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Scandalo sovrano. Cento anni di "Teologia Politica" di Carl Schmitt

di Federico Zuolo

carlschmittTalvolta il successo di opere polemiche trascende il momento. Può dipendere dalla bontà delle idee e degli argomenti. Oppure la polemica può riuscire a creare un nemico grottesco e impossibile, uno straw man d’autore che diviene tanto importante quanto la tesi stessa dell’opera. Spesso il successo proviene da esigenze postume di confronto critico con altre questioni di cui la polemica iniziale non è che un comodo pretesto. La fortuna enorme di Teologia politica di Carl Schmitt, ingombrante e paradossale come la sua tesi, discende da tutti questi motivi.

In occasione del centenario della prima edizione di Teologia politica, Mariano Croce e Andrea Salvatore hanno curato una preziosa e originale raccolta di saggi (Teologia politica cent’anni dopo¸ Quodlibet, 2022) che include contributi che coprono prospettive diverse e articolate. A differenza di molti scritti d’occasione, questo volume non è meramente commemorativo: tocca nervi ancora scoperti e mette ordine nella materia di un testo tutt’ora vivo e ambiguo. A tutti nota per la famosa tesi sulla natura del sovrano (“colui che decide sullo stato di eccezione”), quest’opera ha annebbiato l’esegesi di molti interpreti e ha fatto intendere tutto il pensiero schmittiano secondo questa chiave. Il decisionismo schmittiano, l’eccezionalismo, la natura extragiuridica della sovranità e la dimensione visceralmente esistenziale del sovrano, assieme alle tesi altrettanto note de Le categorie del politico (la natura strutturalmente agonistica della politica) hanno messo in secondo piano tesi ben più articolate, anche se non meno controverse, del pensiero schmittiano.

La stragrande maggioranza degli interpreti ha cercato di fondere, sotto i termini dell’eccezionalismo e del decisionismo, altre tesi altrettanto importanti (la ricerca dell’ordine terreno di cui il cattolicesimo romano è emblema, la fine del nomos della terra, l’istituzionalismo giuridico della maturità). Invece, negli ultimi tempi, la ricerca schmittiana ha messo in luce le tensioni di tutti questi elementi. In particolare il lavoro di Mariano Croce e Andrea Salvatore (oltre ai saggi inclusi nella presente raccolta, si devono citare almeno Carl Schmitt’s Institutional Theory: The Political Power of Normality, Cambridge University Press, 2022; L’indecisionista. Carl Schmitt oltre l’eccezione, Quodlibet, 2020) ha mostrato come l’eccezionalismo della Teologia politica venne poi superato da una più matura riflessione istituzionalista in cui il fondamento dell’ordine non proviene tanto da un momento decisionista ulteriore rispetto alla struttura giuridica, bensì dalla multiforme esistenza fattuale di norme, istituzioni e pratiche sociali incardinate nella realtà effettiva.

Al netto della bontà del lavoro esegetico della scholarship schmittiana, rimane un interrogativo più generale che pertiene tanto a Schmitt quanto ai suoi interpreti. Perché un piccolo saggio come Teologia politica ha avuto una risonanza così duratura, nonostante la sostanziale ritrattazione dell’autore stesso e nonostante l’essersi posto volutamente come un rapporto ostinato di minoranza contro quella che viene vista come la tesi maggioritaria? La risposta può stare nella stessa domanda, ovvero nel fascino perverso ma facile della radicalità di minoranza. Radicalità che si presenta come scandalosa, anche se forse non così nuova nella sostanza. Questa risposta, però, manca sia la grandiosità della ragione che sta nel testo stesso, sia la piccineria delle motivazioni di molti che si sono crogiolati in tesi troppo facilmente controverse.

La grandiosità risiede nell’avanzare senza remore una tesi radicale. Secondo Teologia politica i sistemi giuridici, di cui la sovranità è l’apice, sono incompleti poiché non possono autofondarsi e devono necessariamente dipendere da un inizio o da una fine amorale. La presunzione di completezza e correttezza formale dei sistemi giuridici, in particolare, dice Schmitt, quelli liberali, è l’emblema della modernità che vorrebbe fare a meno della decisione sovrana, cioè del sovrano come entità e come persona.

Ma a ben vedere questa tesi è tanto convincente e radicale quanto limitata nel suo bersaglio. Il termine polemico ad quem è notoriamente ed esplicitamente il formalismo positivistico kelseniano che perseguiva un ideale tanto elegante quanto impossibile di autodescrizione e autofondazione del sistema giuridico. Nel cercare di comprendere la struttura autonoma del sistema giuridico, Kelsen perseguiva un principio di comprensione scientifica, alla base della dottrina giuridica come sapere autonomo, non contaminato da istanze etiche o sociologiche. Schmitt, pur perseguendo un ideale di scienza giuridica avalutativa, rifiuta l’idea kelseniana di autonomia e chiusura dei sistemi giuridici. In tal senso, le implicazioni generali delle tesi schmittiane andrebbero per lo più ridimensionate all’intento fondamentalmente giuridico della sua analisi. Ciò vale a dire che il portato polemico potrebbe esaurirsi con Kelsen e poco altro. Infatti, la maggioranza dei teorici del liberalismo, giuridico, etico e politico, non hanno mai avuto problemi ad ammettere un’origine non giuridica, non morale e non commendevole del diritto, o una sua eventuale sospensione nel limitare di esigenze particolari. L’ideale di chiusura del sistema giuridico e la pretesa di autocompimento sono esigenze autoimposte dal sistema kelseniano, non dal liberalismo o dai sistemi giuridici tout court.

Gli interpreti schmittiani hanno variamente marciato sui limiti del proceduralismo e del neutralismo liberale. La tesi esegetica, poi risultata vincente, ha additato l’incapacità del sistema di norme liberali di comprendere il bisogno di un fuori sovrano, cioè di una decisione o di una dimensione fattuale indipendente dal sistema di norme stesse. Il fuori violento, il fuori ordinario, il fuori mitico, o anche il fuori sostantivamente etico, non neutrale, è ciò che dovrebbe costituire il fondamento indicibile del sistema. Torrenti di inchiostro, migliaia di pagine su questo scandaloso non detto: un discorso così asseverato che molti si sono convinti della sua veridicità.

Ma il vero paradosso non sta nella tesi schmittiana, bensì nel fatto che quasi nessuno ha mai negato la realtà dell’origine impura del diritto, così come la sua dipendenza dalla decisione in momenti eccezionali. Piuttosto i sistemi e i teorici liberali hanno cercato di limitarne il peso e di ricondurre l’origine a una giustificazione razionale. Ma cercare di limitare lo spettro delle eccezioni o di trovare una giustificazione razionale non vuol dire negare che il sistema giuridico come un fatto sociale e storico abbia un’origine e un limite non giuridificabile e forse non dicibile (pubblicamente). I pensatori liberali, e normativisti in generale, hanno piuttosto cercato di dare una ragione della legittimità e dei limiti, così come delle eventuali eccezioni, di un sistema di norme (presuntamente giuste e incardinate in un sistema di giustizia). Nella filosofia della scienza è normale distinguere il contesto di giustificazione dal contesto di scoperta. Le scoperte scientifiche, infatti, sono talvolta fatte in modalità fortuite o apparentemente irrazionali. Senza giungere alla favoletta della mela di Newton, è risaputo che molte scoperte scientifiche hanno un’origine fattuale che non rende ragione della loro validità. Per questo si distingue l’origine dalla giustificazione che se ne può dare. Con le dovute differenze, si può pensare che anche i sistemi giuridici abbiano un’origine e dei margini di esercizio (il contesto di scoperta) che non fanno giustizia del valore che pretendono di avere (il contesto di giustificazione).

Quindi, la presunta scandalosità della tesi schmittiana potrebbe ridursi a un equivoco. Il presumere che la denuncia del contesto di scoperta equivalga una sconfessione della sua giustificazione. Ma di equivoco non si tratta poiché in realtà Schmitt, e molti epigoni con lui, sembrano semplicemente negare il senso e la possibilità della giustificazione come distinta dalla ricostruzione originaria. Questa idea, l’usare l’origine di un fenomeno come arma contro la presunta validità della giustificazione del fenomeno stesso, è un’implicazione del pensiero schmittiano che molti hanno tratto (incluso Schmitt stesso).

Di fronte a questa tesi si hanno due strade: o il realismo politico che sfocia nella scienza politica in senso stretto, o la ricerca di una giustificazione dell’ordine che non sia vittima della critica mossa alle teorie liberali-normativiste. Schmitt sembra prendere la prima strada adottando una prospettiva apparentemente sempre descrittiva e scevra di impegni valoriali e normativi. Ma è solo un’impressione. Le sue ricostruzioni del cattolicesimo romano come principio di ordine, la nozione di katechon come argine al caos terreno, il rimpianto verso il nomos della terra, la preferenza per gli stati di terra rispetto a quelli marittimi, sono tutte nozioni gravide di impegno valoriale. Quindi ci ritroviamo con la seconda opzione. Ma è quanto dubbio che queste idee possano costituire un’alternativa valida ad altri principi di ordinamento. Si tratta di principi extra giuridici, e in tal senso rispettano l’idea di Teologia politica, cioè la non-autosufficienza del sistema giuridico. Ma dipendono pesantemente da una filosofia della storia e da una teologia che vede la realtà storica come essenzialmente corrotta e bisognosa di un ordine trascendente.

Oltre a questo, rimane da spiegare l’elemento più paradossale, il non detto della questione, che è ancora più scandaloso delle tesi solo apparentemente scandalose di Schmitt: il motivo del suo successo. Qui ovviamente non si può che abbozzare soltanto un discorso molto più ampio e complesso. L’elemento più interessante e controverso è, ça va sans dire, il successo di Teologia politica in vari ambiti post-marxisti e radicali di sinistra. Non c’è bisogno di ricordare il rapporto più che ambiguo di Schmitt con il nazismo per segnalare il problema di questa appropriazione. Indipendentemente da questo, il decisionismo di Teologia politica, ma anche l’istituzionalismo successivo, sono sempre stati considerati architravi di posizioni politiche reazionarie, per la glorificazione del capo sovrano, o per lo meno conservatrici, per l’adorazione della fattualità come principio di legittimità.

Seguendo un’ipotesi esplicativa simpatetica, ma non connivente, si potrebbe ritenere che Teologia politica fornisca un armamentario critico poiché svela il neutralismo liberale come una presunzione illusoria. Denunciando l’origine indicibile e non detta dell’ordine giuridico liberale, la prospettiva schmittiana demistifica definitivamente la pretesa delle procedure e delle leggi di dare una forma giusta e legittima alla realtà. Il problema di questa lettura, parziale e autoconsolatoria, è evidente anche senza considerare l’indigeribilità da sinistra dei rimedi schmittiani (il cattolicesimo romano, il katechon, la terra opposta al mare). Infatti, lo svelamento dell’origine indicibile dell’ordine giuridico che fa Schmitt è inservibile per ogni genuina teoria critica. Qualsiasi sia la prospettiva specifica, la critica ha un intento pratico di liberazione: mostrando il non-detto dietro all’apparenza giustificata di un ordine sociale, si mira a ribaltarlo, cambiarlo o anche soltanto a comprenderlo per quello che è: un ordine imposto e non naturale, di cui solo qualcuno beneficia. Fare tutto questo, seguendo una prospettiva schmittiana, è impossibile, non soltanto perché Schmitt ha ben altri scopi (di iperconservazione e non di liberazione) ma anche perché il presunto svelamento schmittiano (la decisione sovrana come origine e limite dell’ordine) in realtà non svela nulla. Infatti, la tesi di Teologia politica non ha un potere esplicativo-ricostruttivo, o genealogico, nel ricostruire quali passaggi storici e teorici hanno portato alla costruzione di un certo ordine. Non solo Schmitt non ci dice che l’ordine è ingiusto, ma non ci dice neanche perché si è giunti a un certo tipo di ordine. Niente conflitto di classe e struttura-sovrastruttura; niente microfisica del potere e dispositivi di controllo neoliberali; niente apparato di dominio patriarcale. In Teologia politica abbiamo solo il fatto, meta-storico, meta-descrittivo e in fondo solo metafisico, della decisione che sta fuori e ai margini dell’ordine giuridico. Ma questa decisionalità, il sovrano, non ha caratteri propri in qualche misura utili per comprenderne la problematicità (il dominio, la violenza, il carisma manipolatore o altro). È una pura capacità di decisione e in quanto tale vuota. Possiamo sicuramente presumere che l’entità sovrana abbia un surplus di carisma o di capacità di imporsi, oppure che abbia dalla sua parte la forza e la violenza. Ma tutto ciò, oltre a non essere un problema nella prospettiva schmittiana, non è nemmeno ciò che ci viene spiegato in qualche modo. Schmitt è solo interessato a mostrarci l’esistenza di un fuori dell’ordine, un fuori che lo crea e ne limita la possibilità, la durata e l’esistenza. Lo svelamento, se c’è svelamento, è uno squarcio sul niente.

Quindi, se queste tesi sono in fondo inservibili per una funzione critica, si ripropone la domanda sul successo di Schmitt fuori dagli ambiti ristrettissimi del pensiero neo-reazionario. L’ipotesi finale, solo abbozzata e bisognosa di ben più ampia ricognizione, ci porta a un sospetto antipatico ma inevitabile: condividere il nemico (il liberalismo e il normativismo) ha portato parte del radicalismo nelle braccia schmittiane. Qui non si vuole agitare lo spettro grottesco e sopravvalutato dei rosso-bruni. La questione è teorica, ancora prima che politica. Chi ha adottato una prospettiva schmittiana pur provenendo da un ambito non-conservatore, lo ha fatto per un rifiuto implicito o esplicito dell’ideale universalista e normativo delle teorie liberali. E lo ha fatto per mostrare la natura incompleta, illusoria, o politica, cioè non-neutrale di queste teorie. Ma nel farlo tramite Schmitt si è anche precluso la possibilità di superare quanto viene denunciato.

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