei privilegi e la logica della nazione: «Terrei soprattutto che si facesse attenzione ai numerosi agenti della feudalità. È alle odiose vestigia di questo barbaro regime che dobbiamo la divisione ancor’oggi esistente, per disgrazia della Francia, in tre Ordini fra loro nemici»16. Qui la valorizzazione dello Stato significa il pieno riconoscimento politico del popolo e la critica radicale a qualsiasi privilegio:
Possiamo essere liberi solamente con il popolo e per il popolo […] L’impero della ragione [empire de la raison] si va estendendo ogni giorno di più; sempre più appare inevitabile la restituzione dei diritti usurpati. Prima o poi tutte le classi dovranno tornare al rispetto del contratto sociale [contrat social], che concerne ed obbliga scambievolmente tutti gli associati…17.
Nel passo citato emergono due espressioni particolarmente importanti: empire de la raison e contrat social18. Tra l’altro, per quanto concerne il secondo concetto, occorre ricordare che il riferimento all’elemento del contratto sociale ricorre continuamente negli scritti di questo periodo e nei dibattiti dell’Assemblea nazionale, a partire dal richiamo a Rousseau ma anche dall’esperienza della Rivoluzione americana.
In questo senso, ci si trova di fronte a un rifiuto totale del Medioevo, delle ‘tenebre’, dell’oscurità; i ‘lumi’ della modernità significano, di converso, l’affermazione del popolo, elemento inaccettabile per i ceti dominanti:
Noi attendiamo da parte vostra un atto d’obbedienza alla legge comune, e non la testimonianza di una pietà che suona come un insulto per un Ordine che per tanto tempo avete trattato senza pietà alcuna. Ma sono gli Stati generali la sede cui compete di dibattere la questione; il problema oggi è che vengano costituiti nel modo giusto. Se il Terzo non vi è rappresentato, la Nazione vi resterà muta. Nulla potrà esservi fatto che abbia un valore19.
Così il nesso Terzo Stato-nazione, e la radicale contrapposizione di tale elemento alla logica dei privilegi vengono a significare la negazione della struttura feudale. Tra l’altro, questo è uno degli aspetti presenti anche in Marx, in particolare nei suoi primi scritti, in cui si mette in luce il superamento, da parte della Rivoluzione francese, del feudalesimo: da tale punto di vista, l’evento in questione porterebbe alle estreme conseguenze il processo già avviato dall’assolutismo, e volto alla costruzione della forma-Stato, ‘passo in avanti’ rispetto al Medioevo. Da parte del marxismo più tradizionale, più ‘ortodosso’ la Rivoluzione francese è stata interpretata proprio sic et simpliciter come rivoluzione borghese, in grado di liberare gli ultimi impacci che si erano frapposti alla piena realizzazione della modernità politica. Tale elemento costituiva anche un punto di contatto fra le varie Rivoluzioni francesi che si sono intrecciate, nelle città e nelle campagne. Come emergerà in seguito, però, questo modo di impostare il problema non permette di cogliere una serie di aspetti importanti del discorso.
Per ritornare a Sieyès, occorre sottolineare che il Terzo Stato non costituisce semplicemente una parte, ma coincide con la nazione, e quindi il bene del Terzo Stato diventa la salus publica:
La salute pubblica esige che il comune interesse della società si mantenga puro ed incontaminato. Ed è in tale prospettiva, l’unica valida, l’unica nazionale, che il Terzo non potrà mai accettare l’ingresso di più Ordini in una pretesa Camera dei comuni, perché è davvero mostruosa l’idea di un comune composto di diversi Ordini20.
Da questo punto di vista, si assiste ad una vera e propria identificazione fra il Terzo Stato e la Nazione, cosicché la volontà del Terzo Stato costituisce la volontà della nazione come tutto, e non come la volontà di una parte specifica. Ma «che cos’è la volontà di una Nazione? E’ il risultato delle volontà individuali, così come la nazione è l’insieme degli individui»21. La volontà della nazione, volontà comune, che presenta come scopo ‘la cosa pubblica’, si identifica con la somma delle volontà individuali: in questo senso, non ci si trova di fronte a una contrapposizione fra la dimensione individuale e la dimensione comune.
Comunque sia, la volontà individuale risulta propria di un soggetto libero e uguale rispetto agli altri, e quindi la volontà della nazione come somma delle volontà individuali si pone in radicale distonia con la logica dei privilegi, come emerge con nettezza dalla conclusione dell’opera:
Non chiedete quale posto in fin dei conti debbano occupare delle classi privilegiate in seno a un ordinamento sociale: è come chiedersi che posto attribuire nel corpo di un malato all’umore maligno che lo distrugge e lo tormenta. Occorre neutralizzarlo, occorre risanare e riattivare tutti gli organi, in modo tale che non abbiano più a instaurarsi simili patologiche malformazioni, capaci di minare i principi più essenziali della vitalità. Ma vi dicono che non siete ancora in misura di sopportare la salute, e voi prestate ascolto a questo aforisma della saggezza aristocratica come i popoli orientali accolgono le consolazioni del fatalismo. E allora tenetevi la vostra malattia!22.
È importante ribadire la rilevanza di tale critica ai privilegi: l’affermazione della sovranità nazionale, della volontà generale non può avvenire che mediante l’esclusione dal campo politico di tutti coloro che sono equiparati ai nemici della nazione. Di converso, il Terzo Stato possiede in sé tutto ciò che occorre per essere una ‘nazione completa’: si deve quindi escludere ciò che nazione non è. Qui viene meno la figura rousseauiana del legislatore23: il Terzo Stato, per i motivi indicati, rivendica per i suoi rappresentanti il pieno esercizio del potere costituente. La figura del legislatore è arcaica, ormai superata dall’esistenza di un’Assemblea rappresentativa, che riunisce in sé tutte le funzioni e che quindi esercita il potere costituente.
Ma la questione indagata apre a un tema fondamentale per Sieyès, vale a dire la rappresentanza:
I diritti politici, come i diritti civili devono essere inerenti alla condizione di cittadino. Questa proprietà legale è uguale per tutti, a prescindere dalla quantità reale di beni che ogni individuo possiede o di cui gode. Ogni cittadino che riunisce tutte le condizioni per potere essere elettore, ha il diritto di farsi rappresentare […] Questo diritto è unico; tutti l’esercitano in modo eguale24.
In ogni caso, il fondamento della rappresentanza è costituito dall’uguaglianza, che si configura come negazione della logica dei privilegi: «I privilegiati sono in rapporto al grande corpo dei cittadini quello che le eccezioni sono in rapporto alla legge. Ogni società deve essere retta da leggi comuni e soggetta ad un ordine comune»25. Quest’ultimo si configura come la negazione della logica dei privilegi, con il suo carattere particolaristico, con l’eliminazione di qualsiasi comunanza. Comunque sia, alla base del discorso indicato non sta un’idea di libertà assoluta26. Da questo punto di vista, il discorso sulla libertà è un discorso sulla limitazione della libertà medesima. Ma esiste un aspetto nuovo, ed estremamente significativo, introdotto da Sieyès: si tratta del rapporto fra la questione della rappresentanza e la dimensione del lavoro.
Infatti, il tema della rappresentanza del Terzo Stato risulta connesso ad un elemento economico e sociale:
Si è creduto di rafforzare l’obiezione che abbiamo appena combattuto sostenendo che, dal momento che il Terzo Stato non dispone di membri abbastanza illuminati [éclairés], abbastanza intraprendenti, etc., per rappresentarlo, occorreva ricorrere ai lumi [lumières] della nobiltà […] Questa ridicola asserzione non merita risposta. Pensate alle classe disponibili [classes disponibles] del Terzo Stato; come tutti, considero classi disponibili quelle in cui una certa agiatezza permette di ricevere una educazione liberale, di coltivare il proprio intelletto [raison], e di interessarsi infine alla cosa pubblica [affaires publi- ques]. Queste classi hanno esattamente gli stessi interessi del resto del popolo [peuple]27.
Qui, in rapporto ai rappresentanti, Sieyès fa riferimento alle «classi disponibili», e quindi ad esponenti borghesi con «una educazione liberale». Tale ragionamento presuppone la presenza di grandi mutamenti economici, e quindi lo sviluppo della divisione del lavoro: «Le città si sono moltiplicate, si sono ingrandite. Il commercio e le arti vi hanno creato, per così dire, una molteplicità di nuove classi»28. Sieyès evoca le classi più dinamiche, più operose, e quindi il Terzo Stato: «Il Terzo che era stato ridotto a un nulla ha riacquistato grazie alla sua operosità parte di quanto il più forte gli aveva ingiuriosamente estorto»29. Di fronte a questo stato di cose, non ci si può più fare intimorire dalla nobiltà, che costituisce l’ombra della nobiltà di una volta. Sieyès afferma che il Terzo Stato chiede non partecipazione, ma riconoscimento di un’identità: esso costituisce la nazione, a cui spetta l’iniziativa della Costituzione. Tale assunto poggia su un argomento di ordine puramente economico, ispirato ai fisiocratici, ma soprattutto a Smith e a Locke. In particolare, Sieyès ha letto a fondo Smith: il riferimento all’economia politica, scienza moderna per eccellenza, ritorna di continuo nei suoi scritti. Egli considera quindi il sistema rappresentativo come un caso particolare di quella divisione razionale del lavoro che costituisce il principio fondamentale della vita sociale. Sieyès concepisce addirittura la divisione del lavoro come applicazione particolare della rappresentanza. Come il progresso economico si fonda su una divisione del lavoro sempre più razionale, che attribuisce a tutti una maggiore libertà individuale, così il sistema politico può progredire solo con la generalizzazione del sistema rappresentativo. La politica costituisce un’attività specializzata, adeguata alla divisione del lavoro: il sistema rappresentativo realizza tutto ciò che si addice alle ‘nazioni moderne’. Il Terzo Stato si distingue infatti per la sua utilità sociale, sopportando il peso di quei lavori attraverso i quali l’uomo esercita la propria libertà. Ciò giustificava dunque la sua richiesta di avere dei rappresentanti agli Stati, in numero pari alla somma di quelli della Nobiltà e del Clero. Il Terzo Stato costituisce una nazione completa, in quanto organizza l’intero lavoro sociale, nell’articolazione delle sue funzioni30.
In ogni caso, per comprendere tale nesso strutturale fra rappresentanza e divisione del lavoro, non risulta sufficiente riprendere il modello inglese, e quindi rifarsi alla Costituzione inglese, concepita come un paradigma:
Temo davvero che questo tanto vantato capolavoro non arrivi a sostenere un esame imparziale condotto secondo i principi di un reale ordine politico […] Guardate quanto la rappresentanza nazionale, è mediocre sotto tutti gli aspetti, per ammissione degli stessi Inglesi! […] Non nego che la Costituzione inglese sia un’opera sorprendente per l’epoca in cui è stata emanata… in essa io vedo non tanto la semplicità di un buon ordinamento, quanto un apparato di precauzioni contro il disordine31.
Da questo punto di vista, si tratta non di copiare il sistema inglese, ma di avere l’ambizione di creare nuovi modelli:
Nessun popolo, si dice, ha fatto meglio degli Inglesi; quand’anche fosse vero, perché i risultati dell’arte politica dovrebbero oggi, alla fine del diciottesimo secolo, essere ancora quelli del diciassettesimo? Gli Inglesi non sono stati ciechi ai lumi [lumières] del nostro tempo; non siamolo noi ai lumi del nostro. E soprattutto non scoraggiamoci se non troviamo nella storia nulla che possa convenire alla nostra posizione. La vera scienza dello stato sociale [science de l’etat de société] non esiste che da tempi recenti32.
In questo senso ci si trova di fronte a una situazione assolutamente inedita, conseguente alla nascita e allo sviluppo della «vera scienza dello stato sociale». Il discorso di Sieyès non intende, quindi, riproporre la struttura costituzionale inglese33, ma piuttosto dare vita a qualcosa di radicalmente nuovo, che non ammette precedenti nella storia.
Se il ragionamento delineato parte dalla novità della «scienza dello stato sociale», elemento che non esisteva nel XVII secolo, è necessario indagare che cosa sia la società, «esaminandone una ad una le diverse parti, per poi ricongiungerle mentalmente, l’una dopo l’altra»34. Si possono comunque individuare, nella formazione della società politica, tre fasi: la prima è contraddistinta dal «gioco delle volontà individuali», la seconda dall’azione dall’«azione della volontà comune [volonté commune]», la terza dalla «volontà comune rappresentativa [volonté commune représentative]».
Gli associati vogliono dare consistenza alla loro unione; vogliono adempierne lo scopo […] Il potere risiede esclusivamente nell’insieme. La comunità ha bisogno di una volontà comune; senza una unità di volontà essa non arriverà mai a costituire un tutto che vuole ed agisce. È anche certo che questo tutto non ha nessun diritto che non appartenga alla volontà comune35.
In ogni caso, la volontà comune si configura come la somma delle volontà individuali, identificandosi con la maggioranza delle volontà individuali: «Se si abbandona anche un solo istante l’evidente principio che la volontà comune rappresenta l’opinione della maggioranza e non quella della minoranza, diventa inutile ragionare»36. Qui sembra di ritrovare elementi propri della riflessione di Rousseau, in merito al rapporto fra volontà particolare, individuale, e volontà generale, comune: se si esamina la questione in modo più attento, in realtà ci si accorge del fatto che la volontà comune coincide, più che con la ‘volontà generale’, con la ‘volontà di tutti’ di Rousseau, la sommatoria delle volontà individuali37. Ma Sieyès, con la delineazione della terza epoca, compie un passo ulteriore, che lo allontana ulteriormente da Rousseau: «Gli associati sono troppo numerosi e sparsi su un territorio troppo esteso per potere esprimere agevolmente essi stessi la loro volontà comune»38. Così si perviene alla volontà comune rappresentativa39. Anche da questo punto di vista, emerge la distanza rispetto a Rousseau, il quale aveva negato recisamente la possibilità di una volontà generale rappresentativa, dal momento che la volontà generale, essendo sempre in atto, non può essere altra da come è, e quindi non può venire rappresentata: rappresentarla significherebbe alienarla. Sieyès utilizza il concetto di volontà generale rappresentativa in opposizione al partito repubblicano, riprendendo per certi versi la distinzione montesquieuiana tra ‘dispotismo’ e ‘governo legittimo’40. D’altronde, non è un caso che autori con venature liberali come Constant apprezzino vari aspetti del discorso di Sieyès. In questo modo Sieyès lega l’inalienabile sovranità della volontà generale con l’idea dell’esercizio di questa volontà da parte dei rappresentanti della nazione.
In ogni caso, porre la questione della volontà generale rappresentativa significa porre la questione della costituzione:
È impossibile creare un corpo [corps] con determinati scopi senza dargli un’organizzazione [organisation], delle forme e delle leggi atte a fargli svolgere le funzioni a cui lo si è voluto destinare. Ciò viene definito come la costituzione [constitution] di tale corpo […] Dunque anche ogni governo rappresentativo deve avere una sua costituzione […] Di conseguenza il corpo dei rappresentanti al quale è affidato il potere legislativo o l’esercizio della volontà comune, esiste solamente nella forma che la Nazione gli ha voluto dare. Esso non è nulla senza le sue forme costituzionali [formes constitutives]; esso agisce, si orienta, esercita il suo potere solo attraverso tali forme41.
Sieyès ritiene necessario che l’attività legislativa sia affidata ai rappresentanti eletti: il principio elettorale assume la funzione che Hobbes attribuiva al principio dell’autorizzazione, giustificando al tempo stesso l’eteronomia della legge, che è la volontà di rappresentanti forniti di un mandato libero, e l’identità fra volontà del legislatore e volontà comune. Il discorso di Sieyès si muove su un piano costituzionale: il Terzo Stato viene, per così dire, ‘costituzionalizzato’. Come è stato sottolineato da alcuni interpreti, Sieyès è «l’uomo politico che ha rimarcato il carattere artistico della creazione sociale»42 e può essere addirittura considerato l’«inventore del diritto pubblico moderno»43.
Se si passa dal diritto naturale44 al diritto positivo, il tema della costituzione diventa centrale: «In ogni sua parte la Costituzione non è opera [ou- vrage] del potere costituito [pouvoir constitué], ma del potere costituente [pouvoir constituant]. Nessun tipo di potere delegato può cambiare alcunché delle condizioni della propria delega»45. All’interno di tale scenario
una nazione si costituisce solo in virtù di un diritto naturale [droit naturel]. Un governo [gouvernement], al contrario, è frutto solo del diritto positivo [droit positif]. La Nazione è tutto quel che può essere per il solo fatto di esistere... Non solo la Nazione non è sottomessa a una Costituzione, ma non può neanche esserlo, non deve neanche esserlo46.
In ogni caso, anche se la Nazione si trova a fondamento del ragionamento svolto, decisiva è la rilevanza che viene attribuita da Sieyès al momento costituzionale: il Terzo Stato viene ‘costituzionalizzato’, e quindi, in un certo senso, ‘bloccato’ in una sostanziale fissità. Mentre la descrizione della società è complessa, dinamica, articolata, non altrettanto lo è la rappresentazione complessiva del Terzo Stato. Alla sua base sta una concezione della proprietà come elemento intoccabile dal potere rivoluzionario. Il concetto di lavoro non è connesso, in Sieyès, ad una dinamica di classe. Se, fino a quel momento, gli Stati Generali presentavano un criterio ingiusto di rappresentanza, è invece necessario fornire potere adeguato a chi svolge una funzione sociale decisiva. Comunque sia, per formare l’ordine in questione, si tratta non tanto di prendere come modello la costituzione inglese, frutto del XVII secolo, quanto di applicare la scienza: quest’ultima produce la dissoluzione del mandato imperativo, e la delineazione della rappresentanza, che implica la separazione del rappresentante dal rappresentato47. A partire da questa definizione della rappresentanza, Sieyès perviene al concetto-chiave di potere costituente, che deve strutturare politicamente la società, ponendola in una relazione adeguata con la nazione stessa48. Esso si trova all’origine delle leggi fondamentali che innervano gli organismi costituzionali. In ogni caso, lo stesso potere costituente è valido solo se è potere rappresentativo, all’interno del quale il corpo elettorale diventa una corporazione di proprietari. Così si passa da una posizione rousseuaiana a una montesquieuiana. D’altronde l’evoluzione successiva del pensiero di Sieyès è volta a stabilire ulteriori limiti al potere costituente: in realtà non esiste una frattura insanabile fra i primi scritti di Sieyès e le sue opere successive49. A questo punto occorre però evitare un equivoco: l’interesse per la costituzione viene declinato da Sieyès in termini differenti rispetto a Montesquieu, dal momento che viene rifiutato il riferimento alla tradizione, in nome della costruzione di qualcosa di radicalmente nuovo. Lo scopo consiste nell’articolazione di uno spazio sociale: alla base del discorso sta, comunque, un’immaginazione costituzionale.
Per riprendere il tema centrale dell’articolo, vale a dire il rapporto fra soggetto collettivo e temporalità, occorre osservare che in Sieyès ci si trova di fronte solo in apparenza ad una ripresa della posizione rousseuaiana: in realtà, però, il concetto di volontà generale rappresentativo lo allontana da Rousseau e lo avvicina a Montesquieu. Ma la novità fondamentale di Sieyès è di essersi posto sul piano della divisione del lavoro, e quindi alla ricerca di una forma politica adeguata all’elemento della divisione del lavoro. Rispetto a quest’ultima non esiste però una forma di critica radicale: anzi, come sottolineato in precedenza, il soggetto collettivo, incarnato dal Terzo Stato, presenta un carattere espansivo nei confronti dei vecchi privilegi, ma non dell’ordinamento fondato sulla divisione del lavoro. Si assiste a una forte ‘costituzionalizzazione’ del discorso, che blocca ogni temporalità espansiva, in grado di mettere in discussione la divisione del lavoro. Il soggetto collettivo, il Terzo Stato, viene reso adeguato alle dinamiche del lavoro, alle esigenze dei ceti più produttivi, una volta che è stata epurata la parte retriva, piena di privilegi, quella dell’Ancien régime. D’altronde, non bisogna considerare il prosieguo del percorso di Sieyès come una totale negazione delle tappe precedenti. Col passare del tempo, Sieyès sarà ossessionato dal problema di ‘concludere’ la Rivoluzione: lo scopo consiste nell’elaborare una costituzione che, utilizzando il sistema rappresentativo, possa bloccare, ‘sigillare’ il sistema politico. Su questo terreno forte è la distanza dalla soluzione marxiana.
3. Marx e la Rivoluzione francese
Se Sieyès fu il vero e proprio teorico della fase iniziale della Rivoluzione francese, per Marx l’interpretazione della Rivoluzione francese costituì un rovello, addirittura un’ossessione, per tutta la sua vita: Marx non smise mai di interrogarsi sulla Rivoluzione francese, anche se non affrontò mai la questione in modo ampio e sistematico50. Qui non opererò un confronto ‘testuale’ fra i due pensatori, anche perché Marx si richiama raramente a Sieyès: nonostante questo, tra Sieyès e Marx, emerge una ‘posta in gioco’ di grande rilievo in merito alla Rivoluzione francese, e alla questione del soggetto collettivo che essa ha aperto. Uno dei pochi passi in cui Marx fa riferimento a Sieyès si trova in una sezione dell’Ideologia tedesca, dedicata alla critica dei rappresentanti del ‘vero’ socialismo: «Cabet mette nel più grande imbarazzo il suo borghese, contro il quale pronunciava la requisitoria, includendo tra i precursori del comunismo Sieyès, e ciò perché Sieyès riconosceva l’uguaglianza dei diritti e voleva che la proprietà fosse sancita dallo Stato»51. Ma, accanto all’ironia nei confronti di Sieyès, è presente il riconoscimento di aver compreso la ‘politica moderna’: «Lo scritto di Proudhon Qu’est-ce que la propriété? ha per l’economia politica moderna lo stesso significato che lo scritto di Sieyès, Qu’est-ce que le Tiers État?, ha per la politica moderna»52. Ad essere rilevante non è tanto la valutazione specifica che fornisce Marx di Sieyès, quanto l’assunzione della novità apportata dall’elemento del Terzo Stato, con le sue conseguenze dirompenti. La difficoltà del discorso consiste nel cercare di cogliere alcuni segni distintivi della posizione marxiana, senza però fornire un’interpretazione assolutamente organica e ‘sistematica’ della questione, in quanto, pur permanendo elementi di continuità nella sua analisi, vari sono gli aspetti di discontinuità. Ma esiste un’altra ragione per la quale occorre evitare un’interpretazione eccessivamente ‘teoreticistica’ del problema: la lettura marxiana della Rivoluzione francese non appare riducibile a giudizio storico in senso stretto, né appare il frutto di un’articolazione filosofica complessiva, ma si configura come un modo per posizionarsi, di volta in volta, all’interno di una situazione determinata. Ci si trova di fronte a un ‘pensare nella congiuntura’, a partire dalla «verità effettuale della cosa», per riprendere l’espressione machiavelliana53. Ma a differenziare profondamente Marx da Sieyès è la questione della temporalità espansiva del soggetto collettivo della Rivoluzione francese, temporalità invece esclusa e ‘bloccata’ da Sieyès in un apparato costituzionale, che apre la rivoluzione e però la chiude immediatamente, cercando di imbrigliarne gli aspetti più ‘sovversivi’ e rendendola funzionale alla divisione del lavoro: per Sieyès la rivoluzione deve terminare, per Marx, invece, deve espandersi, ampliarsi.
Marx non dedicò mai uno scritto specifico alla Rivoluzione francese e al giacobinismo: nonostante questo, non smise mai di interrogarsi sul suo significato. E’ interessante osservare che gli studi sulla Rivoluzione francese di storici non certo progressisti come Guizot, Mignet e Thiers svolsero una funzione importante nella formazione marxiana. Inizio l’analisi con il riferimento ai primi testi, e in particolare alla «Questione ebraica» («Zur Judenfrage», 1844), in cui viene affrontato il tema della separazione individuale tra citoyen e bourgeois, derivante dalla «scissione mondana (die weltliche Spaltung) tra lo Stato politico e la società civile»54. Per l’uomo della società civile, il bourgeois, «la vita nello Stato è una mera parvenza [Schein] o una momentanea eccezione rispetto all’essenza e alla regola’»55. Rispetto alla valenza reale della società civile, lo Stato si configura come Schein, apparenza, o comunque eccezione transitoria. All’interno di tale scenario bourgeois e citoyen vengono a rappresentare l’uomo reale e l’uomo vero:
L’uomo […], in quanto è membro della società civile, è rappresentato come l’uomo autentico, come l’homme distinto dal citoyen, poiché egli è l’uomo nella sua immediata esistenza sensibile individuale, mentre l’uomo politico è soltanto l’uomo astratto, artificiale, l’uomo come persona allegorica, morale. L’uomo reale [der wirkliche Mensch] è riconosciuto solo nella figura dell’individuo egoista, l’uomo vero [der wahre Mensch] solo nella figura del citoyen astratto56.
In ogni caso, se un segno distintivo della realtà moderna consiste nella separazione individuale fra bourgeois e citoyen, il Marx della «Judenfrage» vuole analizzare quando tale Trennung abbia raggiunto il suo apice: in questo processo una funzione decisiva è esercitato dall’evento della Rivoluzione francese. Già nella Kritik Marx mette in luce che la Rivoluzione francese
completò la trasformazione degli ordini politici in ordini sociali ossia rese le differenze degli ordini della società civile differenze soltanto sociali, differenze della vita privata, che sono senza significato nella vita politica. La separazione [die Trennung] della vita politica e della società civile era con ciò completata57.
Nella «Judenfrage» Marx continua l’esame della Rivoluzione francese, prendendo in considerazione alcuni princìpi fondamentali delle ‘Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino’ (Déclaration des droits de l’homme et du citoyen) dell’89 e del ’91, che in parte divennero articoli delle Costituzioni del ’91 e del ’93, oltre che dettati costituzionali americani. Sulla base di una lettura molto ‘orientata’ della Déclaration, Marx dà vita a una netta divaricazione tra i diritti dell’uomo e i diritti del cittadino ivi contenuti. Infatti, i diritti dell’uomo riguardano il bourgeois, vale a dire l’uomo come membro della società civile, l’uomo egoista, «separato dall’uomo e dalla comunità [vom Men- schen und vom Gemeinwesen getrennten]»58. Tali elementi non fanno altro che notificare e rafforzare la Trennung presente nella società civile-borghese, in cui ogni uomo risulta diviso da ogni altro uomo, e in negazione di qualsiasi Gemeinwesen. La libertà della bürgerliche Gesellschaft non riflette un ‘essere comune’, ma al contrario si fonda sulla ricerca del proprio interesse, il vero scopo del bourgeois. La libertà di quest’ultimo, così come risulta dalla Déclaration, possiede solo un limite, costituito dalla libertà di ogni altro. Tale trattazione deriva da una concezione atomistica della società civile:
Si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa [...] Ma il diritto dell’uomo alla libertà si basa non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sull’isolamento [Absonderung] dell’uomo dall’uomo. È il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato in se stesso59.
Alla base del ragionamento sta l’individuo della società civile, atomo, e quindi privo di collegamento con gli altri individui: i diritti dell’uomo, esito degli eventi rivoluzionari, secondo Marx costituiscono una conferma di tale logica. Comunque sia, si rivela piuttosto problematica la separazione attuata da Marx tra l’uomo e il cittadino: in realtà, i due elementi indicati si richiamano continuamente. A un’indagine approfondita degli articoli della Déclaration emerge che il tentativo consiste nell’interpretare le due nozioni in modo unitario, sulla base di una sorta di endiadi: la ‘e’ interposta tra ‘diritti dell’uomo’ e ‘diritti del cittadino’ sembra sfociare in un’identificazione tra i due elementi, piuttosto che in una loro divaricazione60. In questo scenario risulta non privo di difficoltà concepire il citoyen come l’individuo appartenente a una sfera meramente fittizia.
In ogni caso, secondo Marx la Rivoluzione francese spinge alle estreme conseguenze il processo di distruzione della società feudale, che era iniziato con l’Assolutismo:
L’emancipazione politica è contemporaneamente la dissoluzione della vecchia società, sulla quale riposa l’essenza dello Stato estraniato dal popolo (das dem Volk entfremdete Staatswesen), la potestà del sovrano assoluto. La rivoluzione politica è la rivoluzione della società civile. Qual era il carattere della vecchia società? Una sola parola la caratterizza: la feudalità. La vecchia società civile aveva immediatamente un carattere politico61.
Gli eventi successivi al 1789 scardinano lo stato di cose precedente, innalzando gli affari dello Stato ad affari del popolo ed eliminando tutti gli organismi intermedi. Così vennero dispiegate fino in fondo le premesse dell’Assolutismo: è l’interpretazione della Rivoluzione francese come rivoluzione del ‘politico’, che si autonomizza rispetto al ‘sociale’. D’altronde, Tocqueville sostiene che la rivoluzione costituì il proseguimento dell’opera iniziata dalla monarchia62. Molti anni più tardi, nella Guerra civile in Francia (1871), Marx affermerà che
la gigantesca scopa della Rivoluzione francese del secolo decimottavo spazzò tutti questi resti di tempi passati, sbarazzando così in pari tempo il terreno sociale dagli ultimi ostacoli che si frapponevano alla costruzione su di esso dell’edificio dello Stato moderno63.
L’esito del processo indicato risiede nel fatto che, da un lato, la società civile risulta dominata dagli individui privati, dall’altro, la dimensione politica si ‘stacca’ dalla società civile, identificandosi con la sfera statuale: «L’emancipazione politica fu al tempo stesso l’emancipazione della società civile dalla politica, dalla parvenza stessa di un contenuto universale»64. Con la Rivoluzione francese si verificano nello stesso tempo due processi: si attuano, da una parte, la divisione della società civile in individui indipendenti, dotati di finalità particolari, dall’altra l’autonomizzazione della sfera politica rispetto alla società civile. Ci si trova di fronte, quindi, al riconoscimento dell’ambivalenza della Rivoluzione francese, vale a dire del suo carattere espansivo e propulsivo, ma contemporaneamente del suo postulare una sostanziale dipendenza del citoyen, del membro dello Stato, dall’homme, il membro egoista della bürgerliche Gesellschaft:
La rivoluzione politica dissolve la vita civile nelle sue parti costitutive, senza rivoluzionare queste parti stesse né sottoporle a critica. Essa si comporta con la società civile, con il mondo dei bisogni, del lavoro, degli interessi privati, del diritto privato, come con il fondamento della propria esistenza65.
La Déclaration rappresenta un testo significativo, dal momento che riflette l’acuirsi, con la Rivoluzione francese, della scissione dell’individuo, e in primis della crucialità della sfera della società civile, in cui la libertà consiste solo nel permettere ad arbìtri diversi di coesistere, senza annullarsi a vicenda. Ma l’arbitrio in sé non viene posto in discussione. «L’utilizzazione pratica del diritto dell’uomo alla libertà è il diritto dell’uomo alla proprietà privata»66: la tutela di quest’ultima costituisce la necessaria conseguenza del concetto di Freiheit sopra delineato. Tale libertà trova il suo esito nell’istituto della proprietà privata, che rappresenta «il diritto di godere a proprio arbitrio [à son gré], senza considerare gli altri uomini, indipendentemente dalla società, del proprio patrimonio e di disporre di esso, il diritto dell’egoismo»67. Per Marx è necessario togliere i ‘veli’ con cui la bürgerliche Gesellschaft cerca di fornire un’immagine mistificata della realtà, spacciando per difesa di diritti universali ciò che costituisce, invece, la tutela di interessi particolari68. L’affermazione del carattere ‘fittizio’ dei diritti dell’uomo e, in particolare, del diritto alla libertà, non implica però il misconoscimento della loro funzione decisiva in rapporto alla distruzione dei privilegi feudali: la critica alla bürgerliche Gesellschaft moderna non implica una sorta di nostalgia nei confronti di forme sociali precedenti. Questo costituisce il punto di maggior contatto con l’analisi condotta da Sieyès: la Rivoluzione francese si configura come negazione della struttura dei privilegi. Così liberté, égalité, fraternité, le ‘parole’ della Rivoluzione francese, non possono venir concepite come irreali, per quanto talora Marx, soprattutto nei sui primi testi, sembri far emergere sic et simpliciter la dimensione fittizia. Infatti, gli elementi indicati costituiscono l’esito di una pratica di emancipazione da una serie di strutture gerarchiche, di assetti aristocratici ed ecclesiastici. Nello stesso tempo, però, essi non possiedono un carattere neutrale: si rivela, quindi, necessario demistificare la loro universalità, intendendo quest’ultima non in modo semplicistico come irrealtà, ma mostrandone la funzionalità agli interessi del bourgeois. Così l’atteggiamento marxiano nei confronti della Rivoluzione francese è strutturalmente duplice: da una parte, viene riconosciuto il suo ruolo propulsivo, che risiede nell’eliminazione dei privilegi medievali69 e nella delineazione di un impianto giuridico fondato su libertà, eguaglianza, proprietà, sicurezza, dall’altra, viene posto a critica il suo carattere ‘borghese’, il suo legame, pur dissimulato e nascosto, con gli interessi del bourgeois, dell’uomo in quanto membro della bürgerliche Gesellschaft, rispetto a cui il citoyen svolge una funzione secondaria, derivata. Mentre per Sieyès era necessario mantenere fino in fondo libertà, eguaglianza e proprietà, in contrasto con la logica medievale dei privilegi, in Marx, invece, viene sviluppata una critica immanente nei confronti degli elementi indicati. Infatti, secondo Marx la rivoluzione può venir considerata un ‘progresso’ (Fortschritt), purché si interpreti quest’ultimo termine non secondo un’accezione pienamente lineare o secondo una modalità astratta70, ma evidenziandone la duplicità e, quindi, le incipienti contraddizioni, così come si manifestarono in modo particolarmente accentuato nel periodo del Terrore, i cui esponenti credevano di poter sottomettere il bourgeois al citoyen, non rendendosi conto dell’irrealizzabilità di questo progetto.
A questo punto si rivela necessario esaminare il modo con cui Marx delinea il momento del Terrore, e il suo rapporto con le fasi precedenti della Rivoluzione francese. È molto significativo il fatto che, nei primi testi marxiani, la Rivoluzione francese e il Terrore vengano indicati come esempi di ‘intelletto politico’, anche riprendendo alcuni aspetti della riflessione hegeliana al riguardo: in particolare, nella Fenomenologia dello spirito si fa riferimento alla libertà assoluta71, che impedisce ogni differenza al suo interno, sfociando in una negazione completa, priva di qualsiasi mediazione72. In tal senso, nelle Glosse critiche Marx polemizza con gli esponenti del Terrore:
Il periodo classico dell’intelletto politico è la Rivoluzione francese. Ben lungi dallo scorgere nel principio dello Stato la fonte delle deficienze sociali, gli eroi della Rivoluzione francese scorsero piuttosto nelle deficienze sociali la fonte delle cattive condizioni politiche [...] Così Robespierre vide nella grande miseria e nella grande ricchezza un ostacolo alla democrazia pura. Egli desidera perciò stabilire una generale frugalità spartana. Il principio della politica è la volontà. Quanto più unilaterale, cioè quanto più compiuto è l’intelletto politico, tanto più esso crede all’onnipotenza della volontà, e tanto più è cieco dinanzi ai limiti naturali e spirituali della volontà, tanto più dunque è incapace di scoprire la fonte delle infermità sociali73.
Nella Sacra famiglia viene evidenziata l’assenza, da parte dei Giacobini, di una rigorosa analisi storica e sociale, a cui hanno cercato di far fronte in modo puramente soggettivistico e volontaristico74. Il marxismo ‘ortodosso’, tradizionale ha seguito proprio l’impostazione indicata, mettendo in luce il fatto che Robespierre vagheggiava una società di liberi produttori, non di proletari.
Ai fini della comprensione del problema oggetto d’analisi, è necessario evitare di assumere un’ottica teoreticistica, dal momento che punto di partenza del discorso è il riferimento alla pratica. Se si accetta tale modo di impostare la questione, occorre indagare lo sviluppo della ‘prassi rivoluzionaria’ col Terrore. Già nella Sacra famiglia, a conferma del fatto che nello stesso testo coesistono tensioni contrastanti, Marx sottolinea che
il diritto dell’uomo alla libertà cessa di essere un diritto non appena entra in conflitto con la vita politica, mentre, secondo la teoria, la vita politica è soltanto la garanzia dei diritti dell’uomo, dei diritti dell’uomo individuale, e quindi deve essere abbandonata non appena contraddice il suo scopo, questi diritti dell’uomo [...] Volendo poi considerare la stessa prassi rivoluzionaria come la giusta impostazione del rapporto, rimane pur sempre da risolvere l’enigma del perché nella coscienza degli emancipatori politici il rapporto venga capovolto, lo scopo appaia come mezzo e il mezzo come scopo75.
Il dispiegamento della ‘prassi rivoluzionaria’ col Terrore76 sembrerebbe porre in discussione l’idea del dominio del bourgeois sul citoyen derivante dalla ‘teoria’. Così la dinamica della Rivoluzione francese, nella sua ‘prassi’ e non nei princìpi astratti della Déclaration, è sfociata nella parvenza di un vero e proprio dominio del ‘cielo’ della politica, della sfera statale rispetto alla ‘terra’ della società civile, della sfera sociale. Al riguardo nella Sacra famiglia (1845), rispetto ai testi precedenti, è presente un rilevante sviluppo teorico. Nella polemica contro l’impostazione idealistica di Bauer emerge un forte riconoscimento della Rivoluzione francese:
Il movimento rivoluzionario, che è cominciato nel 1789, nel Cercle social, che ha avuto, nel mezzo del suo cammino, come suoi rappresentanti principali Leclerc e Roux, e che infine è stato momentaneamente sconfitto con la cospirazione di Babeuf, aveva suscitato l’idea comunista, che l’amico di Babeuf, Buonarroti, dopo la rivoluzione del 1830, ha introdotto nuovamente in Francia77.
Marx non si limita, nel valorizzare l’evento in questione, a una generica affermazione della necessità del processo storico, sulla base di moduli di filosofia della storia, ma si spinge oltre, considerando la Rivoluzione francese come un modello, un punto di riferimento, per quanto astratto, per l’‘idea comunista’. Nell’Ideologia tedesca, all’interno della parte dedicata a Stirner, Marx e Engels interpretano Robespierre e Saint-Just come i veri rappresentanti della forza rivoluzionaria, «cioè della sola classe veramente rivoluzionaria, della massa innumerevole»78: Marx rimprovera a Stirner di non dire nulla «delle ragioni reali per cui si tagliano le teste, ragioni che erano fondate sugli interessi reali, empirici ed estremamente profani non degli aggiotatori, ma della massa innumerevole»79. Nelle Glosse critiche si evoca l’evento decisivo della rivolta slesiana, che fa emergere il «disperato isolamento» degli uomini dalla comunità; a partire dalla contingenza indicata, viene introdotto il riferimento alla Rivoluzione francese:
Abbiamo mostrato come la rivolta slesiana non abbia per nulla avuto luogo in uno stato di separazione dei pensieri dai principi sociali. Ora abbiamo a che fare con il ‘disperato isolamento degli uomini dalla comunità’. Per comunità si deve intendere qui la comunità politica, lo Stato […] Ma non scoppiano forse tutte le rivolte, senza eccezione, nel disperato isolamento dell’uomo dalla comunità? Ogni rivolta non presuppone forse necessariamente questo isolamento? Avrebbe avuto luogo la rivoluzione del 1789 senza il disperato isolamento dei cittadini francesi dalla comunità? Essa era appunto destinata a sopprimere tale isolamento80.
Il centro prospettico del discorso risiede in una dimensione soggettiva, in una pratica volta ad «abolire lo stato di cose presente»81, per riprendere il celebre passo dell’Ideologia tedesca. D’altronde, l’irruzione della nozione di proletariato in Per la critica alla filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1844), con il suo carattere di universalità di parte, può essere intesa proprio come una radicalizzazione della questione del soggetto collettivo nella Rivoluzione francese, con la sua temporalità inarrestabile. D’altronde, nella conclusione del testo viene richiamata direttamente la Rivoluzione francese nel suo costituire un paradigma per la rivoluzione tedesca: «Quando saranno state soddisfatte tutte le condizioni interne, il giorno della resurrezione tedesca verrà annunciata dal canto del gallo francese»82. Engels, in scritti coevi o appena precedenti, intende la Rivoluzione francese come l’origine della democrazia in Europa, con la sua ambivalenza: essa, da una parte, esercitò un ruolo espansivo, aprendo orizzonti precedentemente impensabili, dall’altra, si convertì nel suo contrario, dando vita a una vera e propria dittatura. Babeuf e Napoleone costituiscono i due ‘poli’ di questo discorso83. Comunque sia, per Engels, «la Rivoluzione francese fu, dall’inizio alla fine, un movimento sociale [eine soziale Bewegung], e, dopo di essa, una democrazia puramente politica è diventata una cosa del tutto impossibile»84. Qui emerge la Rivoluzione francese come elemento fluido, dinamico, attraverso cui si attua il passaggio dalla politische alla soziale Demokratie. Così, anche nell’analisi engelsiana la Rivoluzione francese non è affatto riducibile a una rivoluzione del ‘politico’85. La Rivoluzione francese viene indagata a partire dalla sua temporalità espansiva, che entra nei rapporti sociali: a differenza che in Sieyès, è la componente soggettiva, con il suo carattere di mobilitazione permanente e non la sua ‘chiusura’ costituzionale, a scandire il discorso.
Tale ‘pensare nella pratica’ non può che trovare un ulteriore rafforzamento nella congiuntura decisiva del 1848. In uno scritto di poco antecedente il ’48, La critica moraleggiante e la morale criticante, Marx sottolinea con forza il fatto che «la prima apparizione di un partito comunista realmente operativo si trova all’interno della Rivoluzione francese, nel momento in cui viene eliminata la monarchia costituzionale»86. All’interno del contesto francese, in particolare Babeuf e Buonarroti posero l’accento con forza sulla soziale Frage, e sulla necessità di mettere in discussione i rapporti proprietari presenti87. Si sviluppa così, con sempre maggiore forza, l’idea secondo cui il Terrore costituisca un modello decisivo, dal punto di vista politico, per l’organizzazione del proletariato come partito. Nel 1848 Marx mette in luce che «il giacobino del 1793 è diventato il comunista dei nostri giorni»88. Da questo punto di vista, viene perlomeno problematizzata la lettura del Terrore come dominio dell’«intelletto politico»: in primis negli scritti storico-politici, il suo radicalismo viene ritenuto gravido di conseguenze per il movimento operaio. In vari testi marxiani il 1848 viene inteso sulla base di uno schema di ripetizione del vero e proprio paradigma di rivoluzione, il 1789, nella forma però della caricatura, della parodia89. Ciò però non significa affatto (cosa che sarebbe priva di senso) interpretare la Rivoluzione francese come rivoluzione proletaria, antiborghese; un passo di La borghesia e la controrivoluzione (dicembre 1848) è eloquente al riguardo: nel 1789 «la borghesia era la classe che realmente si trovava alla testa del movimento […] (In seguito) tutto il terrorismo francese non era altro che un modo plebeo di finirla con i nemici della borghesia, con l’assolutismo, il feudalesimo e il mondo piccolo-borghese»90. Inoltre, in Il disegno di legge sulla soppressione dei gravami feudali, apparso nel luglio 1848, Marx rimarca che
la Rivoluzione tedesca del 1848 è solo la parodia della Rivoluzione francese del 1789. Il 4 agosto 1789, tre settimane dopo la presa della Bastiglia, il popolo francese in un solo giorno ebbe ragione dei gravami feudali. L’11 luglio 1848, quattro mesi dopo le barricate di marzo, i gravami feudali hanno ragione del popolo tedesco […] La borghesia francese del 1789 non abbandonò un attimo i suoi alleati, i contadini […] La borghesia tedesca del 1848 tradisce senza la minima esitazione questi contadini91.
D’altronde, successivamente, nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852), a proposito del rapporto indicato fra 1789 e 1848, si mette in luce che
Hegel nota […] che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa. Caussidière invece di Danton, Louis Blanc invece di Robespierre, la Montagna del 1848-1851 invece della Montagna del 1793-1795, il nipote invece dello zio92.
Comunque sia, anche se alcuni esponenti del Terrore dichiaravano di voler rifondare la polis o la res publica, in realtà, secondo Marx, il loro obiettivo era costituito dalla piena realizzazione della società borghese:
Camille Desmoulins, Danton, Robespierre, Saint-Just, Napoleone, tanto gli eroi quanto i partiti e la massa della vecchia Rivoluzione francese adempirono, in costume romano e con frasi romane, il compito dei tempi loro, quello di liberare dalle catene e di instaurare la moderna società borghese93.
L’«illuminismo politico», con la sua «fase di esaltazione»94, difese come diritto la proprietà privata, e quindi gli interessi di quel bourgeois da cui si era proclamato indipendente, trovando la sua ‘prosaica’ realizzazione nel governo del Direttorio, in cui «la società civile (die bürgerliche Gesel- lschaft) – la rivoluzione l’aveva liberata dai legami feudali e l’aveva riconosciuta ufficialmente, per quanto il Terrore avesse voluto sacrificarla a una vita politica antica – esplode in potenti correnti vitali»95. In questa visione il Direttorio rappresenta l’esito inevitabile dell’unilateralità del Terrore giacobino, con il suo rifiuto della dimensione particolare. Se la Rivoluzione francese condusse alle estreme conseguenze il processo di separazione dell’individuo, e di subordinazione della sua parte politica a quella civile, borghese, il Terrore ha tentato di invertire tale situazione, a vantaggio di una sfera politica onnicomprensiva e onnipotente: al di là delle intenzioni dei suoi esponenti, esso costituì, per usare un’espressione dell’Ideologia tedesca, un «energico liberalismo borghese [Bourgeoisliberalismus]»96. Il fatto che, nel corso del tempo, Marx abbia calato sempre di più nella pratica la questione della Rivoluzione francese non significa che egli abbia abbandonato l’idea della Rivoluzione francese come rivoluzione borghese, che spazzò via gli ultimi elementi feudali sopravvissuti.
Così non si tratta né di piegare la visione marxiana a un’idea della Rivoluzione francese come rivoluzione borghese97, né di fare di Marx un apologeta del Terrore, come se ci fosse una sorta di piena identificazione teorica tra giacobinismo e comunismo. Nel primo libro del Capitale Marx afferma:
Fin dall’inizio della tempesta rivoluzionaria la borghesia francese osò sottrarre agli operai il diritto d’associazione che si erano appena conquistato. Con decreto del 14 giugno 1791 la borghesia dichiarò che ogni coalizione operaia era un ‘attentato contro la libertà’98.
In ogni caso, il rapporto di Marx con il Terrore appare estremamente complesso: per molti versi, il giacobinismo rimane un ‘impensato’ della riflessione marxiana99. Nella valutazione marxiana del Terrore si trovano due elementi che entrano in frizione reciproca: il primo è il suo (presunto o reale) carattere antiproletario (si pensi al maximum dei salari), il secondo è l’impulso dato alla mobilitazione delle masse, sulla base di una dimensione ‘plebea’, decisiva per la costituzione stessa di un partito comunista. Se si rimane sul piano di uno schema storico complessivo, entrambe le impostazioni possono restare aperte. Si tratta, invece, di spostare il piano dell’indagine, ‘pensando nella pratica’ la questione della Rivoluzione francese, sulla base di coordinate che non sono mai pienamente preventivabili.
4. Tempora multa?
Dall’analisi condotta emerge il problema del rapporto fra temporalità e soggettività. In tal senso, decisiva è l’esperienza della Rivoluzione francese, con la sua temporalità inarrestabile, con la sua accelerazione impetuosa, con il suo tendere al futuro. Saint-Just affermava che, «in tempo di innovazioni, tutto ciò che non è nuovo è pericoloso». Al riguardo appare evidente la lontananza fra Marx e Sieyès: quest’ultimo, infatti, non coglie fino in fondo la temporalità espansiva della rivoluzione, nel suo configurarsi come un movimento permanente, inesauribile. Inoltre tale elemento si radica nel ‘sociale’, trova nel ‘sociale’ il suo terreno di applicazione. Qui ci si trova di fronte, allo stesso tempo, a un punto di contatto e a un punto di distanza fra i due pensatori. Il punto di contatto è costituito dal riferimento alla divisione del lavoro, e quindi dal rapporto individuato fra Rivoluzione francese e divisione del lavoro. Il punto di distanza risiede nel fatto che Sieyès non sottopone a critica i rapporti di dominio all’interno della società, e anzi vuole creare una costituzione adeguata allo sviluppo della proprietà privata. Marx, invece, destruttura gli elementi indicati.
Nella presente trattazione la temporalità moderna viene assunta come acquisizione ineludibile, ma nello stesso tempo, come elemento ambivalente e problematico, non come stato di cose da accettare acriticamente. All’interno della prospettiva delineata, due sono gli obiettivi polemici. Il primo è fornito da alcuni filoni settecenteschi e ottocenteschi, sorretti dall’idea di una temporalità pienamente lineare e cumulativa, con l’individuazione di un progresso inarrestabile del genere umano. Peraltro, in Marx esistono varie ambiguità al riguardo. Il secondo referente polemico è fornito da ogni impostazione messianica: alla base di quest’ultima sta una dimensione, seppur paradossale, seppur non ortodossa, di trascendenza. Invece, il discorso articolato si rivela pienamente immanente, e quindi rifiuta ogni richiamo a un Messia. Così non si tratta di opporre alla temporalità lineare un elemento di assoluta, e quindi trascendente, alterità rispetto ad essa, sulla base di un ‘lampo’ messianico.
In conclusione occorre indagare se tale temporalità espansiva, integralmente immanente, possieda o meno un carattere di pluralità. Intanto è necessario tener presente, come riferimento cruciale, anche se non privo di difficoltà interne, il passaggio in epoca moderna dalla pluralità di Histo- riae, propria della visione premoderna, alla Geschichte come ‘singolare collettivo’, con l’accelerazione impetuosa che imprime al corso degli eventi100. Così, se si rifiuta ogni immaginazione ‘passatista’, si rivela destituito di senso pensare di poter tornare alla pluralità premoderna delle historiae: l’elemento della pluralità, se adoperato, deve quindi venir interpretato sulla base di coordinate nuove. Al riguardo sono necessarie due osservazioni. In primo luogo, la declinazione marxiana della temporalità del soggetto collettivo è legata a una logica della determinazione specifica, della ‘verità effettuale della cosa’, della singolarità del caso101. In questo senso, ci si trova di fronte a una temporalità ‘situata’, non riducibile a legge generale. In secondo luogo, se si esamina l’evento singolare della Rivoluzione francese, con il suo carattere dirompente, si comprende che esso presenta un’estrema articolazione interna. Per certi versi, si può addirittura affermare che varie sono state le rivoluzioni francesi: la rivoluzione del Terzo Stato, la rivoluzione borghese (ben esemplificata nella trattazione di Sieyès), la rivoluzione dei sanculotti e la rivoluzione dei contadini. Le rivoluzioni in questione presentano aspetti comuni (ad esempio, la polemica antifeudale), ma anche punti di differenza significativi (ad esempio, il Terzo Stato era complessivamente favorevole a una modernizzazione capitalistica, mentre i contadini si ponevano in modo critico nei confronti di tale assetto). Lo sguardo marxiano, anche in relazione alla Rivoluzione francese, è volto a rifiutare sia una sorta di reductio ad unum delle dimensioni temporali, sia una delineazione compiuta di una pluralità di tempi, che comunque presupporrebbe l’esistenza di un tempo unico che funga da paradigma: talvolta gli elementi indicati si incontrano o si scontrano, talvolta no, ma risulta impossibile definire la questione una volta per tutte.
In ogni caso, il riferimento alla Rivoluzione francese a Marx interessa non tanto per ricostruire quel periodo storico nella sua crucialità e nella sua complessità, quanto per far ‘esplodere’, ad esempio ‘rigiocandole’ in rapporto alla rivolta slesiana così come al ’48, le emergenze di soggettività ivi contenute: la Rivoluzione francese costituisce per Marx un evento contemporaneo, anzi collocato in un quadro ben più ‘espansivo’ rispetto a quello proprio della situazione tedesca a lui contemporanea. Così il tema della temporalità non viene esaminato astrattamente, in modo teoreticistico, ma viene calato nella pratica, configurandosi come un intervento in una situazione determinata. Il problema aperto consiste nel declinare politicamente l’azione della classe operaia, rifiutando qualsiasi opzione ‘verticistica’102, e dando vita a un movimento carico di una temporalità ‘sovversiva’, in grado di destrutturare lo status quo. Tale «presa di parola»103, per un verso, si pone in continuità con la Rivoluzione francese, ‘madre’ di tutte le rivoluzioni, nella sua capacità di dispiegare tutte le categorie della politica, per l’altro, tenta di andare al di là dei suoi limiti costitutivi, scompaginando la distinzione borghese fra il ‘sociale’ e il ‘politico’, secondo coordinate nuove, ‘inaudite’, che non possono mai venir preventivate completamente e che sono sempre aperte a una rettifica del proprio percorso:
La rivoluzione sociale del secolo decimonono non può trarre la propria poesia dal passato, ma solo dall’avvenire […] Le precedenti rivoluzioni avevano bisogno di reminiscenze storiche per farsi illusioni sul proprio contenuto. Per prendere coscienza del proprio contenuto, la rivoluzione del secolo decimonono deve lasciare che i morti seppelliscano i loro morti104.
Indubbiamente è indispensabile, per una autentica comprensione e possibilità di utilizzo, rivedere l'atteggiamento con cui avvicinarsi a Marx e alla sua affascinante e potente rappresentazione scientifica della dinamica storica del capitalismo. E il concetto di non linearità, come illustrato, è essenziale, nell'analizzare i conflitti che sorgono nelle situazionii di contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e inadeguatezza dei rapporti di produzione e sociali, nelle varie determinazioni storiche.
Se le categorie analitiche da applicarsi e la logica di funzionamento del capitalismo, con la successione causale e temporale di comportamenti e eventi, sono state dettagliatamente spiegate da Marx, per non rispondere a semplicistiche logiche lineari, le dinamiche conflittuali di maggiore frattura e rivoluzione non sono però meccanicamente preordinate.
Nondimeno Marx, che è un teologo di formazione, al di la qualche sporadico angosciante dubbio, manifesta e mantiene una solida e umana fiducia nel "compimento del tempo", nell'ingresso nel regno del comunismo.
Ciò che sostanzia tale fede e che assicura il superamento di un eterno ritorno della serie mondana, tra tragedia e farsa, di eventi capitalistici, si inscrive non in un mero immanentismo intuitivo e sentimentale, ma in una dimensione logico temporale teologica e cristologica.
L'appendice per esempio Marx la intitola Critica alla Polemica di Plutarco contro la Teologia di Epicuro. E tra le molteplici citazioni della tesi che si potrebbero riportare vi è la seguente, " il vero empio non è colui che nega gli dei adorati dalla moltitudine, ma colui che ripete degli dei quanto la moltitudine crede in merito".
La critica di Marx alle rappresentazioni del divino e alla religione e relativo ruolo delle autorità monopolizzatrici è più sofisticata delle banalità e convenzioni che si sono diffuse..
Il punto è che un conto sono le istituzioni e le rappresentazioni storicamente determinate della religione e un'altro la riflessione teologica sullo spirito di Hegel e Marx. ( Per certi versi e un po' di libertà la critica alla religione potrebbe vedersi come un apprendistato categoriale e prolegomeni di teologia critica in vista della successiva critica all'economia politica).
È una falsa preoccupazione quella di valutare Marx secondo criteri di conformità a convenzioni o vestiti preconfezionati esterni, come se fossero metri attendibili o più autorevoli. Più plausibile e ragionevole sarebbe precisamente il procedimento opposto.
Se Marx aveva una preoccupazione era quella di andare oltre quella che è la più efficace e scientifica rappresentazione del funzionamento del capitalismo da lui stesso sviluppata, per riconoscere una dinamica che portasse al suo superamento; di qui la incessante ricerca per esempio sulla evoluzione dei mercati finanziari e il ruolo dei bills, che potrebbero essere visti come un precedente dei moderni repo, per trovare conferme sulla non alterazione delle tendenze di fondo e sulla esistenza e prevalenza di forze interne in tal senso.
Marx permane ottimista e mai si rassegna a una dimensione temporale di eternità limitata all'eterno ritorno della serie di eventi del capitalismo.
Non vi è pertanto nulla di strano a vedere in Marx una adesione rielaborata sul piano personale al punto di vista di senso di Hegel.
Né sono immediati i rischi di distorsione del pensiero di Marx, se con le dovute cautele "filologiche e ermeneutiche" si rende conto di aspetti appartenenti e integrati nel suo punto di vista. Diverso sarebbe forzare su di lui speciose letture con meri effetti distorsivi come è accaduto.
Altri grandi scienziati e cervelli superiori come Keynes e Joan Robinson, nonostante le aspirazioni, rimasero invece più pessimisti sul capitalismo.