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Althusser, Spinoza e la rivoluzione nella filosofia

Warren Montag a colloquio con George Souvlis

George Souvlis ha intervistato per Salvage (qui l'intervista in ingleseWarren Montag, professore di Letteratura Inglese e Comparata presso l’Occidental College di Los Angeles, studioso dai forti interessi politici e filosofici che ha scritto tra l’altro su Jonathan Swift, Spinoza, pensatori francesi contemporanei come Althusser e Pierre Macherey e, ultimamente, il fondatore dell’Economia Politica, Adam Smith

althusser 1024x800Il caso e la filosofia

Vuoi presentarti cominciando dalle esperienze formative (accademiche e politiche) che ti hanno maggiormente influenzato?

La mia formazione politica e intellettuale è stata governata – e immagino sia stato giusto così - da una ‘logica dell'incontro’: sono stato straordinariamente fortunato, insomma. Se non fossi stato al posto giusto al momento giusto, e vicino alle persone giuste, non avrei mai pensato o scritto come ho pensato e scritto. Nella seconda metà degli anni Settanta a Los Angeles (dov’ero tornato dopo la laurea presa a Berkeley), ho incontrato Geoff Goshgarian e Mike Davis, con i quali abbiamo subito formato una specie di collettivo, comprendente anche qualche altro elemento (in particolare ricordo Samira Haj, che adesso insegna storia alla CUNY, credo). Organizzammo un gruppo di studio per leggere i tre volumi del Capitale, Late Capitalism di Mandel e altri libri.

Attraverso Mike (da poco rientrato dalla Gran Bretagna, dove si era avvicinato all’International Marxist Group) conobbi il trotskismo della Quarta Internazionale (o più precisamente la sua tendenza dominante), cioè quello di Mandel, Krivine, Bensaid, Tariq Ali e gli altri. Questa varietà di trotskismo, che in pratica negli Stati Uniti all’epoca non era presente, consisteva in larga misura nella codificazione delle esperienze politiche del 1968 a livello internazionale, mettendo insieme democrazia diretta dei consigli operai, opposizione coerente ai regimi burocratici dell’URSS e dei suoi satelliti, e sostegno intransigente ai movimenti anti-coloniali e anti-imperialisti in tutto il mondo. Lo vedevo come un marxismo aperto, volto a cercar di comprendere le rispettive strategie di movimenti e tradizioni differenti, dalle forme di lotta armata presenti in America Latina alla Rivoluzione Culturale cinese fino a Solidarnosc in Polonia: ciascuna di queste esperienze, pur nel loro conclusivo, e in certi casi catastrofico, fallimento, impartiva determinate lezioni e illuminava problemi che non sarebbero emersi altrimenti. E si evitava di saltare all’automatica ‘denunzia’ basata su divergenze teoriche o programmatiche, prassi tipica dei gruppi trotskisti. Quegli infuocati dibattiti – sulla strategia rivoluzionaria in America Latina, ad esempio – mi affascinavano proprio perché nessuno dei contendenti condannava astrattamente… la realtà, colpevole di non corrispondere ad un modello teorico; si facevano invece dei genuini tentativi di pensare in chiave strategica su come un determinato movimento poteva compiere un’avanzata in una congiuntura specifica.

Attraverso la mia partecipazione a varie organizzazioni socialiste rivoluzionarie “multi-tendenza”, che intrattenevano relazioni amichevoli sia con la Quarta Internazionale che con la tradizione degli International Socialists, negli anni seguenti entrai in contatto con una serie di figure che oggi riconosco come straordinarie: ovviamente Mandel, poi Michael Lowy, Tariq Ali, Livio Maitan, Michel Pablo (alias Michaelis Raptis, un sostenitore esemplare della lotta di liberazione algerina);  messicani come Adolfo Gilly e l’attivista per i diritti umani Rosario Ibarra; e ancora il leader contadino peruviano Hugo Blanco, e Alex Callinicos degli International Socialists. Sono stato tra i membri fondatori del gruppo statunitense Solidarity, militando nel quale ho imparato moltissimo dai sindacalisti di Labor Notes e dei Teamsters for a Democratic Union. Dalla metà degli anni Settanta ai primi anni Novanta ho preso parte a una serie di movimenti: il movimento anti-apartheid, quello di solidarietà con il Centro America e quello di solidarietà con la Palestina; ho lavorato nella campagna Justice for Janitors e con il sindacato del settore alberghiero per organizzare il sostegno della comunità alle loro lotte; sono stato attivo anche nell’opposizione alla Guerra del Golfo.

Paradossalmente, quasi tutte le persone che mi erano vicine politicamente tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Novanta – accademici o meno – erano fortemente ‘anti-althusseriani’: magari da punti di vista molto diversi, ma in definitiva convinte che Althusser rappresentasse una prospettiva stalinista oppure un riformismo che si travestiva con il gergo strutturalista di moda all’epoca. E a dirla tutta il mio orientamento teorico iniziale era un po’ La società dello spettacolo di Debord e un po’ Storia e coscienza di classe di Lukacs: una miscela che mi predisponeva a rifiutare Althusser in base a quella che – erroneamente – pensavo fosse una posizione hegeliana. Tuttavia, spronato da Geoff Goshgarian, insieme al quale avevo cominciato a leggere attentamente le opere di Althusser, ho scoperto che la maggior parte dei suoi critici avevano ben poco da dire sui suoi testi veri e propri, e si concentravano invece su quello che – secondo loro – il filosofo francese intendeva per “umanesimo” o “storicismo”. Ricordo ancora oggi l’esperienza della prima lettura di ‘Contraddizione e Surdeterminazione’: quella strana combinazione di lucidità e densità di pensiero che è il segno distintivo delle migliori cose di Althusser. Ho capito subito che la stragrande maggioranza dei suoi critici non si stavano confrontando con ciò che lui aveva scritto, ma s’erano costruiti un Althusser immaginario che ci diceva parecchio riguardo a loro e pochissimo riguardo ad Althusser.

La mia “formazione” in pratica ha avuto poco a che fare con le realtà accademiche dell’epoca e molto di più con quello che ho letto insieme ad altri o per conto mio, al di fuori di ogni contesto istituzionale. Le prime cose che ho scritto si rivolgevano più o meno consapevolmente ad Althusser, Balibar, Macherey, a Michel Pêcheux, come se fossero i miei interlocutori, ben prima di conoscerli di persona. Questo fece sì che uno degli incontri più casuali che mi siano capitati  diventasse qualcosa di durevole. Nell’estate del 1983 arrivo a Parigi deciso a sviluppare il suggerimento di Althusser per cui ci sarebbe un legame essenziale tra ideologia e l’inconscio, e pertanto fra marxismo e psicoanalisi. Avevo scritto alle due persone che in quel momento più si interessavano alla questione: Michel Pêcheux, le cui ricerche su linguaggio, semantica e ideologia mi avevano influenzato parecchio, ed Elisabeth Roudinesco che all’epoca scriveva cose interessanti in campo teorico, prima di dedicarsi alla storiografia. Pêcheux in quel momento stava preparando una conferenza negli Stati Uniti, e aveva bisogno di un traduttore. Io avevo convinto la Roudinesco a incontrarmi, accettando poi di svolgere per conto suo alcune ricerche negli Stati Uniti. A questo punto lei mi chiede se c’è qualchedun altro che mi piacerebbe conoscere, e quando dico di aver scritto a Pêcheux senza ottenere risposta, lo chiama al telefono seduta stante. Gli fa una lavata di capo per non aver risposto alla mia lettera, poi mi passa la cornetta. La conversazione seguente assomiglia a una prova orale, in cui Pêcheux mi spara contro una serie di domande riguardo a certi filosofi e rispettive opere: Althusser, Lacan, Bachelard, Canguilhem (ma anche il Jean-Claude Milner di L’amour de la langue, che io avevo appena letto) e, naturalmente, Spinoza (se ben ricordo, qualcosa riguardo l’Appendice alla Parte Prima dell’Etica). Il fatto che avevo superato l’esame fu segnalato dalla frase, pronunziata a mo’ di finalino: “on a fait ses devoirs”. Ho poi trascorso la settimana seguente a tradurre la conferenza di Pêcheux (“Discorso: Struttura o Evento?”) seduto al tavolo della cucina di casa sua. L’anno successivo, Roudinesco mi ha  presentato a Macherey. Poco dopo ho incontrato Balibar, Lecourt, Negri ed altri. Verso la fine degli anni Ottanta, Balibar e Macherey erano ormai miei amici e mentori.

 

Il tema del tuo primo studio pubblicato, The Unthinkable Swift, è il pensiero politico di Jonathan Swift. Chi era Jonathan Swift, e perché hai deciso di studiare il suo pensiero? Tu sostieni che i suoi scritti fossero surdeterminati dalla congiuntura storica che va dal 1688 – il fallimento definitivo dell’Assolutismo – al 1714, con la nascita del moderno stato britannico. In che misura ciò riflette un rapporto dialettico tra base e sovrastruttura ideologica? Quale parte del suo pensiero trascende quello specifico periodo, e conserva una sorta di relativa autonomia? 

Swift (1667-1745) è stato un sacerdote della Church of Ireland (costola irlandese della Chiesa Anglicana) le cui due opere principali, la Favola della botte e I viaggi di Gulliver, sono stati per me una sorta di laboratorio in cui testare, e dov’era il caso modificare, la pratica di lettura  materialistica sviluppata nell’introduzione di Althusser a Leggere il Capitale e in Per una teoria della produzione letteraria di Pierre Macherey[1] (testi che avevo letto “parola per parola” con Goshgarian). Il fatto che entrambe queste opere di Swift fossero non soltanto delle satire (il che già complicava l’idea di lettura sintomale), ma satire le cui stesse “norme” positive erano continuamente messe in questione da un’ironia che non lasciava intatta alcuna posizione etica o politica, poneva certe sfide a questa teoria. Nella Favola della botte, per esempio, Swift attacca contemporaneamente sia i nemici della sua Chiesa (atei, non-conformisti puritani e cattolici romani) sia origini e istituzioni della Chiesa stessa, come se la satira colpisse ben oltre il suo bersaglio, compiendo una distruzione generale che non lascia in piedi alcunché, e privando lo stesso Swift di un punto d’appoggio. Anziché concludere l’analisi a questo punto, alla maniera del decostruzionismo americano degli anni Ottanta – che era motivato dal bisogno di de-politicizzare e de-storicizzare la letteratura – mi rivolsi a Swift con una domanda preliminare: quali sono le contraddizioni peculiari a questo tentativo di abolire tutte le contraddizioni, non “a priori” bensì in una particolare congiuntura che si realizza all’interno dei e attraverso i materiali letterari, filosofici e politici a disposizione? Per rispondere a questa domanda lessi il testo parola per parola e ripercorsi catene semantiche che mi portarono fuori dal testo in questione, verso altri scritti cui esso era rimasto legato. Se il mio libro dovessi scriverlo oggi, avrebbe senza dubbio un aspetto molto diverso: nell’esposizione procederei dall’interno verso l’esterno. Invece di cominciare come feci, con una lunga analisi della storia inglese e irlandese e della posizione ivi occupata dalla chiesa anglicana, seguirei le tracce di parole e di frasi che conducono fino a quelle storie. Ai critici non piacque il mio excursus storiografico, non perché non fossero d’accordo con quanto avevo scritto (a pochi la faccenda interessava a tal punto da poter dirsi d’accordo o in disaccordo con me), ma perché non ne vedevano la rilevanza. Se avessi seguito l’altro procedimento, i lettori avrebbero visto con maggiore immediatezza come il fatto di parlare e scrivere dall’interno della Chiesa – intesa come condensazione di forze sociali (per adoperare la frase di Poulantzas), le cui funzioni ideologiche e disciplinari precedono la propria giustificazione in termini di dottrina – desse forma a quel materialismo che le satire di Swift producono.

Non direi che le opere di Swift posseggano un valore o un significato universale o trans-storico che rimane immutato a dispetto del costante cambiamento del mondo che sta loro intorno. Ma neppure sarebbe esatto considerarle come delle macchie di Rorschach sulle quali ciascuna epoca proietta i propri significati. Direi invece che uno scritto come I viaggi di Gulliver ha funzionato come un objet trouvé, un ‘ready-made’ che il movimento storico ha separato dal suo contesto originario e che si ripresenta in una modalità che non è né riducibile né indipendente da quella iniziale. Anziché domandarci quale realtà rifletta – come se fosse un “epifenomeno” che è reale solo in quanto si riferisce alla realtà primaria che riflette – potremmo chiederci quali effetti abbia prodotto come “cosa singolare”, stabilendo con tutta una serie di altre cose singolari certe relazioni che fanno sì che l’opera venga letta in differenti maniere.

 

Nell’introduzione che hai scritto alla raccolta di testi di Pierre Macherey pubblicata in inglese come In a Materialist Way, sostieni che nel suo primo libro Per una teoria della produzione letteraria, lungi dal propugnare un’analisi formalista del testo, Macherey faccia proprio un close reading dell’opera letteraria che conduce verso il contesto storico: “per quanto coerente o unitaria appaia l’opera, essa non può sfuggire ai conflitti sociali, storici, che attraversano il campo in cui essa emerge”. Potresti diffonderti maggiormente su questo metodo di lettura? Che cosa comporta in termini epistemologici rispetto all’analisi del testo letterario? Potremmo applicare la stessa epistemologia a un testo di teoria politica? In che modo Macherey ci aiuta ad evitare un riduzionismo sterile?

Sembrerà paradossale – specialmente a quei lettori anglofoni che rimangono fissati con l’anti-hegelismo di Althusser, Balibar e Macherey intorno al 1965 (a dispetto dell’evidenza in senso contrario, sia prima che dopo quel periodo lì) – ma c’è qualcosa di irriducibilmente hegeliano nella lettura di Marx che fa Althusser (anche rispetto al residuo “hegelismo” di Marx, la specifica tendenza all’interno del pensiero di Hegel cui Marx – uno dei “figli senza padre” della storia – si rivolge onde teorizzare la forma specificamente capitalistica dell’accumulazione e dello sfruttamento). Questo è altrettanto – se non maggiormente – vero per Balibar e Macherey e la loro lettura di testi filosofici e letterari. Potremmo riassumere questa eredità hegeliana nell’idea che questi testi sono intelligibili, cioè diventano gli oggetti di una conoscenza adeguata, solo sulla base di contraddizioni che possono essere intese come la loro causa immanente. Ma la ‘contraddizione’, parola che Macherey evita sistematicamente di utilizzare in Per una teoria della produzione letteraria, non può essere intesa in senso formale (lo stesso Hegel respingeva con veemenza l’idea di una “dialettica formale” come imposizione di un unico modello a qualsiasi contenuto), come se possedesse una sola struttura invariante. Macherey aveva proposto di sostituire “contraddizione” con “conflitto” o “disordine”, il che si può intendere come una rielaborazione del concetto. Nel caso dei testi letterari, l’idea di forma o genere comporta la suddivisione del testo in superficie disordinata e caotica da un lato e ordine nascosto o struttura profonda (in senso linguistico) dall’altro: il che rivelerebbe come il disordine in superficie altro non sia che un ordine nascosto. Macherey si oppone a questa visione e insiste sul fatto che “l’opera non ha interno né esterno: o piuttosto… il suo interno è come un esterno, esibito, spalancato”. In questo modo, il testo è solo superficie, senza una dimensione nascosta sulla base della quale i suoi elementi discordanti e contraddittori possano essere riconciliati. Qui possiamo rilevare la presenza di Spinoza, in particolare del capitolo VII delTrattato teologico-politico, e la sua critica delle pratiche esistenti di esegesi biblica. In assenza di “profondità”, i difetti, le lacune e le incongruenze della Scrittura si solidificano in qualcosa di irriducibile, che va spiegato in base alle proprie cause anziché venire minimizzato o esorcizzato. 

Questo a sua volta ci permette di comprendere i paradossi dell’attuale contro-offensiva anti-Althusser e anti-Macherey, che contrappone una lettura “di superficie” alla [althusseriana] “lettura sintomale” (intesa come operazione che sarebbe volta a rivelare elementi nascosti, che necessariamente svaluterebbe la superficie in favore di ciò che essa tiene celato). Il concetto di “nascosto”, così come quello di “profondità” è qui definito in maniera assai larga: anche le “lacune”, i vuoti e le assenze possono essere definiti come cose “nascoste” sebbene in effetti non siano affatto presenti né all’interno né all’esterno del testo. In realtà ciò che è chiaramente visibile negli argomenti in favore di questa lettura “di superficie” è la volontà di riportare l’ordine nel testo, definendo la superficie testuale come una “struttura” o “forma”. In questo modo l’ordine precede il disordine, così come l’essenziale precede e definisce l’inessenziale. Ciò che è incongruente con tale struttura non è pertanto nascosto nel testo, bensì negato dal metodo stesso e respinto in quanto “epifenomenico”. Il conflitto è messo al bando, e con esso ogni possibilità di spiegare il testo se non come realizzazione di una forma pre-esistente.

Quello che ho chiamato il peculiare hegelismo di Althusser e Macherey ha reso ai miei occhi ogni testo filosofico – è il caso di Hegel – leggibile e davvero prezioso, in quanto non più espressione di una dottrina, bensì luogo di un conflitto. Per me è stato estremamente liberatorio leggere Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati di Althusser: i testi filosofici presentano tendenze antagonistiche, e leggere significa tracciare linee di demarcazione che servono a delineare tali antagonismi.

 

Nel 1997 viene pubblicato The New Spinoza, volume di cui sei curatore insieme a Ted Stolze. Pierre Macherey una volta ebbe a dire che: “studiare Spinoza dopo Hegel, ma non secondo Hegel ci permette di porre la questione della dialettica non-hegeliana”. Davvero Spinoza offre tale possibilità? E in che senso?

Sono tentato di dire che il posto giusto nel quale cercare una dialettica non hegeliana (che avrebbe prodotto il proprio concetto nel processo della sua auto-determinazione: quell’autocoscienza che è il correlativo del movimento attraverso cui diventa sé stessa) dovrebbe trovarsi all’interno dello stesso Hegel. Nella Scienza della Logica, Hegel definisce il “momento dialettico”, come quello in cui l’Idea Assoluta si determina “come l’altro da sé”. Ora, lo Spinoza di Macherey, distinto e separato dallo Spinoza di Hegel (cioè lo Spinoza che costituirebbe una fase necessaria ma subordinata nel processo che culmina in Hegel) può essere inteso come l’“altro” di Hegel, l’altro proprio di Hegel che lo contrassegna – osserva Balibar – come un “noi” anziché come un “io”. Anche Spinoza risulta diviso in virtù dell’essere inscritto in Hegel: lo Spinoza “orientale”, pensatore del mondo come emanazione dall’Uno indeterminato, e lo Spinoza pensatore dell’assoluta immanenza per il quale “Dio non è stato prima dei suoi decreti, né può essere senza di essi”. Se rimuoviamo la garanzia della “negazione della negazione”, che è inestricabilmente legata alla concezione di Hegel per cui la sostanza deve essere intesa come un soggetto capace di agire con un fine in vista, ecco svanire quella teleologia che non solo garantisce il raggiungimento del fine, ma anche la necessaria successione dei vari momenti lungo il cammino. Risultato: “non solo il reale rapporto tra filosofie non è più misurabile in base al grado di integrazione gerarchica, ma questo rapporto non è più riducibile a una discendenza cronologica che posiziona ciascuna filosofia rispetto all’altra in un ordine di successione irreversibile. In questa storia, che forse non è materiale, ma che non è più ideale, emerge un nuovo tipo contraddizione: una lotta tra tendenze che non porta in sé la promessa della propria risoluzione. In altre parole: unità dei contrari senza negazione della negazione”.

Certo, questo non suona molto spinoziano; in realtà Macherey ha tradotto Spinoza in un linguaggio hegeliano, o forse nel linguaggio di uno Hegel letto da Lenin (la lotta tra le tendenze) per meglio mostrare le differenze tra Spinoza ed Hegel. Ma il concetto di una dialettica sospinta dalla lotta, senza teleologia né necessaria “fatica del negativo” è già presente in Spinoza, in particolare nella sua definizione di “cose singolari” nella definizione VII della Parte Seconda dell’Etica:

Per cose singolari [res singulares] intendo le cose che sono finite e hanno una esistenza determinata. Poiché se più Individui [o particolari Cose Singolari] concorrono in un’unica azione in modo tale che tutti insieme siano causa  simultanea di un unico effetto, li considero tutti in quanto tali come una sola cosa singolare[2].

Il punto cruciale qui sta nell’osservare che Spinoza quando dice “concorrono” adopera il verbo latino concurro, anziché convenio o conjungoConvenio suggerisce accordo, compatibilità e armonia, mentre conjungo suggerisce un collegamento o intreccio, lasciando intendere che le cose singolari si uniscono e rimangono unite. L’impiego di concurro comporta una nozione più complessa, il “correre insieme” di forze opposte che si affrontano in battaglia e che formano così una sorta di “unità degli opposti” in virtù dell’antagonismo che le trae insieme in battaglia facendone “causa simultanea di un unico effetto”. Volendo distillare una dialettica da questo concetto, ne verrebbe fuori più uno sviluppo spinoziano di certe idee di Machiavelli che non un’anticipazione della dialettica hegeliana.

 

Lo strano caso del dottor Adam e di mister Smith

In Bodies, Masses and Power: Spinoza and his Contemporaries, del 1999, sostieni la tesi della “contemporaneità paradossale e insospettata di Spinoza”. Dove starebbe questa contemporaneità?

Direi che “contemporaneità” ha qui due significati diversi. In primo luogo c’è il dato di fatto: Spinoza, nella misura in cui viene riproposto, resuscitato o riabilitato, non è forse diventato nostro contemporaneo, non più semplice punto di riferimento bensì corpo di pensiero vivente, e  capace di crescere? La risposta qui è senz’altro un ‘sì’. Per motivi che ho spiegato nella prefazione a The New Spinoza, la radicalizzazione verificatasi a livello internazionale intorno al 1968 produsse tra i suoi effetti la rinascita di una teoria marxista le cui debolezze e lacune divennero però evidenti a livello pratico. Né le filosofie basate su Hegel o Kant né, successivamente, quelle fondate sulla filosofia analitica sono state in grado di identificare e tantomeno affrontare tali debolezze. Le prime si sono rivelate incapaci di separarsi dalle teleologie che affliggevano il pensiero marxista, mentre le seconde, che tendevano a vedere la teleologia ovunque (soprattutto nello strutturalismo) si sono rivolte all’individualismo metodologico di Hobbes e Adam Smith, senza alcuna consapevolezza delle tendenze provvidenzialiste – e pertanto teleologiche – cui esso è collegato.

Dai suddetti punti di vista Spinoza era incomprensibile. Ma per Althusser e i suoi colleghi – e anche per Negri – la critica svolta da Spinoza di concetti come ‘ordine’ e ‘provvidenza’, dell’emanatismo e della causalità espressiva, cioè la sua profonda assimilazione (ma anche trasformazione) di Epicuro e Lucrezio, nonché di Machiavelli (come hanno dimostrato Filippo Del Lucchese e Vittorio Morfino) permetteva di riconoscere questi problemi come problemi nostri. Allo stesso modo, il fatto che Spinoza problematizzi l’idea per cui la mente attraverso un atto di volontà muova il corpo, e pertanto che la convinzione “causi” l’azione, pone una profonda sfida alla teoria politica passata e presente.

Ma c’è un’altra questione che riguarda il rapporto di Spinoza con il presente: egli vi appartiene, d’accordo, ma che cosa ha da offrirgli? La risposta, naturalmente, sta in una serie di concetti – ivi compresi alcuni che nella sua opera esistono allo stato pratico – che possono essere messi a frutto. Per quanto mi riguarda, il più importante ma anche il più problematico è il concetto di ‘causa immanente’, perfettamente catturato nella dichiarazione di Spinoza nella Parte Prima dell’Etica,Proposizione 33, Scolio II, per cui “Dio non è stato prima dei suoi decreti, né può essere senza di essi”. Althusser insiste sul fatto che la nozione di causalità strutturale, “la presenza della struttura nei suoi effetti” – ovvero un altro modo di dire che la causa è assente al di fuori dei suoi effetti, che è sempre già rappresentata per delega attraverso una struttura metonimica – ha segnato una “distruzione delle teorie classiche della causalità”. Il modello di base e sovrastruttura, la determinazione delle ideologie da parte della base economica, concepito sulla falsariga di una causalità emanativa o espressiva, ha avuto l’effetto paradossale di legare il regno delle idee all’esistenza materiale, ma al prezzo di conservare l’immaterialità di un’ideologia che esisteva nel regno della coscienza in veste di credenze ed idee. La nozione althusseriana di Apparati Ideologici di Stato si basava invece sulla tesi che “l'ideologia ha una esistenza materiale”: un effetto di ciò era quello di eliminare la possibilità di una gerarchia ontologica vuoi del primato dello spirito sulla materia, dell’anima sul corpo, vuoi della materia sullo spirito, del corpo sull’anima. Sottolineo quale fosse l’obiettivo di Althusser perché si rischia di dimenticarlo. Mi riferisco a certe tendenze nell’ambito di quel movimento molto anglo-americano che è il “New Materialism”, che a me pare profondamente idealista: in primo luogo c’è una dichiarazione di indipendenza dalla storia della filosofia (facendo il verso alla filosofia analitica), come se uno potesse liberarsi dalla determinazione storica in virtù di una decisione o di un atto di fede; in secondo luogo, c’è la svolta in direzione degli oggetti (e, più recentemente, della materia) al posto del soggetto o dei soggetti  – attraverso la cui mediazione purtuttavia gli oggetti ci sono disponibili – svolta che dichiara lingua o discorso meri “epifenomeni”, un termine la cui funzione primaria è quella di smaterializzare ciò a cui viene riferito in base al ragionamento (platonico) che esso è troppo lontano dalla fonte della verità. È assolutamente prevedibile che tra una decina d’anni assisteremo ad un ritorno al soggetto, in reazione a questo oggettivismo grezzo e riduttivo. Siamo ben lontani dall’idea che la filosofia debba prima di tutto capire la congiuntura teorica e politica in cui esiste se vuole poter agire in modo efficace: che deve cioè confrontarsi con la propria esistenza materiale.

 

Tu sostieni con forza che, alla luce dei nuovi testi oggi disponibili, bisogna riconsiderare radicalmente l’opera di Althusser. Contro la lettura dominante che lo presenta come un austero marxista strutturalista, suggerisci che è più opportuno considerarlo un filosofo della congiuntura. Potresti diffonderti maggiormente sulla questione?

Siamo arrivati al punto in cui le pubblicazioni postume sono più numerose degli scritti pubblicati in vita da Althusser. Si tratta in buona parte di testi abbandonati in corso d’opera, le cui ambizioni grandiose rendevano impossibile portarli a termine. Questo non significa che siano privi di valore: le impasse cui giunse Althusser non sono affatto sua provincia esclusiva, e indicano bensì i punti in cui lo sviluppo del pensiero marxista – in tutta la sua diversità – è stato bloccato da cause vuoi esterne (le sconfitte e la smobilitazione che divennero sempre più evidenti nel corso degli anni Settanta), vuoi interne (l’incapacità di spiegare tali sconfitte e talvolta persino di riconoscerle, data la persistenza di modalità di pensiero teleologiche o provvidenziali). Oltretutto, il rifiuto da parte di Althusser da un lato di negare quella che lui stesso chiamò la crisi del marxismo, dall’altro di abbandonare il pensiero marxista regredendo a posizioni politiche e teoriche che erano per lui ormai impensabili (in base a quella che il filosofo francese definì la sua “prudenza teorica”), lo distingue dalla maggior parte dei suoi contemporanei. Geoff Goshgarian ha recentemente curato tre libri basati sui manoscritti dagli anni Settanta: Filosofia per non filosofi [3], Être marxiste en philosophie e Les vaches noirs.

Non tutti gli scritti pubblicati postumi rientrano peraltro nella categoria di cui sopra. Sia Machiavelli e noi [4] (sebbene incompleto) e il recentemente pubblicato Cours sur Rousseau sono tra le sue opere più importanti, come lo sono, in misura minore, Marx nei suoi limiti [5] e La corrente sotterranea del materialismo dell’incontro [6]. Fondamentalmente, le pubblicazioni postume archiviano l’idea che sia facile separare il “primo” dall’“ultimo” Althusser. Da questi scritti viene fuori invece una lotta di lunga durata che assume forme diverse e si svolge su terreni differenti; un lavoro di analisi interminabile che richiede un ripensamento e una rettifica costanti degli stessi principi di base. Ciò non implica che il suo lavoro abbia uno svolgimento semplicemente progressivo: al contrario, mi sembra che i problemi posti dal materialismo aleatorio del tardo Althusser ci riportino indietro, e proprio verso il punto più alto del suo presunto strutturalismo, verso le idee di causalità strutturale e dell’esistenza di una struttura nei suoi effetti. Penso in particolare alla sua definizione di necessità “come il divenire necessario dell’incontro di contingenze”. La questione della causalità, che si potrebbe immaginare esclusa da qualsiasi discussione dell’aleatorio, rimane un problema centrale nell’ultimo dei testi che ho citato sopra: “ogni determinazione di questi elementi non è assegnabile che nel ritorno all’indietro del risultato sul suo divenire, nella sua ricorrenza. Se bisogna dunque dire che non c’è alcun risultato senza il suo divenire (Hegel), bisogna anche affermare che non c’è alcun divenuto che non sia determinato dal risultato di questo divenire: questa ricorrenza stessa (Canguilhem)” [7].

Pertanto il suo lavoro dell’ultimo periodo può essere visto come un proseguimento delle precedenti, e altrettanto ellittiche, speculazioni sulla causalità strutturale: la struttura immanente ai suoi effetti non è un ordine nascosto o trascendentale, bensì un ‘grafico a dispersione’ o un ‘diagramma di divergenza’, in base al quale una causa assente o immanente ed il divenir-necessario dell’incontro possono essere intesi come una sola e medesima cosa. Se questo è vero, e la sua opera può esser vista come una incompiuta “sintesi disgiuntiva”, l’idea che Althusser vada inteso come uno strutturalista che applica il modello linguistico a fenomeni sociali e storici risulta chiaramente falsa. Ma forse è arrivato il momento di riconsiderare l’idea stessa di struttura nelle sue forme storiche concrete, per scoprirvi quei momenti in cui la struttura non è riducibile a ordine e unità, ma piuttosto consustanziale a una realtà diversa e conflittuale, aperta alla nostra partecipazione.

Non possiamo inoltre dimenticare l’importanza del lavoro di Althusser sul soggetto e l’ideologia. Direi che la linea di ricerca al centro della quale sta l’idea dell'individuo “interpellato come soggetto” e che inizia con Tre note sulla teoria dei discorsi [8] e si conclude con i saggi sugli Apparati Ideologici di Stato [9] (ma su quest’aspetto specifico Lo Stato e i suoi apparati purtroppo aggiunge ben poco) è tuttora ben viva – sebbene non senza rotture e mutazioni – soprattutto nel lavoro di Balibar. Ciò che Althusser presentava in forma di allegoria, quel soggetto interpellato che è sia protagonista di un’azione che essere assoggettato, Balibar lo considera dal punto di vista  storico al fine di mostrare il primato dell’assoggettamento sulla soggettivazione, come se il soggetto moderno in senso kantiano si fosse potuto sviluppare in relazione ad un assoggettamento che assume la forma dell’attribuire la libertà ad un essere che è già assoggettato. Balibar considera l’emergere del cittadino come una forma di quella che lui chiama “egalibertà”, che diventa però anche principio di esclusione ai danni di un’altra figura: quella dello straniero. Io e la mia collega Hanan Elsayed abbiamo curato una raccolta di saggi (ivi compresi due dello stesso Balibar) dedicati a questo tema: Balibar and the Citizen Subject.

 

Nel 2014 hai scritto insieme a Mike Hill un libro intitolato The Other Adam Smith. Chi è l’altro Adam Smith? Adam Smith era davvero un sostenitore acritico della razionalità del mercato senza restrizioni, cui lo Stato permette di obbedire soltanto alle leggi immanenti al mercato stesso?

Abbiamo evitato a bella posta di formulare la domanda (figuriamoci poi la risposta) se Adam Smith fosse buono o cattivo, che domina purtroppo, esplicitamente o implicitamente, buona parte della discussione accademica su Smith. L’opinione oggi prevalente è che Smith fosse un’anima più gentile, più buona di quanto non si pensasse una volta: certamente più umano di Milton Friedman o di Hayek. Dopo tutto, la sua Teoria dei sentimenti morali pone la simpatia, o il cameratismo, a fondamento della morale: una posizione che si oppone alla – o perlomeno qualifica la – nozione di interesse (o interesse personale) come passione che conduce verso la società quale mezzo più razionale in vista dello scopo (stando alla Ricchezza delle Nazioni).Mettere in discussione tutto ciò significa oggi esser considerato un apologeta delle più crude espressioni del fondamentalismo di mercato, un incolto che non s’è preso la briga di leggere nient’altro che qualche paragrafo della Ricchezza delle Nazioni.

Mike Hill ed io ci siamo messi a leggere quanto più esaustivamente possibile e abbiamo prestato particolare attenzione ai tanti passaggi delle opere – in teoria conosciutissime – di Smith dei quali praticamente nessuno discute. Nella Teoria dei sentimenti morali, le scene di sevizie, le punizioni ed esecuzioni, l’impermeabilità degli individui alle urla del loro “fratello sotto tortura”, la notevole capacità da parte degli indiani d’America di resistere ai tormenti più raffinati e ancora il “trasporto” che un uomo sente nell’assistere all’impiccagione di un criminale comune: tutto questo in un libro dedicato alla simpatia. Nella Ricchezza delle Nazioni ci sono le indelebili – ma raramente prese in esame – immagini delle carcasse di cani e gatti morti, grazie alle quali “ancorché putride e puzzolenti” i lavoranti cinesi riescono non solo a sopravvivere, ma anche a nutrire i propri figli (o meglio quelli di loro che sopravvivono all’esercizio della “licenza di ucciderli” da parte dei genitori).

Siamo stati così in grado di tracciare linee di demarcazione che rendessero visibili le fenditure che attraversano i suoi testi, anche se non corrispondono a una divisione tra buono e cattivo, o tra capitalista e non capitalista. Quello che abbiamo scoperto è la paura, ma anche il riconoscimento, dei faticatori che lottano per mantenere i livelli salariali vigenti contro il fronte padronale deciso ad abbassarli, nonché della violazione organizzata del diritto di proprietà quando i prezzi delle cibarie aumentano al di là della capacità delle persone di pagarle e la folla ridistribuisce il grano prelevandolo dai magazzini dei mercanti. Ma l’interesse di Smith si estende perfino al corpo del singolo lavoratore in quanto egli resiste alla sottile coercizione del lavoro come funzione vitale. Fuori della divisione del lavoro e dell’organizzazione dello spazio e del tempo che il padrone impone al lavoratore senza dire una parola, tale resistenza prende la forma della conservazione di energia da parte del corpo: il lavoratore “si divaga” o “si trastulla” ed è “indolente” [10]. Questa resistenza è la resistenza alle esigenze del mercato e quindi alla razionalità di mercato, e come il “saccheggio” dei magazzini, rappresenta il punto in cui la logica immanente del mercato si scontra con la vita. Qui Smith sospende la sua argomentazione, lasciando che sia il lettore a giungere alla conclusione che la morte altrimenti evitabile di alcuni degli affamati sia un male che deve essere permesso così che un bene più grande possa seguirne. In Inghilterra o in Francia, sostiene Smith, dove non ci può mai essere una vera e propria carenza di grano, ma soltanto “spiacevoli”  temporanee fluttuazioni dei prezzi, bisogna lasciare che all’indisponibilità di cibo ponga rimedio il mercato, senza interferenze statuali attraverso il controllo dei prezzi o distribuzioni d’emergenza. Ricchezza delle Nazioni, in particolare, ci mostra l’esistenza non tanto di un altro Adam Smith nel senso di quello “buono” da contrapporre a quello “cattivo”, bensì dell’altro che è sempre presente nella sua esposizione. La sua paura delle grandi folle è dunque la paura di ciò che egli stesso ha dimostrato: l’irriducibile resistenza collettiva che sorge necessariamente come conseguenza di e contro le leggi immutabili del mercato.

 

Oltre un anno fa hai scritto un testo sulla congiuntura greca intitolato No. La situazione da allora è cambiata radicalmente in peggio, Syriza ha firmato nuovi memorandum e sta attuando le più radicali misure neoliberiste che la società greca abbia mai sperimentato. Nonostante tutto ciò, quale ritieni essere il principale retaggio politico della decisione che il popolo greco fece nel luglio 2015?

Nel momento in cui scrissi quel testo, appena prima del referendum del 5 luglio, ero assolutamente convinto che Syriza, proponendo il referendum sulle condizioni di bailout offerte dalla Commissione Juncker, dalla BCE e dal Fondo Monetario Internazionale, si fosse impadronito dell’iniziativa politica. Mi pareva che Syriza avesse messo a punto una strategia che non poteva fallire: se il referendum fosse passato, il partito avrebbe potuto dichiararsi indisponibile ad attuare le misure delineate nel piano di salvataggio e dimettersi; se il referendum non fosse passato, e segnatamente nel caso di un margine significativo (che fu poi effettivamente conseguito) Syriza avrebbe cominciato a mobilitare il popolo per la lotta a venire, mettendo in evidenza fino a che punto i leader non eletti di istituzioni che operano in gran parte al di fuori di qualsiasi controllo e responsabilità democratici governino di fatto l’Europa; e mostrando agli altri paesi indebitati che a questi poteri è possibile resistere. Ciò avrebbe incoraggiato le varie popolazioni europee a mobilitarsi per analoghi obiettivi.

Le settimane che seguirono hanno dimostrato come questa analisi fosse basata su una serie di illusioni e fantasie apocalittiche che sono l’inevitabile risultato di un equilibrio delle forze da lungo tempo sfavorevole alla sinistra, una sorta di marginalizzazione permanente che scoraggia la sinistra dal “prepararsi al potere”, fosse anche quel limitato potere che viene da una maggioranza parlamentare che ti fa diventare partito di governo. Syriza e il resto della sinistra greca erano impreparati sia all’intensità che alla rapidità dell’offensiva lanciata contro di loro, e impreparati di fronte alla specifica strategia di tale offensiva. Ci sono versioni contraddittorie riguardo ai dibattiti interni e alle discussioni precedenti il referendum, ma la sostanza è chiara: la sinistra interna ed esterna a Syriza non disponeva di un piano praticabile ed approfondito, né per un ritorno alla dracma né per mantenere l’euro ma a nuove e più favorevoli condizioni.

Stante il controllo delle banche da parte delle istituzioni europee, appariva chiaro come l’economia greca potesse essere portata alla paralisi abbastanza facilmente e come i tedeschi e i loro alleati fossero pronti ad affamare il popolo greco qualora il partito di governo non avesse accettato  le condizioni del piano di salvataggio. Non c’era alcun bisogno di un’invasione, come sarebbe potuto accadere un tempo, né di un colpo di stato progettato dalla BCE e dal FMI. La minaccia era già abbastanza grande da costringere Syriza alla ritirata totale, con uno scampolo testimoniale non disposto a genuflettersi di fronte ai barbari. In realtà, le strategie di entrambe le tendenze del partito si basavano su scenari altrettanto irrealistici: la leadership di Syriza sperava che la troika potesse far marcia indietro di fronte all’espressione della volontà del popolo greco, che conferiva piena legittimazione al partito. La sinistra di Syriza spingeva per un’uscita dall’euro, ma senza poter contare né su di un piano per la transizione, al di là di qualche abbozzo sparuto, né, cosa ancora più importante, della mobilitazione popolare necessaria alla messa in atto di qualsivoglia piano. Decretare l’uscita dall’euro senza il sostegno attivo di una grande maggioranza della popolazione sarebbe stata una forma di putschismo destinata al fallimento immediato, le cui conseguenze per la popolazione avrebbero potuto risultare devastanti. La firma del memorandum il 13 luglio del 2015 ha innegabilmente segnato una sconfitta enorme ed è servita a mo’ di avvertimento per partiti come Podemos e per le popolazioni di Spagna e Italia, che per quanto brutta sia la situazione, potrebbe mettersi molto peggio ed in seguito a poco più di qualche battuta su una tastiera.

Ma quella greca è una lunga battaglia nell’ambito della guerra di classe globale, e andrebbe studiata in dettaglio. Come avrebbe potuto la sinistra prevedere, ostacolare e controbattere l’assalto della Troika? Questa lotta ha messo a nudo i punti deboli di una sinistra abituata al ruolo di opposizione parlamentare sostenuta da manifestazioni di massa, ma ha anche rivelato le opzioni strategiche a disposizione dei poteri dominanti, stante le nuove e continuamente evolventisi forme finanziarie di dominio e le tecnologie a loro disposizione. Queste non sono più un segreto e non ci può essere nessuna strategia per la transizione verso un diverso tipo di società senza un’attenta considerazione del modo migliore per organizzare la difesa del popolo contro di esse e, soprattutto, senza pensare le caratteristiche di un’eventuale controffensiva. La sinistra oggi, sia in Grecia che altrove, non può permettersi molte altre sconfitte del genere. Disarmiamo noi stessi se lasciamo che termini morali come tradimento e fedeltà, eroismo e martirio prendano il posto di un’analisi esaustiva della sconfitta e di una strategia globale basata su detta analisi, che possa determinare una svolta decisiva riguardo all’equilibrio delle forze. E, come ha osservato Machiavelli, il profeta disarmato va incontro alla rovina.


[traduzione di Angelo Foscari]

NOTE
[1] Del testo di Althusser esistono due traduzioni italiane: quella “storica” di Raffaele Rinaldi e Vanghelis Oskian, in L.Althusser e E.Balibar, Leggere Il Capitale, Feltrinelli, 1968; e quella più recente di Vittorio Morfino, in Althusser, Balibar, Establet, Macherey, Rancière Leggere Il Capitale, a cura di Maria Turchetto, Mimesis, 2006. Il libro di Pierre Macherey è stato tradotto in Italia solo parzialmente: la prima parte come Per una teoria della produzione letteraria, tr. it. di Paola Musarra e Luigi M. Cesaretti, con prefazione di Emilio Garroni, Laterza, 1969; e una porzione della terza parte come Jules Verne o il racconto in difetto, a cura di Fabrizio Denunzio e con una prefazione dell’autore all’edizione italiana, Mimesis, 2011.
[2] Baruch Spinoza, Etica. Dimostrata con Metodo Geometrico, a cura di Emilia Giancotti, Editori Riuniti, 1988, p.124 (trad. lievemente modificata, NdT)
[3] Or. Initiation à la philosophie pour les non-philosophes, tr. it. di Gaia Cangioli e Vito Carrassi, Dedalo, 2015.
[4] Tr. it. di Maria Teresa Ricci, Manifestolibri, 1999.
[5] Ed. it. a cura di Fabio Raimondi, Mimesis, 2004.
[6] In Sul materialismo aleatorio, introduzione e cura di Vittorio Morfino e Luca Pinzolo, Unicopli, 2000.
[7] Ivi, p.101.
[8] In Sulla psicoanalisi, tr. it. di Gabriele Piana, Cortina, 1994.
[9] Si tratta di Ideologia ed apparati ideologici di Stato, in Freud e Lacan, a cura di Claudia Mancina, Editori Riuniti, 1977; e di Sur la reproduction, tr. it. di Maria Teresa Ricci Lo Stato e i suoi apparati, a cura di Roberto Finelli, Editori Riuniti, 1997.
[10] Cfr. Ricchezza delle Nazioni, tr. it. di Alberto Campolongo, introduzione di Augusto Graziani, UTET, 1948, p.13.
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