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Introduzione a Dialettica dell’irrazionalismo

di Enzo Traverso

Da Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre Corte, Verona 2022

ob bdf59b lukacsseghersbudapest19520218Sono molte le ragioni che suggeriscono oggi, a settant’anni dalla sua prima pubblicazione, una rilettura di La distruzione della ragione di Lukács. Per i filologi e gli storici della filosofia sono ovvie: si tratta di riscoprire una delle opere più ambiziose di uno dei grandi pensatori del Novecento. Ce ne sono altre, altrettanto ovvie, che derivano dall’interesse intrinseco di questo libro, profondamente contestabile ma ricco di idee. Tutti riconoscono che dei legittimisti fanatici come Joseph de Maistre e Donoso Cortés, un filosofo fascista come Giovanni Gentile, dei pensatori conservatori compromessi col nazismo come Martin Heidegger e Carl Schmitt, meritano di essere letti e meditati. Perché non dovremmo riservare un analogo trattamento a Lukács? Si possono ricavare delle lezioni utili dalle opere dei cattivi maestri, ma per questo bisogna saperli leggere, non per seguirne l’insegnamento, ma andando oltre la semplice condanna che nasce da un’interpretazione angusta e sterile. L’apologia dello stalinismo che permea La distruzione della ragione, pubblicata a Berlino per i tipi di Aufbau Verlag nel 1953, appare oggi indegna e colpevole, ma va spiegata e compresa nei suoi significati. Non per giustificarla o “perdonarla” come faceva Hannah Arendt nel 1970, rievocando i trascorsi nazisti di Heidegger1– ma perché non è aneddotica; essa getta luce su una tappa fondamentale del percorso del suo autore e anche, al di là di Lukács, del marxismo e della cultura di sinistra durante gli anni più bui della guerra fredda. Bisogna insomma, per usa­re la formula di Leo Strauss, imparare a “leggere tra le righe”2, interpretando un’opera come La distruzione della ragione non soltanto come un manifesto ma anche come un sintomo. È questo l’esercizio che cercherò di compie­re nelle pagine che seguono.

C’è una fotografia di Lukács, datata 18 febbraio 1952, in cui il filosofo ungherese, 67 anni, accenna un timido sorriso, quasi impercettibile, l’immancabile sigaro nella mano sinistra, accanto ad Anna Seghers, più allegra, che regge un mazzo di fiori appena ricevuto3. L’immagine è stata ripresa all’aeroporto di Budapest, dove la scrittrice tedesca era appena giunta da Praga. Intorno a loro altre figure sorridono. Lo stile, gli abiti, la posa, evocano irre­sistibilmente l’atmosfera del socialismo reale: un mondo in cui tutto è grigio e tutti devono sforzarsi di apparire felici. Dallo sguardo del filosofo e della scrittrice emana tuttavia un’innegabile tristezza. Lukács sorride raramente nei più famosi ritratti giovanili in cui ostenta una fiera sicurezza, quasi un atteggiamento di sfida. Una foto del 1919 lo mostra durante una manifestazione, quando era commissario del popolo alla cultura, al momento della rivoluzione ungherese: tiene il sigaro allo stesso modo, ha i baffi, si rivolge alla folla e dietro di lui si vedono dei soldati. Tra le due immagini c’è una distanza di trentadue anni, fatta di rivoluzioni sconfitte, di terrore nazista, di una nuova guerra mondiale, di “rivoluzioni dall’alto” messe in atto da un esercito di occupazione, e di repressione stalinista.

La fotografia del febbraio 1952 è uno specchio abbastanza fedele del clima che dominava i paesi del socialismo reale all’apogeo dello stalinismo. Il sorriso triste di Lukács nasconde un sentimento di paura: László Rajk è stato giustiziato a Budapest nel 1949 e Rudolf Slánský è appena stato arrestato a Praga, da dove arriva Anna Seghers. E questo sorriso triste è fatto di tanti silenzi: silenzi sul Gulag e sulla repressione stalinista, sulla collettivizzazione forzata delle campagne sovietiche e sull’arresto e la deportazione di tanti esuli antifascisti, dai comunisti tedeschi ai repubblicani spagnoli. Lukács era sfuggito miracolosamente alla deportazione quando viveva a Mosca, durante la guerra, ed era stato testimone di tutte le persecuzioni staliniste, alle quali tuttavia teme di non poter sfuggire a Budapest.

Il socialismo reale era un mondo di paura e di incubi, al quale la grande maggioranza degli intellettuali si sottomise di buon grado, senza neppure lontanamente pensare di ribellarsi, partecipando alla messa in scena del potere. Era un mondo che avevano contribuito a creare combattendo contro un mondo ancora peggiore, quello del nazismo, le cui tracce rimanevano onnipresenti, la cui memoria e la cui condanna pesavano come un monito permanente. Il socialismo reale era una prigione, ma questa gabbia di ferro sembrava giustificata da profonde ragioni storiche. Lo stalinismo era l’antitesi di tutto ciò per cui si erano battuti, ma possedeva la legittimità di una teleologia storica di cui la sconfitta del nazismo sembrava essere la conferma. Questo è il retroterra del sorriso triste di Lukács nel 1952.

Un’opera controversa come La distruzione della ragione va rivalutata, al di là dell’aura demoniaca e oscura che la pervade, assegnandole la posizione di rilievo che le spetta nella storia del pensiero del XX secolo. Nel 1953, anno della sua prima pubblicazione in Germania, infuriava la guerra fredda e le diatribe sulle origini del nazionalsocialismo si erano sopite. In Occidente il libro fu considerato un esempio sofisticato di propaganda stalinista, oggetto di condanne sommarie più che di un esame critico, mentre l’intellighenzia comunista ortodossa guardò con sospetto il lavoro di un marxista poco affidabile, ancora circondato da un’aura di eresia, la cui reputazione rimaneva macchiata da una vecchia scomunica: la condanna sovietica ufficiale di Storia e coscienza di classe (1923).

Gli studiosi solitamente distinguono almeno quattro tappe nella traiettoria intellettuale di Lukács. C’è innanzitutto il momento giovanile, premarxista, romantico, per alcuni versi messianico e certamente idealista, rappresentato da opere acclamate come L’anima e le forme (1912) e Teoria del romanzo (1916). Segue un secondo momento “estremista”, quando Lukács divenne comunista e partecipò alla rivoluzione ungherese di Béla Kun, in cui produsse quello che è considerato il suo lavoro marxista più creativo: Storia e coscienza di classe. Il terzo momento è quello dello stalinismo, compreso fra gli anni Trenta (preceduto nel 1928 dalle “Tesi di Blum”) e la rivoluzione ungherese del 1956, nella quale il vecchio filosofo rimase, ancora una volta, direttamente coinvolto. Si tratta della fase più lunga, oscura e produttiva, vissuta in Unione Sovietica e nell’Ungheria del dopoguerra, i paesi in cui Lukács scrisse le sue principali opere di filosofia e critica letteraria, da Il romanzo storico (1936) a Il giovane Hegel(1948, ma completato nel 1938), e i suoi molteplici studi sul realismo letterario. C’è poi un’ultima fase, dal 1956 alla morte nel 1971, in cui abbandonò lo stalinismo e creò la “Scuola di Budapest”, nella quale prese forma una nuova generazione di pensatori critici. In questo periodo Lukács scrisse la sua ultima grande opera, Ontologia dell’essere sociale (1972). La distruzione della ragione appartiene alla terza fase, lo stalinismo, di cui è uno specchio eloquente. Scritto sostanzialmente durante la Seconda guerra mondiale e completato nei primi anni Cinquanta – l’introduzione è datata novembre 1952 –, il libro riassume uno studio al quale aveva dedicato le sue energie intellettuali fin dall’ascesa al potere di Hitler4.

Il periodo stalinista di Lukács è caduto in una sorta di limbo, meno indagato delle sue creazioni romantiche giovanili o delle sue avventure dialettiche al tempo del bolscevismo rivoluzionario. Si tratta di un oblio comprensibile ma ingiusto, perché il Lukács di quegli anni terribili era comunque uno straordinario pensatore, le cui opere gettano luce sullo stesso stalinismo, sul suo significato e sulla sua sinistra “grandezza”, di cui tanti intellettuali rimasero prigionieri. Non suggerisco affatto di “riabilitare” Lukács né di banalizzare le sue responsabilità, ancora meno di sminuire i crimini dello stalinismo. Lo stalinismo, tuttavia, non fu né una patologia né una semplice “regressione”; fu il tentativo – questo è il segreto della sua “grandezza” – di creare una “nuova civiltà” con mezzi autoritari. Secondo Stephen Kotkin, acuto storico conservatore, “lo stalinismo non era solo un sistema politico, unito meno il dominio di un individuo. Era un insieme di valori, un’identità sociale, un modo di vivere”5. Nel campo dell’arte, il realismo socialista – una componente fondamentale di questa civiltà – fu ben più di una mera sacralizzazione del potere. Fu certamente la celebrazione estetica di un regime politico dispotico, ma fu anche, come sottolinea Boris Groys, una “radicalizzazione dialettica dell’avanguardia” tesa a canonizzare la rivoluzione e a produrre un’arte orientata al futuro6. Analogamente, lo stalinismo fu anche una filosofia della storia, di cui Lukács incarna una delle espressioni più interessanti. Rileggere La distruzione della ragione è quindi parte di una necessaria storicizzazione critica dello stalinismo. Questa esegesi, tuttavia, è diversa dalla reinterpretazione di autori come Nietzsche, Jünger, Heidegger o Schmitt. Con Lukács il problema non consiste tanto nel fare un buon uso delle teorie reazionarie, né nel riconoscere che un filosofo fascista possa essere un pensatore acuto e interessante, meritevole di attenzione. “Usare” questi autori non significa legittimarne le idee o le scelte politiche, perché essi appartengono al campo avverso. Si può imparare dal nemico. Il caso di Lukács è diverso perché le sue opere staliniste esprimono la logica di un filosofo della sinistra. Certo lo stalinismo si macchiò di orribili crimini, ma durante la Seconda guerra mondiale – uno scontro titanico tra l’alleanza degli eredi dei Lumi e le forze più radicali dell’anti-Illuminismo – i difensori della libertà e della democrazia stavano dalla sua parte. Questa dialettica della storia è al centro de La distruzione della ragione. La visione antitotalitaria di Friedrich Hayek e François Furet, per i quali Hitler e Stalin erano nemici intercambiabili del liberalismo e della società di mercato, è diventata un luogo comune alla fine del XX secolo. Tra il 1941 e il 1945, tuttavia, nessuno era disposto a prendere sul serio gli assiomi della filosofia neoliberale, che apparivano dogmatici e irrealisti, espressione dell’impotenza politica di un gruppo di dottrinari che predicavano nel deserto. Fare i conti con lo stalinismo anziché limitarsi semplicemente a condannarlo con argomenti etici e politici; comprenderne le radici storiche senza dimenticare, sminuire o perdonare i suoi crimini: questo è il compito a cui, tre decenni dopo la fine dell’Unione Sovietica, ci invita la rilettura del libro di Lukács. Né ridere né piangere ma comprendere: una rilettura de La distruzione della ragione dovrebbe prefiggersi questo scopo.


Note
1 Hannah Arendt, Martin Heidegger a ottant’anni, in “Micromega”, 2, 1988, p. 178.
2 Cfr. Leo Strauss, Scrittura e persecuzione (1952), trad. it. di G. Ferrara e F. Profili, Marsilio, Venezia 1990, p. 22.
3 Ringrazio Sonia Combe per avermi segnalato questa foto, che ora illustra la copertina del suo notevole saggio La loyauté à tout prix. Les floués du “socialisme réel”, Le bord de l’eau, Paris 2019.
4 Lukács aveva già esposto il nucleo centrale della sua interpretazione del fascismo in alcuni scritti degli anni Trenta, oggi raccolti in Id., Intellettuali e irrazionalismo, a cura di Vittoria Franco, Ets, Pisa 1984. Si vedano in particolare tre saggi: Gli intellettuali tedeschi e il fascismo (1930), pp. 113-118; Gli intellettuali tedeschi (1932), pp. 127-132; e la prima parte di Grand Hotel “Abisso” (1933), pp. 213-219. Cfr. anche Zoltan Tar e Judith Marcus, Recent Lukács Scholarship in Eastern Europe: A Trend Report from Hungary, in “Studies in Soviet Thought”, vol. 31, 1, 1986, pp. 29-30.
5 Stephen Kotkin, Magnetic Mountain: Stalinism as Civilization, University of California Press, Berkeley 1995, p. 23
6 Boris Groys, The Total Art of Stalinism: Avant-Garde, Aesthetic Dictatorship, and Beyond, trad. di Ch. Rougle, Verso, London-New York 2011, p. 113.

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