Zeitgeist
di Enzo Traverso
Da Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre Corte, Verona 2022
La distruzione della ragione non rispecchia soltanto un momento particolare nella traiettoria intellettuale e politica di Lukács. Quest’opera testimonia anche di un momento significativo della cultura del dopoguerra. Al di là delle intenzioni dell’autore, essa fu parte di un ampio dibattito sulle origini del nazionalsocialismo e le cause della catastrofe tedesca che segnò per più di un decennio la cultura dell’Europa centrale e quella degli esuli antifascisti, soprattutto ebrei, negli Stati Uniti. Il libro di Lukács fu l’ultimo intervento in questo dibattito e probabilmente l’unico contributo di grande rilievo proveniente dal lato orientale della cortina di ferro. Ultimo per la data di pubblicazione, benché sia stato scritto per lo più durante la guerra1. Esso concluse un periodo di riflessione filosofica e politica che, iniziato durante la Seconda guerra mondiale, aveva già prodotto un’impressionante costellazione di opere. Molti contributi a questo dibattito mettevano l’accento sul rapporto tra nazismo e irrazionalismo, come si evince facilmente da una breve rassegna.
Nel febbraio 1941 un rappresentante del liberalismo conservatore come Leo Strauss tenne una conferenza alla New School for Social Research di New York, in cui definì il nichilismo tedesco “il rifiuto dei principi della civiltà in quanto tale”, intesa come “cultura consapevole della ragione”2. Nello stesso anno Herbert Marcuse e Karl Löwith pubblicarono rispettivamente Ragione e rivoluzione e Da Hegel a Nietzsche, opere che proponevano letture diverse – per molti aspetti agli antipodi – dell’eredità di Hegel, convergendo tuttavia nel definire il nazionalsocialismo come una nuova forma di irrazionalismo antihegeliano3.
Un anno dopo, Franz Neumann pubblicò Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, che descriveva il sistema di potere di Hitler come “un non-stato, un caos, un regno dell’illegalità e dell’anarchia”, un potere totalitario che aveva “‘soffocato’ i diritti e la dignità dell’uomo” e aveva cercato di “trasformare il mondo in un caos con la supremazia su grandi estensioni di territorio”4. In breve, il regno dell’irrazionalismo. Nel 1945 Karl Popper, allora esiliato in Nuova Zelanda, pubblicò La società aperta e i suoi nemici, in cui tracciava una sorprendente genealogia del totalitarismo moderno visto come un lungo tragitto che andava da Platone a Hitler, passando per Hegel e Marx, difensori rispettivamente di forme di storicismo e utopismo opposti alla razionalità liberale. L’anno seguente, in un paese ancora in rovina, l’anziano storico Friedrich Meinecke pubblicò La catastrofe tedesca, che metteva in discussione l’intera storia della Germania moderna a partire dalla Riforma, mentre Karl Jaspers riassunse le sue tormentate riflessioni ne La questione della colpa5. Sia Meinecke che Jaspers avevano vissuto in Germania durante l’età dell’hitlerismo e della guerra, il primo come stimato e leale studioso, il secondo come rappresentante della cosiddetta “emigrazione interna”. Entrambi esprimevano la coscienza turbata di una nazione sconfitta nel cui nome erano stati perpetrati i crimini più orribili. Le loro opere forniscono un’istantanea dello stato d’animo di un paese che aveva improvvisamente raggiunto lo status di paria agli occhi della comunità internazionale6. Fuori dalla Germania, altre opere importanti apparvero nel 1946, come Da Caligari a Hitler di Siegfried Kracauer o Il mito dello Stato di Ernst Cassirer, Kracauer esaminava i film espressionisti dell’epoca di Weimar come specchio di una trasformazione psicologica della società tedesca che preparava l’avvento di un potere autoritario. Cassirer, il vecchio filosofo neokantiano che aveva pubblicato una storia dell’Illuminismo alla fine della repubblica di Weimar, ricostruì la perversa strada della sua distruzione attraverso una rinascita del mito, declinato in tre varianti principali: il mito dell’eroe, il mito della razza e quello dello Stato7. Nel 1947, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, ancora in esilio in California, pubblicavano Dialettica dell’illuminismo, un saggio che rovesciava la filosofia della storia di Hegel descrivendo la lunga traiettoria della civiltà occidentale dall’antichità Auschwitz: il compimento dello spirito assoluto non era altro che un processo inesauribile di “autodistruzione della Ragione occidentale” (Selbstzerstörung der Vernunft)8. Nello stesso anno Thomas Mann diede forma letteraria all’idea del destino irrazionale della Germania nel suo romanzo allegorico Doctor Faustus, narrazione della follia di Adrian Leverkühn, genio musicale affascinato dal demonio9. Nel 1951, nel clima del maccartismo, Hannah Arendt pubblicò Le origini del totalitarismo, un capolavoro di teoria politica che fondeva in modo poco convincente le genealogie del nazionalsocialismo e dello stalinismo come le due facce di Giano dello stesso regno di ideologia e terrore10.
Tutti i pezzi di questa costellazione eterogenea nascevano da una domanda comune: perché Hitler? Perché il collasso dello spirito tedesco? Perché il paese dell’Aufklärung si era trasformato nel regno di una moderna Apocalisse, nel luogo della concezione e dell’attuazione dei peggiori crimini della storia umana? In modi diversi, adottando approcci e categorie analitiche talvolta divergenti, tutte queste opere cercavano di comprendere e spiegare l’avvento dell’irrazionalismo nella Germania del Novecento. La distruzione della ragione non cita questi libri – probabilmente il suo autore non conosceva neppure alcuni di essi – ma senza dubbio appartiene alla stessa costellazione, condivide lo stesso Zeitgeist e cerca di rispondere alle stesse domande. Mito, irrazionalismo e nichilismo sono i concetti più condivisi di questa grande letteratura della Stunde Null tedesca, l’“ora zero” che nel dopoguerra segnò una rottura radicale con il nazismo. Le discrepanze tra Lukács e Adorno, Arendt e Strauss erano certamente molto significative, ma tutti si erano ritrovati nello stesso campo durante lo spartiacque storico della Seconda guerra mondiale, in un conflitto ideologico che, ben oltre due alleanze militari e politiche, opponeva due visioni del mondo: le forze dell’Illuminismo contro quelle dell’irrazionalismo, l’alleanza provvisoria tra il comunismo e la democrazia liberale contro il fascismo. Nonostante il suo stile fortemente – spesso fastidiosamente polemico, La distruzione della ragione si fonda interamente su questo presupposto di base.
Sottolineando che lo sviluppo dell’irrazionalismo non possedeva un carattere “immanente”, guidato dalla dialettica interna del pensiero filosofico, ma era piuttosto intimamente legato alla dinamica dei rapporti e dei conflitti di classe, Lukács metteva in luce le basi strutturali dell’irrazionalismo tedesco11. Lungi dall’essere un incidente storico, il regime nazista incarnava le tendenze più aggressive ed espansionistiche dell’imperialismo. Il primo capitolo, dedicato ad “alcune caratteristiche dello sviluppo storico della Germania”, presentava la versione marxista di un’interpretazione oggi nota attraverso il concetto di Sonderweg, la “via speciale” alla modernizzazione che aveva contraddistinto la Germania, separandola così dal resto dell’Europa. Le premesse di questo approccio erano apparse ne La catastrofe della Germania di Meinecke, dove l’impero prussiano era già raffigurato come luogo di un “percorso sbagliato” (Irrweg) che si allontanava dalla retta via della civiltà occidentale12. Durante la Prima guerra mondiale, molti studiosi tedeschi avevano ferocemente rivendicato le peculiarità storiche della terra di Lutero, Federico il Grande e Bismarck, raffigurata da Werner Sombart come la terra degli “eroi” (Helden) contrapposti a un’alleanza di “mercanti” (Händler). Lo stesso Meinecke aveva rivendicato la difesa della Kultur contro le forze corruttrici della Zivilisation e “le idee del 1914” contro i valori del 178913. Alla fine della Seconda guerra mondiale, tuttavia, questa diffusa e orgogliosa rivendicazione di un Sonderweg tedesco subì improvvisamente una sorta di inversione negativa con la stigmatizzazione dell’intera storia della Germania, bollata ora come una sequenza di sconfitte e tragici errori14. La “via speciale” verso la gloria si era trasformata in una lunga corsa verso l’abisso. Lukács fece propria questa visione riformulandola in termini marxisti. Citando un famoso saggio di Engels sulla guerra dei contadini tedeschi del XVI secolo e un meno noto libro di Lenin che denunciava il “romanticismo economico” dei populisti russi, il filosofo ungherese metteva l’accento sulle conseguenze di una successione di sconfitte storiche. In primo luogo, la Riforma aveva lacerato durevolmente il paese senza creare uno spirito borghese moderno. La Germania non conobbe il calvinismo ma piuttosto il luteranesimo, un autoritarismo politico e una cupa propensione all’obbedienza che fornì “una base spirituale, un fondamento morale all’arretratezza economica, sociale e culturale”15. A differenza della Francia e della Gran Bretagna, che avevano compiuto le loro “rivoluzioni borghesi” nel XVII e XVIII secolo, la Germania aveva mancato la sua trasformazione democratica nel 1848. Questo fallimento aveva rafforzato l’assolutismo prussiano creando le premesse dell’unificazione nazionale sotto la guida reazionaria di Bismarck. Infine, la sconfitta del 1918 produsse certo il crollo del Kaiserreich, ma invece di avviare una vera democratizzazione del paese, ne esacerbò le tendenze nazionaliste.
In breve, il nazionalsocialismo non fu un incidente della storia: fu il risultato inevitabile di un percorso nazionale che combinava uno sviluppo capitalistico tardivo, estremamente intenso e lacerante, con la persistenza di uno Stato arcaico, premoderno e autoritario, uno Stato che conservava tutti i tratti dell’assolutismo. Partendo da queste premesse, il nazionalismo esacerbato, il razzismo e l’irrazionalismo sfociarono in una forma peculiare di modernismo reazionario. Nei decenni tra le due guerre, questa sintesi contraddittoria di arretratezza culturale, potenza economica, sviluppo tecnologico e autoritarismo politico era diventata una miscela esplosiva. Il nazismo fu il risultato di questa traiettoria storica. In fondo, la visione del mondo nazista era solo il culmine di un lungo processo che Lukács riassume in una frase: la distruzione della ragione. Naturalmente, l’imperialismo era una “tendenza internazionale” e molte correnti ideologiche di questa ondata tedesca verso l’irrazionalismo avevano illustri presentanti in Francia, Italia, Regno Unito, Spagna e altri paesi europei. In realtà, potremmo aggiungere, la “rivoluzione dall’alto” prussiana non era affatto eccezionale. Aveva diversi equivalenti in Europa – Gramsci definì il Risorgimento italiano una “rivoluzione passiva” – e altrove, dalla Turchia (il kemalismo) al Giappone (la rivoluzione negli anni Sessanta dell’Ottocento). L’idea di un Sonderweg tedesco supponeva inoltre, almeno implicitamente, una norma europea di transizione alla modernità sociale e politica – un passaggio che la storiografia marxista esprimeva attraverso il concetto di “rivoluzione borghese” – la cui esistenza empirica rimane assai problematica da dimostrare16. Nella maggior parte dei paesi europei, il giacobinismo fallì e il rovesciamento dell’assolutismo fu il risultato delle guerre napoleoniche e delle riforme bonapartiste più che la conseguenza di rivoluzioni borghesi-democratiche autoctone. All’inizio degli anni Cinquanta questo dibattito storico era appena iniziato, ma Lukács voleva distinguere il suo modello interpretativo dall’idea diffusa di una “colpa tedesca” di natura ontologica, talvolta formulata in termini quasi razzisti. Cercò quindi di sfumare le sue argomentazioni: l’irrazionalismo era una tendenza internazionale e l’imperialismo aggressivo non poteva essere considerato una peculiarità tedesca, ma ai suoi occhi “la Germania del xix e del xx secolo rimane la terra ‘classica’ dell’irrazionalismo”17. Nonostante una costellazione di pensatori conservatori inglesi, francesi, italiani e spagnoli ferocemente contrari all’Illuminismo, concludeva Lukács, la Germania rimaneva il cuore di questo fenomeno internazionale.
Domenico Losurdo, che condivideva l’interpretazione lukacsiana di Nietzsche come apogeo della reazione europea nella filosofia ottocentesca, ha espresso il suo scetticismo nei confronti di questa versione marxista della teoria del Sonderweg. Lukács aveva colto magistralmente le radici europee del pensiero dialettico di Hegel (la Rivoluzione francese, l’Illuminismo e il liberalismo classico), ma era rimasto quasi del tutto indifferente alle origini intellettuali francesi e inglesi dell’irrazionalismo tedesco. A parte Arthur Gobineau, egli non aveva presta attenzione ad autori francesi come Joseph de Maistre, Maurice Barrès, Gustave Le Bon e Georges Vacher de Lapouge, italiani come Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Gentile e Julius Evola, o spagnoli come José Ortega Gasset, né ai teorici britannici razzisti come Francis Galton e Benjamin Disraeli18.
In fondo, la visione dell’irrazionalismo hitleriano proposta da Lukács era l’equivalente filosofico della definizione canonica del fascismo formulata da Georgi Dimitrov nel 1935: “la dittatura aperta e terroristica degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario”19. Come ho già sottolineato, La distruzione della ragione fu uno dei pochi contributi significativi al dibattito postbellico sul nazismo provenienti dal lato orientale della cortina di ferro. Lungi dall’essere aneddotico, questo fatto ha molte implicazioni. Gli attori di questa controversia transatlantica erano intellettuali antifascisti, vittime del nazionalsocialismo, ebrei ed esuli. Essi esprimevano, come Thomas Mann o Karl Jaspers, l’abissale tragedia della coscienza tedesca; interrogavano, come Hannah Arendt, la fine di un ciclo ebraico della storia tedesca; o meditavano, come i pensatori della Scuola di Francoforte, sulle antinomie della civiltà occidentale. Il loro sguardo era tedesco e, in termini più generali, occidentale. Lukács partecipò a questo dibattito dall’esterno, come filosofo situato al di fuori di questo scambio transatlantico: viveva a Budapest e la sua collocazione sia geopolitica che intellettuale – la sua prospettiva epistemica, potremmo dire – era diversa. Egli ricostruiva infatti dall’interno il processo di disintegrazione della filosofia tedesca, ma non scriveva come un tedesco sconfitto che contemplava una nemesi storica né come un ebreo sfuggito al diluvio. Ebreo ungherese di lingua tedesca, egli non adottava la posizione della vittima né quella del vinto, ma quella di un pensatore situato dal lato dei vincitori. Egli non scriveva, come Thomas Mann, in quanto tedesco che osservava l’orribile spettacolo del suo paese completamente distrutto e ne accettava la punizione come nemesi ineluttabile. Scriveva come un pensatore che coglieva il soffio della Ragione storica nella bandiera sovietica issata in cima al Reichstag in rovina da un soldato dell’Armata Rossa. Come spiega Reinhart Koselleck, lo sguardo dei vincitori è generalmente apologetico, ben poco critico20. Lo sguardo di Lukács era apologetico, ma difendeva le ragioni di un vincitore che aveva combattuto una guerra giusta. Possiamo analizzare criticamente il processo di Norimberga come un classico esempio di giustizia dei vincitori: nel 1946, tuttavia, i suoi verdetti furono universalmente accolti come un atto di giustizia, giustizia tout court, ovvia e inappellabile al di là delle obiezioni dei cultori del diritto penale. Il manicheismo de La distruzione della ragione rispecchia quello dei vincitori della seconda Guerra dei trent’anni.
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